DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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Un fantasma nei geni. Il Dna non svela i segreti della vita. di Carlo Bellieni

La vita non è semplice e riducibile a nostri schemi. Ne è un esempio lo studio del Dna. Notizia recente è che chi pensava che il Progetto genoma svelasse il segreto della vita deve ricredersi: appena nata, la decifrazione del genoma umano come spiegazione della vita è già vecchia, tanto che l'agenzia scientifica "Nova" titola: Un fantasma nei tuoi geni per spiegare come un secondo genoma tutto ancora da scoprire agisca sul Dna.
L'ultimo numero della rivista della American Society for Cell Biology (aprile 2010) si dilunga su come insegnarlo al pubblico e nelle università; Eva Vermuza su "Menome" del 2003 già scriveva: "Come può una molecola composta di soli quattro elementi generare tanta complessità? La risposta semplice è che il Dna non lavora da solo". Non è fantascienza, ma epi-genetica: le informazioni del nostro Dna vengono cioè influenzate dall'ambiente che, attraverso un sistema di molecole interno alla cellula, agisce sopra (epi) il dna (genetica). E questo sistema di regolazione superiore agisce come un vero e proprio lettore per il Dna che risulta simile a un cd: pieno di musica ma inerte senza l'apparecchio che lo sa leggere. Dunque la sola decifrazione del genoma - certo ottima a fini terapeutici - è un passo ancora primordiale nella comprensione del funzionamento delle strutture biologiche. E Manel Esteller su "Lancet" del gennaio 2006 ha ben ragione di scrivere: "Noi non siamo i nostri geni. Non possiamo prendercela solo coi geni per il nostro comportamento o per la nostra suscettibilità alle malattie": la vita non è assimilabile e riducibile alla sequenza delle basi del Dna.
Insomma, chi crede di leggere il genoma e capire la vita si sbaglia di grosso: il numero di geni dei mammiferi è simile, ma diverso è il sistema superiore incaricato della lettura, legato alla genetica e all'ambiente. Per non parlare delle differenze morali. Scrive ancora Manel Esteller: "Uno dei risultati più sorprendenti del confronto dei genomi di varie specie animali è quanto simili essi siano. Il genoma del topo non differisce molto da quello dell'uomo. Come possiamo allora spiegare le differenze?". L'epigenetica, ovvero la supervisione dell'ambiente sul Dna, è un'introduzione a questa risposta: l'espressione della vita non dipende solo dal Dna, ma da come questo viene fatto parlare dall'ambiente, introducendo a un'armonia che supera la mera casualità.
Non stupisce quindi che gli studi sull'ereditarietà dei cambiamenti epigenetici, come quelli dell'americano Michael Skinner, direttore del Centre for Reproductive Biology a Washington, abbiano dei riflessi anche sul concetto di evoluzione, certamente tutti da valutare e soppesare con attenzione, ma che non possono essere sottaciuti, dato che appare che l'ambiente può inibire l'espressione di un gene - e non più solo selezionare mutazioni casuali dei geni stessi - e questa inibizione viene trasmessa alle generazioni successive. I cambiamenti fisici, dunque, non avverrebbero solo per mutazioni casuali del Dna, ma anche in seguito a inibizioni da parte dell'ambiente sull'espressione di alcuni geni. Didier Raoult sempre sulla rivista "Lancet" (gennaio 2010) spiega che addirittura il patrimonio genetico può nei secoli mutare per l'interazione con altre specie viventi.
Si apre così, indubbiamente, un nuovo scenario che lascia intravedere che non solo il caso governa lo sviluppo della vita, ma che esistono una collaborazione e un'interazione tra ambiente e genetica in cui l'ambiente ha la funzione di catalizzatore e organizzatore. "Gli ecosistemi si evolvono per co-evoluzione e auto-organizzazione", spiega il chimico Enzo Tiezzi, premio Prigogine 2005, nel suo Steps Towards an Evolutionary Physics (2006) indicando che l'evoluzione non è cieca, o perlomeno non è una folle corsa: "L'avventura dell'evoluzione biologica è un'avventura stocastica, dal greco, che significa, "mirare con la freccia al centro del bersaglio"": come le frecce arrivano in ordine sparso sul bersaglio, ma tutte protese verso il centro da parte dell'arciere, così anche l'evoluzione appare avere un'armonia di base. "Purtroppo - spiega ancora Vermuza - tra gli evoluzionisti c'è un'aura di deificazione di Darwin, che tende a soffocare il dibattito". Questo anche se, come fa Matt Ridley sul "National Geographic" del febbraio 2009, si può riconoscere che, nonostante delle geniali intuizioni, "le idee di Darwin sul meccanismo dell'ereditarietà erano sbagliate e confuse". L'epigenetica offre una visione nuova dello sviluppo della vita sulla terra, che non suona più come una lotta per la sopravvivenza in base a mutazioni casuali, ma appare la possibilità di un'armonia in cui si nota sorprendentemente, invece di una spietata competizione, una possibile collaborazione.
Ma c'è un ultimo aspetto che l'epigenetica illumina: l'effetto dell'ambiente sul Dna può essere anche legato a un intervento umano. Dei ricercatori del Maryland su "Fertility and Sterility" del febbraio 2009 scrivono: "È stato chiaramente dimostrato che stimolazioni ovariche e manipolazioni dell'embrione associate con la Fiv (fecondazione in vitro) sono causa di disordini dell'imprinting genomico nell'animale. E la percentuale di malattia di Angelman o Beckwith-Wideman causate da difetti dell'imprinting genomico in bimbi nati da Fiv è molto maggiore che negli altri, rafforzando la nozione che la Fiv causi disordini dell'imprinting". Il Dna è fragile e in certi casi porta memoria di ciò che lo influenza, come è ben spiegato anche sulla rivista "Reproductive Health" (ottobre 2004): "Una potenziale alterazione dell'imprinting genomico potrebbe risultare dalla manipolazione dell'embrione nelle prime fasi". Questo non significa un'equazione tra manipolazione e malattia, anche perché queste malattie sono rarissime e gli studi vanno approfonditi, ma mostra una necessità di cautela: tanta delicatezza merita davvero un surplus di rispetto.


