DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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La vita non esiste. Il mondo inondato di nichilismo e lo stupore per un Dio che si fa uomo. Antonio Socci


Antonio Socci

Forse nessuno ve l’ha ancora comunicato, ma voi non siete vivi. Pensate di esserlo, ma “in realtà” non lo siete. Nessuno lo è (se lo venisse a sapere il computer dell’Inps non erogherebbe più pensioni).
Mi spiace dare la ferale notizia, che potrebbe mandare di traverso il panettone di Natale ai più sensibili. Del resto nemmeno il sottoscritto è vivente. Anzi, è la vita stessa che non esiste.
A fare il clamoroso “scoop” è stata una delle più blasonate riviste scientifiche del mondo, “Scientific American”. Un articolo del numero datato 2 dicembre infatti parla chiaro fin dal titolo: “Why Life Does Not Really Exist”.

L’ASSURDO

Come sono arrivati – questi pensatori – a fare una così straordinaria scoperta? La sintesi degli argomenti è fornita dal sommario dell’edizione italiana della rivista, ovvero “Le Scienze”.
Eccolo qua: “Malgrado secoli di discussioni, esperimenti, riflessioni e progressi scientifici, nessuna delle definizioni di ‘vita’ proposte finora riesce a discriminare in modo netto e soddisfacente fra ciò che chiamiamo animato e ciò che consideriamo inanimato. Forse perché il vero elemento comune delle cose che definiamo vive non è una loro proprietà intrinseca, ma la nostra percezione di esse”.
Se ho ben capito il passaggio logico è questo: siccome non si è ancora trovata una definizione di vita, la vita non esiste.
In effetti l’articolo della rivista scientifica così argomenta: “Perché definire la vita è così frustrante e difficile? Perché scienziati e filosofi hanno fallito per secoli nel trovare una proprietà fisica specifica o un insieme di proprietà che separi nettamente i vivi dagli inanimati? Perché una proprietà simile non esiste. La vita è un concetto che abbiamo inventato. Al livello più fondamentale, tutta la materia esistente è una disposizione degli atomi e delle particelle che li costituiscono. Queste disposizioni ricadono in un immenso spettro di complessità, da un singolo atomo di idrogeno a una cosa intricata come il cervello umano”. Finora abbiamo diviso il mondo in animato e inanimato, “ma questa suddivisione non esiste al di fuori della mente”.
Quindi, per questi scienziati, vostro figlio – che corre e grida in bicicletta, facendo un gran baccano – è vivo quanto il pezzo di ferro arrugginito che sta nella discarica.

DOVE STA L’ERRORE

La filosofia che sta dietro a questi ragionamenti, mi pare la seguente: ciò che io non so definire o non comprendo, non esiste. Ciò che supera le mie capacità di conoscere ed esprimere è una fantasia astratta.
Questa mentalità è parente di quella positivista che Albert Einstein stroncò così:  “Io non sono un positivista. Il positivismo stabilisce che quanto non può essere osservato non esiste. Questa concezione è scientificamente insostenibile, perché è impossibile fare affermazioni valide su ciò che uno ‘può’ o ‘non può’ osservare. Uno dovrebbe dire: ‘Solo ciò che noi osserviamo esiste’. Il che è ovviamente falso”.
Noi comuni mortali, armati di semplice buon senso (ma confortati dalla compagnia di Einstein), potremmo pensare che quanto scrive la nota rivista sia assurdo e vagamente ridicolo. La bizzarria di un commentatore.
Però c’è chi potrebbe indicare, alla base di quei ragionamenti, qualche filosofo importante.
Tutto ruota – come anni fa insegnava don Luigi Giussani – attorno al concetto di ragione che si ha. Per certi moderni (quelli di “Scientific American”) la ragione è come una scatola dentro la quale deve entrare tutto. Quello che non c’entra, magari perché è più grande, non esiste.
Per altre scuole di pensiero la ragione è come una finestra che si spalanca su un panorama che è più grande di lei. Quindi l’avventura della conoscenza è sempre un inoltrarsi nel mistero che ci avvolge e ci supera.
E’ così che il pensiero umano ha scoperto sempre nuove cose. E – di stupore in stupore – cerca la ragione ultima dell’essere.

NICHILISMO

A dire la verità ci sono stati dei filosofi greci che somigliavano ai pensatori di “Scientific American”. Ricordate Zenone di Elea, quello che sosteneva che il movimento non esiste? Non somiglia a coloro che oggi annunciano che “la vita non esiste”?
Il greco (i cui argomenti comunque non erano banali) fu confutato semplicemente da qualcuno che si alzò in piedi e prese a deambulare.
Anche la rivista americana potrebbe essere confutata concretamente mostrando una persona viva e un morto: “contra factum non valet argumentum”.
Tuttavia la replica è già contenuta nell’editoriale: “Non è che non ci siano differenze sostanziali tra esseri viventi e soggetti inanimati”, tuttavia “non troveremo mai una linea di demarcazione netta tra i due perché i concetti di vita e non-vita come categorie distinte sono proprio questo: concetti, non realtà”. Non è “una proprietà intrinseca” a rendere vive certe cose, ma “la nostra percezione di esse”.
Chi continuasse a ritenere ostinatamente che fra suo figlio e una pietra c’è una differenza sostanziale e incolmabile, chi pensasse che una creatura umana vivente non è una mera disposizione di atomi, dovrebbe prendere atto che oggi la mentalità dominante è quella espressa in un aforisma di Nietzsche: “non esistono fatti, ma solo interpretazioni”.
Idea in base alla quale per esempio si potrebbe anche argomentare che la realtà non esiste, ma esiste solo la nostra percezione di essa (e non esiste neanche la scienza, che diventa una fantasia fra le altre).
In effetti in base a questa mentalità ormai dominante oggi si sente teorizzare di tutto. La realtà si è persa e noi vaghiamo in un oceano di opinioni. A volte anche pazzoidi.
Sempre Nietzsche nel suo “Anticristo” aveva scritto: “Noi non facciamo più discendere l’uomo dallo spirito, l’abbiamo rimesso tra gli animali”.
Ora siamo andati oltre: l’uomo sta tra i minerali. Siamo meri grumi di atomi.
Una clamorosa eterogenesi dei fini per una cultura moderna che proclamava di essere nata dall’Umanesimo e dal Rinascimento che mettevano l’uomo al centro dell’universo.
Oggi l’essere umano vivente è un ferrovecchio da rottamare come una lavatrice obsoleta.
Sommessamente segnalo che Umanesimo e Rinascimento nacquero nell’alveo cristiano. Perché è il cristianesimo il vero illuminismo che ha esaltato l’uomo, la sua razionalità e ha salvato l’oggettività della realtà.
Senza questa radice, senza Dio – previde Chesterton – sparisce anche la realtà e si dovrà combattere per mostrare che i prati sono verdi e due più due fa quattro. Oggi siamo a questo punto.