(©L'Osservatore Romano - 14 aprile 2010)

«Si può falsificare» E scatta l'allarme per il Dna

Pensate a due fratelli e a un enorme patrimonio custodito gelosamente dal padre. Uno dei figli, notoriamente il più scapestrato, per mettere le mani sul denaro, non esita a uccidere. E tenta di far cadere la colpa sull’altro. Per gettare luce sul delitto, niente di meglio che ricorrere al test del Dna. Ma, sorpresa, il risultato inchioda proprio il ragazzo angelico e insospettabile: quelle poche gocce di sangue trovate dalla polizia appartengono a lui. L’accusa non ha più dubbi. La giuria sembra condotta a una condanna annunciata. Eppure, l’errore giudiziario sta in agguato.

Com’è possibile? La prova genetica è considerata regina, quella che dà una quasi infallibile certezza del coinvolgimento in un crimine o permette di sostenere l’estraneità alla scena del delitto. Da quando è stata introdotta (l’Fbi americano ha cominciato a utilizzarla nel 1988, la sua "invenzione" risale a quattro anni prima) ha risolto moltissimi casi e tante vicende oscure del passato trovano una rilettura grazie alla tecnica allora indisponibile. Il test del Dna, ormai famosissimo grazie a tv, cinema e letteratura, ha anche salvato la vita a 17 condannati a morte negli Stati Uniti, trovati innocenti dopo la condanna attraverso il ricorso all’analisi genetica. Il perfezionamento della tecnica promette oggi sempre maggiore accuratezza e in pochissimo tempo, forse dall’anno prossimo, la polizia americana potrà contare su dispositivi capaci di leggere in tempo quasi reale il profilo cromosomico di persone sottoposte a fermo.
I problemi di privacy sono ben noti. Ma un recentissimo lavoro scientifico condotto da ricercatori di una società privata e della polizia israeliana sembra avere inferto un duro colpo alla possibilità di mantenere quello del Dna come unica e inconfutabile elemento d’incolpazione nel processo penale.