“Libero”, 20 dicembre 2013
Facebook: “Antonio Socci pagina ufficiale”
 

Quando ci irridevano per la castità… Di Antonio Socci


Fummo una generazione irriverente, trasgressiva. Negli anni Settanta chi non ha fatto scioperi e okkupazioni? Il “vietato vietare”, il sei politico, poi gli spinelli, gli amorazzi usa e getta, il fanatismo ideologico, la violenza politica, i capetti intolleranti circondati di “compagne” adoranti.
Una generazione obbedientissima – come la giudicò Pasolini – ai padroni del pensiero dominante che la volevano rivoluzionaria.
Poi alcuni di noi hanno incontrato dei padri e hanno disobbedito ai padroni. Abbiamo sperimentato la vera libertà. Ci siamo avventurati in terre sconosciute, abitate da una bellezza mai immaginata, abbiamo sperimentato l’amicizia, l’autenticità, il gusto di una vita diversa.
Senza neanche metterlo a tema, seguendo il fascino di Gesù Cristo, ci siamo trovati a vivere lo splendore della castità, fra ragazzi e ragazze, e perfino a intuire la poesia rivoluzionaria della verginità.
Meravigliati da quanto era bello il volto della propria ragazza non ridotta a preda, a oggetto su cui sfogare la propria violenta solitudine.
E’ la sovrana e lieta libertà dei figli di Dio per cui Francesco d’Assisi poteva dire: “dopo Dio e il firmamento: Chiara”. E nel Testamento di Chiara si legge: “Francesco, nostra unica consolazione e sostegno, dopo Dio”.
Avevamo incontrato uomini veri e per nulla al mondo volevamo perdere quella nuova vita e quel gusto dell’esistenza.
Così diventammo gli “odiati ciellini”. Odiati dal branco dei “compagni” che, al mercato libertario delle facili carni (limitrofo alla bancarella dell’eroina), sghignazzavano sui preti e il papa e – com’era facile per gli sciocchi – sulla castità dei ciellini. In tanti casi dal disprezzo si passò pure alle spranghe, ai pugni, agli insulti.
Eccoli là, oggi, i compagni di allora. Non hanno fatto la rivoluzione, però molti hanno fatto carriera e soldi. E l’arroganza è spesso rimasta identica. Sotto la canizie e la calvizie ruggisce ancora il giovanotto fanatico di allora.
L’unica rivoluzione che hanno fatto – o meglio: che hanno servito – è stata la rivoluzione sessuale. Ad uso e consumo della società dei consumi.
Oggi la panza, che ballonzola dietro la loro cravatta di facoltosi giornalisti, potenti politici, baroni universitari, ammonisce e rimprovera. E – toh! – su cosa?
Contro il sesso sfrenato (ovviamente non il proprio: quello di Berlusconi). Pontificano accigliati contro il sesso usa e getta, tessono orazioni morali sulla dignità della donna, ci insegnano il sacro rispetto del corpo femminile, predicano il rigore morale.
In certi casi dall’alto di una vita, di una generazione, che ha conosciuto – dopo l’anarchia sessuale della giovinezza – il susseguirsi di matrimoni e relazioni…
Lo spettacolo è sorprendente. Forse è perfino occasione di riflessione. Mi sono trattenuto finora dallo scrivere sulle miserie della cronaca e ho risposto no ad alcuni talk show politici che volevano invitarmi a “giudicare da cattolico” le “notti di Arcore”.
Tuttavia da settimane vedo e sento alcuni ex rivoluzionari, con aria ispirata e virgineo candore, alzare il loro alto grido contro chi profana con immagini discinte “il corpo delle donne”, contro chi ha costumi sessuali sfrenati e – incredulo – mi stropiccio gli occhi.
Non solo ricordando le stagioni giovanili. Mi chiedo: ma su quali giornali hanno scritto finora? Su quali settimanali? Cos’avevano in copertina? Donne col burka? E quali libri hanno lanciato? Quali film e quali registi hanno esaltato? Quali costumi hanno praticato e legittimato? Quale morale hanno affermato?
D’improvviso sembra siano diventati tutti castigatissimi censori. Era inevitabile che una tale schiera di puritani si trovasse a fianco Oscar Luigi Scalfaro essendo, lui sì, un bigotto della prima ora. Ricordate l’episodio che lo ha reso “immortale”?
E’ la scenata fatta negli anni Cinquanta a una signora, casualmente intravista al ristorante, rea di avere un vestito scollato. Alla manifestazione “per la dignità delle donne” dunque parteciperà questo Scalfaro.
E leggo su Repubblica che “parteciperà anche Nichi Vendola: ‘Un’altra storia italiana è possibile, c’è un’Italia migliore per cui le donne non sono carne da macello, corpi da mercimonio, protagoniste solo in un establishment da escort’ ”.
Sì, caro Nichi (nei panni del teologo morale), questa Italia esiste. Ma sei sicuro che sia proprio quella che voi volete da decenni?
E’ meraviglioso lo slogan di questa sinistra: “Sono uomo e dico basta”. Ma basta a cosa? Alla famosa “libertà sessuale”? Allo slogan “il corpo è mio e lo gestisco io”? A questa sessuomania di massa?
Parliamone. A maggio scorso partecipai a una puntata di “Annozero” su preti e pedofilia. Fu molto interessante, ma ricordo che quando tentai di ampliare l’orizzonte proponendo di analizzare la (spesso patologica) sessuomania di massa che caratterizza i nostri costumi e la nostra cultura, Santoro troncò il discorso passando ad altro. Non lo ritenne interessante. Eppure è questo il clima irrespirabile.
Sono un padre, ho figlie giovani e mi fa schifo una società in cui delle giovani donne – in qualunque ambiente ! – sono discriminate se non stanno al gioco o non accettano certi compromessi. Mi fa schifo una società dove delle ragazze o dei ragazzi sono marchiati come cretini se dicono di credere nella castità o nella verginità.
O dove sei considerato un soggetto pericoloso se affermi che il matrimonio è solo tra uomo e donna, se ti ostini ad affermare che il genere non è un’opinione (che la natura – essere maschi e femmine – non è opinabile), se consideri il divorzio un male, se condanni l’aborto, la pillola del giorno dopo e se osi mettere in discussione il “sacro preservativo” venerato dalla cultura dominante.
C’è chi cerca di strattonare i cristiani per strappare loro qualche scomunica del peccatore Berlusconi. Gad Lerner ha amplificato la voce della suorina che ha tuonato “Non ti è lecito!” contro il Cav come il Battista contro Erode.
Bene. Con quella suorina però – a proposito di Erode – tuoniamo “non ti è lecito” pure contro una cultura dominante che a livello planetario ha legalizzato la pratica dell’aborto arrivando in cinquant’anni a totalizzarne un miliardo, una cultura che abbassa sempre di più il livello di difesa della vita umana.
E vorrei ricordare a quella suorina che Giovanni Battista tuonava soprattutto contro l’ipocrisia di scribi e farisei che chiamava: “Razza di vipere!”.
Anche Gesù tuonerà contro di loro. Lui mostra compassione per i peccatori, i pubblicani e le prostitute, ma non per i “sepolcri imbiancati” che puntano il dito sul peccato altrui: “essi all’esterno sono belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume”.
E’ di tutti noi che parla. Perché di un gran peccatore, come Zaccheo, Gesù può fare un santo, anche un grande santo come Paolo o Agostino. Ma di chi presume di giudicare gli altri, dei sepolcri imbiancati? Del resto loro saranno col dito puntato contro di Gesù fin sotto la croce.
Dicevamo della manifestazione per la dignità delle donne. Difenderanno anche la dignità calpestata delle donne nel continente islamico?
E la dignità delle donne cristiane in Pakistan, la dignità di Asia Bibi, giovane madre condannata a morte, tuttora detenuta e sottoposta a ogni umiliazione, perché cristiana?
E’ il cristianesimo che ha imposto di riconoscere alle donne la loro dignità.
Lo stesso Roberto Benigni, commentando la “preghiera alla Vergine” di Dante, ebbe a dirlo: “è da quando Dio stesso ha chiesto a Maria il suo sì o il suo no che le donne hanno acquisito il diritto di dire sì o no”.
Proprio ieri si festeggiava sant’Agata, vergine e martire. La storia di questa giovane del III secolo ci mostra l’unica vera rivoluzione che ha ridato dignità alle donne. Non certo la cultura di Repubblica e dell’Espresso o quella comunista (né, ovviamente, la cultura televisiva). Ma solo Gesù Cristo.

Un uomo (Giovanni Paolo II beato). Antonio Socci


Per noi cristiani non sono gli ecclesiastici a fare i santi, ma è Dio (la Chiesa semplicemente li riconosce e invita a farsi loro amici). I santi sono anzitutto uomini veri, la cui persona è resa affascinante, autentica, meravigliosa dall’amicizia con Gesù.

La loro vita però è un messaggio accorato di Dio a una certa generazione, a un’epoca e poi – più ampiamente – anche a tutte le altre.

Allora la beatificazione di Karol Wojtyla impone anzitutto questa domanda: cosa ha voluto dire Dio all’umanità del XX e del XXI secolo mandando un uomo così?

Perché quest’uomo è stato addirittura prefigurato e accompagnato da tanti segni anche soprannaturali ed è stato posto davanti al mondo intero con la sua elezione come Vicario di Cristo e con uno dei pontificati più lunghi della storia?

Secondo me il Cielo ha voluto dirci anzitutto due cose decisive.

Primo messaggio

Per capire la prima bisogna tornare a quel 16 ottobre 1978. Il pontificato di Paolo VI – apertosi con le luminose speranze del Concilio – si era concluso, come lui stesso dichiarò amaramente, sotto neri nuvoloni.

La tempesta che aveva colpito la Chiesa era gravissima. Il post-concilio e il Sessantotto furono dirompenti.

Circa 70 mila sacerdoti lasciarono l’abito, la pratica religiosa crollò verticalmente, l’anarchia e la contestazione nel mondo ecclesiastico sostituirono l’obbedienza, i cattolici – come disse Ratzinger – si trovarono portati qua e là da ogni vento di ideologia.

La solitudine dell’anziano papa Montini fu resa ancor più drammatica dall’esplosione della violenza politica e del terrorismo in Italia, un paese dilaniato dai conflitti.

La sensazione generale era che la Chiesa e il papato fossero ormai allo stremo e che il cattolicesimo fosse diventato residuale, una cosa per vecchiette e per bambini.

La sera del 16 ottobre 1978 quando quell’uomo giovane e vigoroso si affacciò col suo sorriso alla terrazza di San Pietro, infrangendo subito tutti i cerimoniali, con la libertà e la serena forza di chi è stato destinato fin dalla nascita a una missione grandiosa, tutti, perfino i più lontani dalla Chiesa, capirono che era accaduto qualcosa di inaudito.