È stato infatti dimostrato che risulta possibile fabbricare in laboratorio prove genetiche assolutamente indistinguibili, perfino senza possedere materiale organico della persona in questione: basta avere accesso alla "scheda" di quell’individuo custodita in una banca dati, sia giudiziaria sia medica. E il compito è alla portata di un biologo senza particolari competenze in materia. «Si può facilmente manipolare la scena di un crimine», ha spiegato al <+corsivo>New York Times<+tondo> Dan Frumkin, primo autore dello studio, pubblicato su <+corsivo>Forensic Science International: Genetics<+tondo>. Lo scopo della Nucleix, l’azienda per cui lavora, non è del tutto disinteressato: la compagnia bio-tech di Tel Aviv ha messo infatti a punto un proprio test pensato per distinguere veri campioni di Dna da quelli "costruiti".

Torniamo ai due fratelli. È sufficiente prendere un mozzicone di sigaretta, un capello o un bicchiere da cui si è bevuto per estrarre il Dna del soggetto e creare un campione da rimettere su un’arma o su un passamontagna nella forma di uno schizzo di sangue o di una goccia di saliva. Non serve nemmeno un’abilità particolare, molti biologi (se disonesti) possono compiere un’operazione simile, senza bisogno di attrezzature speciali. Ed è forse possibile suddividere il "lavoro" in forma anonima tra centri che si occupano di genetica, facendo gli ordini via Internet, inviando e ricevendo i campioni per posta.
Il punto chiave è che i ricercatori israeliani hanno inviato armi e altri oggetti "sporcati" a laboratori utilizzati dalla Giustizia americana e nessuno dei tecnici abilitati ha notato nulla di anomalo analizzando la traccia. In un caso, dal sangue di una donna sono stati tolti i globuli bianchi (che contengono il Dna) e a esso sono poi stati aggiunti frammenti genetici tratti dal capello di un uomo. Tale reperto, sottoposto a uno dei centri più importanti negli Stati Uniti, è stato tipizzato senza incertezze come un profilo maschile.

I risultati dello studio di Frumkin e colleghi sono stati giudicati «preoccupanti» dall’American Civil Liberties Union: «Il Dna pare più facile da spargere sul luogo di un delitto delle stesse impronte digitali. E noi stiamo costruendo un sistema penale che sempre più si basa su questa tecnica probatoria».
Qualche perplessità è manifestata invece da Pietro Liò, docente di Bioinformatica all’università di Cambridge. «Difficile "invecchiare" e "frammentare" il Dna nel modo in cui di solito si presenta sulla scena del crimine – spiega –. Certo, oggi la tecnologia progredisce in modo rapidissimo e permette manipolazioni sempre più sofisticate. Che richiedono un supplemento di attenzione e ricerca. A favore della prova del Dna, va però ricordato che è possibile analizzare il profilo genetico di una persona anche mescolato a 200 tracce di altrettanti individui».

Concorda Lucia Bianchi, avvocato in Firenze ed esperta di genetica forense: «Nel caso dei fratelli, la difesa non avrebbe ceduto facilmente. Bisogna considerare l’alibi, il modo in cui le tracce possono essere state lasciate sul luogo del delitto. E poi non c’è solo la prova del Dna. Si considerano, ad esempio, le traiettorie degli schizzi di sangue. L’arma deve essere "truccata" a regola d’arte. Non basta il falso campione con cui sporcarla. Insomma, le falsificazioni mi sembrano molto difficili».
Resta il fatto che il test del Dna ha perso un po’ della sua aura di infallibilità. Benché la contromossa venga proprio dagli autori dello studio citato. Un’ulteriore analisi può scoprire che il campione genetico è artificiale (grazie al fenomeno della metilazione). Ma nessun laboratorio del mondo la esegue ancora...

Amdrea Lavazza

Avvenire 8 novembre 2009