Tutti rimasero a bocca aperta davanti al Papa venuto dall’Est, intuendo che era l’alba sorprendente di un giorno nuovo e che sarebbero accadute cose inimmaginabili. Dio stava “parlando”.

E papa Karol ci ha incantati subito. Ha catturato i cuori soprattutto della mia generazione e di tutte le nuove generazioni che si sarebbero affacciate sulla scena da allora in avanti: finalmente un uomo vero!

Di tutti i personaggi costruiti dai media, o comunque dal potere, chi poteva reggere il confronto? Assolutamente nessuno. E infatti per ventisette anni si sono visti, sulle tv del mondo intero, tutti i potenti dei più diversi stati e regimi che davanti a lui apparivano impacciati e insicuri come scolaretti.

Tutti ne subivano il fascino, tutti (a cominciare da Gorbacev che pare abbia addirittura pianto) si sentivano in soggezione nonostante il calore umano e la cordialità di quell’uomo.

Milioni di giovani sono corsi a incontrarlo ai quattro angoli del pianeta, incantati da un uomo che sentivano finalmente come padre vero, che comprendeva il loro desiderio di felicità, che svelava loro il senso della vita e che lo testimoniava con eroismo, con umanità e con gioia. Incantati dalle sue parole e soprattutto dalla sua persona, dalla sua libertà.

Era totalmente diverso dal cliché clericale, secondo cui i cristiani sono ometti impauriti dalla vita.

Era il papa che a vent’anni era stato operaio, poeta, attore di teatro, “combattente” nella tragedia della sua terra invasa da nazisti e comunisti e devastata; il Papa che poi era stato seminarista clandestino, giovane prete che amava andare in montagna con i suoi studenti e amava sciare e nuotare, il papa che era stato un intrepido vescovo quarantenne che si era opposto agli abusi della tirannia comunista a Cracovia e che poi ha partecipato al Concilio e poi è stato il ciclone che ha abbattuto il moloch planetario del comunismo, con la forza inerme della sua testimonianza, il papa che ha sfiorato più volte il martirio.

Ebbene quest’uomo dalla vita leggendaria, che ha percorso tutti i continenti, era la prova vivente che l’amicizia di Gesù rende più uomini e non meno uomini. Rende più autentici, più liberi, più umani, più ragionevoli, più felici.

Secondo messaggio

La seconda cosa che il Cielo ci ha detto mi pare la seguente: quest’uomo è il santo della Chiesa del silenzio, della Chiesa dei martiri, del secolo in cui si è perpetrato il più grande macello di cristiani in duemila anni di storia.

Egli appare anzitutto come il sigillo di Dio sull’età del comunismo. Sul secolo che ha visto consumarsi l’esperimento criminal-politico più vasto, duraturo e sanguinario della storia per l’eliminazione di Dio e della Chiesa dal mondo.

Giovanni Paolo II che sale agli onori degli altari dimostra che si realizza la profezia della più grande profetessa di tutti i tempi, Maria di Nazaret, quando proclamò: “Dio abbatte i potenti dai troni e innalza gli umili”.

Con la glorificazione di quest’uomo, che ha conosciuto sulla sua pelle il totalitarismo nazista e quello comunista e che ha rischiato il martirio per mano degli uni e degli altri, la Chiesa – in qualche modo – glorifica milioni e milioni di martiri del nostro secolo che sono stati massacrati nei Gulag, nei lager e in mille altri modi e il cui nome è scritto nei cieli, ma resta ignoto sulla terra.

Soprattutto quei martiri del comunismo che la Chiesa stessa – prima di Wojtyla – si vergognava di nominare, di celebrare e di indicare alla venerazione del popolo, per soggezione verso la prepotenza ideologica del comunismo mondiale.

La stessa soggezione che indusse qualche sventato ecclesiastico a evitare, al Concilio, con metodi scorretti, la condanna del comunismo, richiesta dai vescovi dell’Est europeo.

E’ evidente infatti che il comunismo per la Chiesa è stato una tragedia di natura teologica, come hanno dimostrato fior di pensatori, a cominciare da Augusto Del Noce. Del resto tutti i pontefici ne hanno denunciato la natura satanica e soprattutto lo ha fatto la Madonna a Fatima.

Il suo pontificato stesso, trascorso sotto il segno di Maria, è stato il capolavoro della Madonna che lo ha accompagnato da Medjugorije con le più lunghe apparizioni pubbliche di tutti i tempi.

Gratitudine

Giovanni Paolo II è stato infatti il Papa che ha re-insegnato alla cristianità la grandezza, la bellezza e la potenza della Madonna.

E questo è stato decisivo per la Polonia (che si riprese la sua libertà, ai cantieri di Danzica, inalberando l’icona della Madonna di Chestokowa) e grazie alla Polonia per tutto l’Est europeo e per il mondo.

Dunque bisogna prendere esempio da Giovanni Paolo il Grande, dal suo coraggio che gli faceva gridare a nome delle vittime davanti a tutti i tiranni.

E bisogna affermare a chiare note – senza timidezze – che oggi viene beatificato il Papa che – dopo aver denunciato la natura satanica del comunismo – con la forza della fede lo ha abbattuto.

Anche per questo è un santo a cui tutta l’umanità deve essere grata. Perché – come ho dimostrato, carte alla mano, nel mio libro (in queste poche righe sarebbe impossibile) – abbattendo il comunismo, per una via miracolosamente pacifica, egli ha probabilmente scongiurato una nuova (e stavolta fatale) guerra mondiale.

Attraverso di lui la Madonna ha salvato l’umanità da una autodistruzione che sarebbe stata definitiva.

Antonio Socci

Da “Libero”, 15 gennaio 2011


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Allora parliamo davvero di sesso. E Paradiso. A. Socci

“Che bello! E’ il teletrasporto!”. Così esclamò mio figlio, dodicenne, appassionato di tecnologie, fantascienza, computer, effetti speciali (va matto per il 3D).

Ma espresse quella sua meraviglia dopo avermi sentito parlare non di tecnologia, bensì di San Tommaso d’Aquino che stavo leggendo per un mio libro su Giovanni Paolo II.

Precisamente stavo chiacchierando con amici delle pagine in cui Tommaso illustra come saremo dopo la resurrezione dei corpi. Dicevo che avranno “sottilità e agilità”, cioè, pur essendo effettivamente di carne, non saranno più sottoposti ai limiti di tempo e di spazio come oggi, ma saranno sotto il perfetto dominio dallo spirito, dell’anima, della mente (e per questo saranno immortali).

Quindi – fra l’altro –potremo spostarci semplicemente col pensiero, superando qualsiasi barriera fisica o distanza (come riferiscono i vangeli di Gesù dopo la sua resurrezione).

Che la nostra futura “agilità” sia la realizzazione dell’odierno sogno (scientifico e fantascientifico) del teletrasporto – come dice mio figlio – non ci avevo pensato, ma è divertente da considerare.

In fondo i fenomeni di bilocazione che sono testimoniati nella vita di alcuni santi, come padre Pio, sono albori del giorno della gloria.

Rivelazione

La questione dei “corpi gloriosi” è in effetti assai poco conosciuta e anche assai poco spiegata dalla Chiesa. Sembra quasi “un tema teologico congelato” come ha scritto il filosofo Giorgio Agamben.

Invece è straordinariamente affascinante e opportunamente il numero appena uscito di “Civiltà Cattolica” gli dedica un saggio di padre Mario Imperatori, il quale critica l’unilaterale predicazione della sola salvezza dell’anima, da parte dei cristiani, sottolineando la necessità di annunciare (più giustamente e completamente) la resurrezione dei corpi.

La mentalità dei credenti è ancora molto gravata e inquinata dall’antico dualismo platonico che contrappone anima e corpo. Ma questo è l’opposto del cristianesimo, ha spiegato il grande Tommaso d’Aquino, che “in senso espressamente antispiritualista” fonda la teologia sulla Scrittura anziché su Platone. Il cristianesimo infatti non annuncia che esiste Dio, ma che Dio si è fatto carne, che è per noi morto e risorto nella sua stessa carne.

Ecco perché in queste pagine di Tommaso, riproposte dalla rivista dei gesuiti, non c’è nulla della paura del corpo e della sessualità che a volte ha connotato certi ambienti religiosi, più platonici che cristiani. C’è invece in Tommaso la straordinaria esaltazione del corpo e della sessualità umana.

Il senso del sesso

Visto il gran parlare (ossessivo e malato) che si fa di sesso e di corpi, su giornali e tv, vista la tracimazione della questione sessuale nel dibattito pubblico e anche nelle vite private, è veramente interessante leggere queste pagine per sondare fino in fondo che senso abbia il misterioso intrico dei nostri corpi, questa oscura sete di infinito che rende febbrile la carne, questo spasmodico desiderio del piacere che è al tempo stesso un modo per esorcizzare l’invecchiamento e la morte e una ricerca inconsapevole dell’estasi.

Come lo è la droga, che fornisce un’illusione di estasi “liberando” dai limiti e i dolori del corpo.

Noi infatti come sentiamo il corpo? Oscilliamo tra due estremi: da un lato è percepito come una fonte di piacere che diventa perfino ossessiva, totalizzante.

Dall’altra come un limite doloroso, una prigione da cui sfuggire e – in fondo – la fuga rappresentata dalle droghe o dall’alcol, pur diversissima, persegue lo stesso obiettivo cercato dalle religioni orientali.

Invece san Tommaso indica nella rivelazione cristiana la via (l’unica via) della felicità del corpo e dell’anima. Contemporaneamente. Quella felicità piena che sembrerebbe impossibile, quel piacere – anche dei sensi – che non finirà mai.

Ma andiamo con ordine, seguendo le interessanti pagine della rivista dei gesuiti.

Tommaso d’Aquino anzitutto mostra che nello stato originario, la sessualità di Adamo ed Eva – diversamente dalla nostra – era sottoposta alla ragione “il cui ruolo non era affatto quello di reprimere il piacere dei sensi che, al contrario, ne sarebbe risultato addirittura maggiorato”.

Si può fare un paragone per capirci: una persona in condizioni normali, di sobrietà, può gustare e godere di un ottimo vino molto più di un ubriaco che neanche si accorge più della qualità di ciò che beve.

Nel primo caso il piacere è maggiorato, nel secondo caso il consumo è compulsivo, malato e fa star male. E’ questa la conseguenza del peccato originale che ha sottratto il corpo al dominio dell’anima (e l’ha esposto fra l’altro alla malattia e alla morte).

Tommaso afferma peraltro che nell’uomo “l’anima è l’unica forma del corpo” e ciò significa che niente di quel che l’uomo fa è puramente animale, puramente biologico.

Né il mangiare e bere, né l’accoppiamento sessuale. Diversamente dall’animale, che semplicemente esaudisce un bisogno fisico, l’uomo ha dentro una domanda, una mancanza esistenziale, un desiderio di infinito che spiega perché è sempre insoddisfatto e perché nessun “consumo”, nessun possesso, lo appaghi.

La sua è una “fame” assai superiore al bisogno biologico. Infatti nasce dalla testa.

Tommaso trae un’ulteriore conseguenza dalla sua affermazione: la separazione di corpo e anima è “contro natura”. E la loro riunione, con la resurrezione finale, farà sì che godremo molto di più il piacere del Paradiso o soffriremo molto di più le pene dell’inferno, perché percepiremo il piacere o la sofferenza con tutti i nostri cinque sensi.

Il Sommo Piacere

Per questo – come scrive san Paolo – il nostro stesso corpo geme nell’attesa della piena redenzione, o del “sommo piacere”, come dice Dante. Infatti parteciperemo con il corpo stesso alla vita di Dio. E’ quello che la teologia ortodossa chiama “divinizzazione”. I padri della Chiesa ripetono: “Dio si è fatto uomo affinché l’uomo diventasse Dio”. Un destino dunque che – per grazia – è superiore addirittura a quello degli angeli.

I risorti saranno sempre fisicamente maschi e femmine, infatti Tommaso nega la presunta supremazia del maschio e – diversamente da quanto crede Aristotele – afferma che la donna non è affatto un uomo mancato, ma è opera di Dio pari all’uomo e la diversità dei loro corpi appartiene al disegno della creazione.

Anzi è un riflesso di quell’unità nella distinzione che connota le persone divine della Trinità.

Quindi la bellezza femminile, come pure la bellezza maschile, saranno parte della beatitudine eterna. Nei beati ci sarà un vero e proprio “splendore corporale”. Una bellezza tanto maggiore quanto più luminosa è l’anima.

Essi potranno vedere la divinità, cioè godere del “Sommo bene”, nei suoi effetti corporali “soprattutto nel corpo di Cristo, poi nel corpo dei beati e finalmente in tutti gli altri corpi”.

Questa “profonda associazione del corpo umano all’eterna beatitudine” è la sua inimmaginabile esaltazione. I risorti, maschi o femmine – dice Tommaso – “si serviranno dei sensi per godere di quelle cose che non ripugnano allo stato di in corruzione”.

Inimmaginabile beatitudine

Se qualcuno si poneva la domanda sul Paradiso e sul piacere sessuale, come lo conosciamo quaggiù sulla terra, avrà già trovato la risposta.

Ma – per chiarire meglio – la rivista gesuita riporta una fulminante pagina del filosofo ebreo-francese (e convertito) Hadjadj: “Tramite il sesso vogliamo essere sconvolti dall’anima. I genitali erano soltanto il mezzo difettoso di questa penetrazione dell’altro fino all’impenetrabile.

Con la risurrezione, a partire da un’anima che la visione beatifica di Dio fa ricadere sul corpo, è l’intera carne che possiede la penetrabilità fisica dell’altro sesso e l’impenetrabilità spirituale dello sguardo (…).

Inutile quindi unire le parti basse. L’intensità dell’amplesso e l’altezza della parola si sposeranno con questi corpi profondi all’infinito.

Le carni potranno unirsi senza riserve in un bacio di pace, che sarà altresì un inno lacerante al Salvatore”.

E’ il Paradiso.

Antonio Socci

Da “Libero” 7 novembre 2010

Nella fede di quei minatori rivedo mio padre. Di Antonio Socci

Tramite il sito Lo Straniero, il sito web ufficiale di Antonio Socci

Conosco gli uomini della miniera. Per una volta il mondo si è accorto di loro, laggiù in Cile, e subito la tv ne s’è impossessata: “ma io sono e voglio restare un minatore. Non trasformateci in star”, ha detto sanamente Mario Sepulveda, uno dei primi a riemergere dalle viscere della terra.

Mario ha anche urlato: “Questi incidenti non devono più succedere!”. Finalmente un uomo autentico.

Io li conosco perché sono nato in una famiglia di minatori, ho imparato dalla loro forza (anche nel dramma), dalla loro fede cristiana, dalla loro nobiltà. Conosco quell’allegria di naufraghi, di compagni che si dividono il pane, il sudore e il poco companatico.

Dentro la miniera cilena, fra i sepolti vivi, e sopra la miniera, fra i familiari, all’accampamento Esperança, si sono viste per settimane immagini della Madonna (con una statuetta di padre Pio) e bandiere del Cile, perché tutto quel Paese ha pregato e tutto quel Paese sente che gli uomini della miniera sono l’orgoglio della nazione, la sua dignità e la sua forza.

Sono cresciuto sulle ginocchia di uno di questi uomini, mio padre, ed è stato lui il mio orgoglio, la mia scuola di vita, la mia vera università, il mio “master a Oxford”.

Non mi ha insegnato l’inglese, ma mi ha insegnato la dignità, l’amore per la pittura del Trecento e per la musica, la fede cattolica e la passione per la libertà. Ho imparato da lui a non sopportare l’ingiustizia, l’ozio di chi ingrassa vizioso sul dolore di altri esseri umani.

E’ grazie a lui che non portai il cervello all’ammasso del conformismo rosso, negli anni del liceo, e non mi sono rincoglionito di chiacchiere o di droga. Neanche me lo potevo permettere: non avevo una lira in tasca e dovevo studiare (erano i figli di papà che potevano permettersi il lusso di fare i rivoluzionari, di non studiare o di sperperare soldi nella droga).

Grazie a mio padre non mi sono imborghesito nell’anima, perché so cosa vale nella vita (e non sono i soldi) e so che essere se stessi è il tesoro vero.

Qualcosa della rudezza “cafona” degli uomini della miniera, per fortuna, mi resta addosso e – trovandomi a lavorare nel mondo finto degli intellettuali, delle televisioni, delle curie, dei salotti e dei moralisti farisei – c’è sempre un padre e un nonno minatore nel mio sangue che si ribella al conformismo, all’ingiustizia, all’ipocrisia e grida sbrigativamente: “ma andate a farvi fottere!”.

Quei volti sporchi di terra che vediamo nelle immagini dal Cile, quella loro nudità, sottoterra, dove si soffoca di caldo col 90 per cento di umidità, li conosco da quando ero piccolo. E anche la loro malinconia.

Mio padre me li raccontava con la sua faccia bella e scarna, con le sue poche parole, li rappresentava nei suoi quadri e li cantava come dei personaggi di Omero nella personale epica delle sue poesie che oggi mi tornano in mente – guarda un po’ – insieme ai versi di Neruda.

Mia madre per anni e anni è stata una delle ragazze che non sapevano se l’amore della sua vita, quel giorno, sarebbe stato inghiottito dalle profonde gallerie della miniera.

Mia madre è stata una delle donne che si trovava di colpo il cuore in gola quando per il paese correva la voce: “c’è stato un incidente alla miniera!”.

A mia madre è crollato il mondo addosso quella notte del febbraio 1953 in cui seppe che lui aveva avuto un incidente e che solo grazie al gelo della notte invernale non era morto dissanguato perché il sangue si era ghiacciato (ma il “mostro” aveva comunque mozzato una sua mano). Dovevano sposarsi di lì a poco.

Tutto il paese dove sono nato e cresciuto ricorda i giorni in cui la miniera inghiottì due compagni di mio padre. La stessa angoscia della povera gente del Cile. Perché la povera gente cristiana, a tutte le latitudini, si assomiglia.

Con quale tenerezza mia madre ricorda la gioia e l’orgoglio di mio padre, quando poté comprarsi una moto Iso e non dovette più andare, per cinque o sei chilometri, alla miniera a piedi o in bicicletta, di giorno e di notte, in tutte le stagioni.

Nella miniera di San José il più giovane dei 33 minatori è Jimmy Sanchez 19 anni. E’ uscito da quel tunnel sprizzando gioia. Guardando la sua faccia, bella di giovinezza, è impossibile non commuoversi. E’ ancora un ragazzo.

Ho pensato quanto avrei desiderato vedere mio padre quando, a 14 anni, ha cominciato a lavorare in miniera: lui era un bambino. Aveva l’età che adesso ha mio figlio (quanto vorrei fargli ereditare la sua dignità).

Mio nonno Adriano – quando arrivò mio padre a lavorare – era già in miniera da 10 anni. Ci sono rimasti tutti e due tanto tempo. Entrambi ne hanno avuto i polmoni compromessi.

Anche i minatori cileni, che oggi festeggiano – perché stavolta l’hanno scampata – con le loro mogli e i loro figli (ce n’è uno che ha due donne ad aspettarlo e sarà un problema dare spiegazioni) sanno che ogni salvataggio è sempre precario ed effimero.

Laggiù i corpi si impastano col carbone e il fango e la terra li considera ormai suoi. A volte se li riprende senza neanche aspettare che crepino, con un’esplosione di grisù. Ma altre volte li richiama a distanza di anni. Una chiamata che gronda ingiustizia.

I polmoni di mio padre a 80 anni erano pieni di quella polvere di carbone che aveva respirato per decenni: aveva ormai la miniera nelle carni, nel sangue, nelle ossa, nelle fibre. Il suo killer ce l’aveva addosso da una vita.

La miniera è una matrigna che non perdona: ti ha nutrito con qualche povero tozzo di pane, ma prima o poi reclama il suo diritto di ammazzarti. Anche a distanza di tempo.

Così mio padre se lo è portato via il 21 maggio del 2007. Non si può morire a maggio, mi dico sempre. Ma la miniera non conosce stagioni, non ha riguardi nemmeno per la primavera: laggiù sotto è sempre lo stesso bestiale inverno di fuoco.

Così la miniera ha ammazzato mio padre dopo anni. Ma forse anche gli ha risparmiato lo strazio di vivere il dramma di mia figlia Caterina.

Questo s’impara dagli uomini della miniera, che la vita è una lotta e non una vacanza alle Maldive, che è inevitabile sporcarsi di terra e di carbone (cosa che non capita alla settimana bianca, né all’Accademia), che la vita è fragile ed effimera, che un Altro ce l’ha data e lui ha pietà di noi perché è Padre.

Uno dei minatori ha detto: “sono stato fra il diavolo e Dio, ma alla fine è Dio che mi ha afferrato”. Conta questo: essere afferrati da Dio. E conta la dignità con cui si vive. Dagli uomini della miniera si capisce che è bello avere Dio e avere accanto dei fratelli con cui condividere il pane e l’avventura dell’esistenza.

Quelle 40 ragazze martiri di Bologna di cui nessuno ha mai parlato. A. Socci

Questa è la storia di quaranta ragazze, fra i 25 e i 35 anni, che hanno consapevolmente accettato di morire – per di più con atroci sofferenze – per poter curare e (letteralmente) servire degli ammalati gravi che neanche conoscevano. Finora questo loro eroismo e il loro martirio, consapevolmente accettato, sono rimasti nell’ombra.

Siamo cresciuti in un’Italia capace di trasformare in divi personaggi senza arte né parte, un’Italia capace di esaltare come eroi dei tipi tremendi (che hanno pure dei morti sulla coscienza).

Ma nessuno, nell’Italia che conta, che parla e scrive, sembra si sia mai accorto di queste giovani donne straordinarie.

Eppure è accaduto tutto alla luce del sole, addirittura in una istituzione pubblica di in una città importante e attenta ai valori civili (e alla “questione femminile”) come Bologna, dove queste ragazze sono vissute e morte fra 1930 e 1960.

A Bologna esiste “Viale Lenin”, la strada dedicata a un tiranno che ha fondato il regime dei Gulag dove sono stati massacrati moltitudini di innocenti inermi, fra cui migliaia di religiosi.

Ma non esiste alcun ricordo pubblico invece di quelle donne che hanno curato tanti sofferenti dando la loro stessa vita.

Erano religiose, cioè ragazze che avevano rinunciato a se stesse perché innamorate di Gesù Cristo e per suo amore erano diventate silenziosamente capaci di donare ogni loro giornata ai malati e anche di affrontare la morte.

Tutto accadde all’Ospedale Pizzardi di Bologna, oggi Bellaria, aperto nel 1930 per l’assistenza e la cura delle malattie polmonari, in particolari per tubercolotici.

La Tbc era una malattia mortale assai diffusa, soprattutto dopo la Grande guerra, ed era contagiosissima (si contraeva per via aerea, quindi era molto più contagiosa, per esempio, dell’Aids di oggi).

Fino agli anni Cinquanta, quando arrivarono dei farmaci capaci di debellare la malattia e abbatterne enormemente la mortalità.

Ebbene, aprendo l’Ospedale nel 1930 fu richiesta dall’amministrazione degli ospedali di Bologna la presenza delle “Piccole suore della Sacra Famiglia” per assistere come personale infermieristico i circa seicento malati.

Arrivarono subito 55 suore e poi, nel corso degli anni, il loro numero giunse fino a 95, con la qualifica di infermiere diplomate e infermiere generiche (in totale, dal 1930, hanno servito al Pizzardi 574 religiose).

Garantivano assistenza giorno e notte, a continuo contatto con i malati. A quel tempo le suore-infermiere provvedevano a tutto, pure a lavare i pavimenti dei lunghi corridoi, durante il turno della notte.

Erano tutte consapevoli di recarsi in un ambiente ad altissimo rischio. E infatti delle centinaia che hanno accettato e hanno servito lì, circa 40 hanno contratto la Tbc morendone (32 di loro sono decedute in età compresa fra 25 e 35 anni).

Si trattava di una morte dolorosa e drammatica. Erano giovani suore e oblate.

Nella convenzione che fu stipulata l’amministrazione degli ospedali, considerata la pericolosità della missione, si impegnava, fra l’altro, a “concedere visite mediche” e, in caso di contagio, a “fornire loro i medicinali e in caso di morte un modesto funerale”.

Oltretutto il loro lavoro fu reso molto duro dal fatto che i degenti erano in gran parte giovani e il clima spesso turbolento. Le proteste per il cibo erano all’ordine del giorno, perfino per il fatto che il personale addetto all’igiene dei letti e della biancheria si proteggeva con una mascherina (a quel tempo non esistevano lavatrici ed elettrodomestici).

Negli anni Quaranta e Cinquanta il clima era surriscaldato anche per motivi politici (si formò pure una “Commissione degenti”). Le suore dovevano moltiplicare i loro sforzi per mantenere un clima sereno, mentre soccorrevano i malati in tutte le loro sofferenze.

Il dottor Gaetano Rossini che lì lavorò e le vide all’opera ha lasciato scritto in una memoria conservata negli archivi:

“non meno grave era la emottisi, specie se soffocante, scioccante non solo per il malato, ma anche per chi doveva assistere e provvedere con gli scarsissimi mezzi disponibili. Terribile a vedersi e molto di più ‘intervenire’.

In quei momenti mi veniva di pensare: ‘oh sante suore, quale amore vi tiene inchiodate a quel letto di sofferenza inesprimibile pur di aiutare, salvare quel ‘prossimo’ che forse in altri momenti era stato poco riguardoso o indisciplinato!.

Le Suore non tenevano davvero conto del rischio personale o interesse umano alcuno; quante di loro riposano nel cimitero di Castelletto perché avevano contratto la malattia nell’adempimento del loro servizio”.

Quale amore, si chiede il dottor Rossini? Suor Arcangela Casarotti risponde:“Le suore inviate al ‘Pizzardi’ di Bologna avevano ben scolpito nella mente l’insegnamento dei Fondatori: ‘Se nei casi di epidemia… fosse necessario mettere in pericolo anche la vita, io mi immagino che anche al presente, com’è successo in altri tempi, le Suore del nostro istituto andrebbero a gara per offrirsi vittime della carità. Memori delle parole del Divino Maestro: Non v’è maggior carità che di dare la vita per i propri fratelli’ ”.

Le suore aiutavano centinaia di malati, perlopiù giovani, non solo nelle loro sofferenze fisiche, ma anche in quelle morali. Li aiutavano a non lasciarsi andare alla disperazione di una malattia gravissima e di una degenza molto lunga (talora vi furono suicidi).

Suor Arcangela sulla rivista dell’ordine ha pubblicato qualche memoria dei malati di allora. Liliana per esempio scrive:

“Ho passato tre anni molto belli al Pizzardi pur essendo lontano dalla famiglia perché ero ammalata. Le suore con noi malati avevano un rapporto molto familiare. Esse cercavano in ogni modo di aiutarci a mangiare e di alleviare le sofferenze. Quante volte le ho viste piangere di nascosto per le condizioni gravi dei malati! Io credo che la medicina fece molto per curarmi, ma molto contribuirono anche le parole di conforto e di incoraggiamento delle suore nei momenti più tristi”.

Fra i malati vi furono suore che testimoniarono l’ardore di quel loro Amore fino all’incredibile. Come suor Maria Rosa Pellesi, Francescana Missionaria di Cristo, che trascorse 27 anni in sanatorio di cui 24 proprio al Pizzardi, morta in fama di santità e oggi dichiarata “Serva di Dio”.

Dice il dottor Rossini: “fu, a mio modo di vedere, un miracolo vivente perché non aveva un organo sano, la tubercolosi aveva devastato il suo corpo. Svolse la sua missione in offerta a Dio per il bene di tutti gli uomini”.

La eroiche suore del Pizzardi appartengono all’ordine fondato da don Giuseppe Nascimbeni e da suor Maria Domenica Mantovani (entrambi beati), sono le Piccole Suore della Sacra Famiglia. che negli ospedali bolognesi hanno svolto un lavoro eccezionale e tuttora gestiscono la “Casa di Cura Madre Toniolo”.

Nessuno ha raccontato al mondo la storia delle suore martiri del Pizzardi e ne ha celebrato la grandezza. Di loro ho trovato qualche notizie solo in pubblicazioni dell’ordine e qualche rapido cenno in volumi celebrativi, a ristretta diffusione.

Forse perché, essendo suore, appartenevano – secondo i nostri criteri mondani – a una categoria umana di serie B? O a una categoria che è tenuta a sacrificare la propria vita per noi?

A volte, a considerare come il mondo tratta i cristiani, viene in mente la frase di san Paolo: “Siamo la spazzatura del mondo”.

Probabilmente anche in altre città e altri ospedali vi sono state simili storie di eroica carità cristiana che aspettano di essere conosciute.

Perché la presenza della suore e più ampiamente la presenza della Chiesa accanto ai sofferenti, per portare loro la carezza del Nazareno e per alleviare i loro dolori, è una storia immensa e tuttora misconosciuta.

Eppure parla, anzi grida più di tante parole. Annuncia al mondo quello che ogni essere umano cerca e aspetta: un amore incondizionato, gratuito e totale. Come dice una nota preghiera: “Tutta la terra desidera il Tuo volto”.

Antonio Socci

Da “Libero”, 3 ottobre 2010