DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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Putin alla commemorazione del massacro di Katyn non ha chiesto perdono...

Da LaStampa di ieri un articolo di Enzo Bettiza, segnalato da "Informazione corretta":

L’Armata Rossa, dopo l’invasione nel 1939 della Polonia orientale, fece migliaia di prigionieri e li deportò. «In nome dell’interesse supremo dello Stato» Stalin diede l’ordine di ucciderne 22 mila, tutti ufficiali. Il massacro avvenne a Katyn nell’aprile 1940 Un colpo alla nuca per ognuno 1990/La verità
Le responsabilità del regime comunista furono ammesse solo nel 1990 dall’allora presidente sovietico Mikhail Gorbaciov. Fino ad allora Mosca aveva continuato ad attribuire ogni colpa ai nazisti, che invece avevano scoperto il massacro nel 1943 durante l’invasione dell’Unione Sovietica
Negli infiniti ed esponenziali massacri totalitari del ventesimo secolo quello di Katyn, pur impressionante per il numero - ventiduemila vittime trucidate in un paio di giorni - fu qualcosa di più grave e più radicale di una vendetta massificata o uno dei tanti genocidii che in quell’epoca sanguinaria hanno deturpato l’Europa e l’Asia. La gravità scandalosa, più che nel numero dei morti, era soprattutto nella programmata intenzione del colosso sovietico di decapitare un’intera nazione, l’odiosa Polonia, sterminandone il meglio della classe dirigente: il corpo degli ufficiali che avevano già combattuto contro i tedeschi e si erano consegnati, ignari della sorte che li aspettava, nelle mani dei cugini slavi d’Oriente. Più della quantità, era l’alta qualità dei condannati ciò che maggiormente assatanava i carnefici e freddamente interessava i mandanti e firmatari del verdetto estremo. Stalin, Molotov, Beria, Mikojan, Vorošilov. La crema tossica del Politbjuro del Pcus nell’anno 1940 in cui i nazionalsocialisti germanici e i nazionalcomunisti russi si spartivano le spoglie della Polonia.
I pochi europei occidentali che sono riusciti a rintracciare, in qualche cinema appartato, il desolato e tremendamente sobrio film su Katyn del regista Andrzej Wajda, figlio di una vittima dell’eccidio, hanno potuto percipire dal suo resoconto esatto, quasi documentario, l’inverosimile doppiezza del destino che gravava allora sulla tragedia polacca. I morituri increduli fino all’ultimo di dover soccombere, considerati arbitrariamente dai russi «prigionieri di guerra», nelle gelide scene finali vengono falciati uno ad uno dai militi dell’Nkvd (antesignana del Kgb) senza motivo di reato eccetto quello, sociologico, pericolosissimo, di appartenere all’intelligencija di una nazione sconfitta. Una nazione che, privata dei figli migliori, non sarebbe dovuta risorgere mai più secondo i piani del Cremlino. Emerge dalle sequenze anche più crudeli di Wajda, aldilà della morte degli uomini, la morte storica del Paese sventurato e colto che essi rappresentavano e che Stalin, d’accordo con Hitler, aveva allora deciso di cancellare dalla carta e dalla terra. Le immagini più inquietanti sono quelle in cui s’intravede il disprezzo che accomuna militari russi e tedeschi nei confronti dei subuomini vinti (Untermenschen).
L’esatta e talora allusiva requistoria la si capisce più a fondo se si tiene conto che l’esercito in Polonia era una vera e proria università parallela, il bacino formativo delle élites dirigenti: i cicli di coscrizione prevedevano che ogni laureato divenisse un ufficiale della riserva. Era qui il nucleo elitario e politico, non solo militare, che i comunisti russi, spalleggiati dai nazisti fino al 1941, intendevano estirpare. Il massacro di Katyn doveva servire a questo. Non a caso Stalin promuoveva contestualmente la deportazione in Siberia delle famiglie degli ufficiali polacchi, bambini inclusi, con lo scopo di eliminare così anche la generazione successiva.
Putin, ieri, non è andato a inginocchiarsi a Katyn, non è andato a ripetere in terra russa l’umile genuflessione che a suo tempo il cancelliere tedesco Brandt compì a Varsavia. Ha calcato soltanto, sulla fossa della vergogna, un secondo sigillo di risicata verità dopo il primo già impresso da Mikhail Gorbaciov nel 1990. Ma anche questo secondo sigillo simbolico resta e resterà, non si sa fino a quando, incompleto per non dire vago e confuso. L’ex funzionario del Kgb non ha chiesto perdono alla folla e alle autorità polacche presenti. Ha rifiutato, per l’ennesima volta, di considerare il crimine di Stalin un «crimine di guerra e contro l’umanità». Ha annunciato oscuramente che non vi saranno ulteriori «revisioni». Ha commemorato promiscuamente a Katyn, fra il silenzio severo del pubblico, «tutti i caduti sotto il tallone totalitario», tanto polacchi quanto russi, ricordati da un monumento ambiguo e stonato che onora gli uni e gli altri. Ma la verità completa, dettagliata, che l’ospite e primo ministro polacco Donald Tusk continua a esigere («i trucidati non sono per noi entità statistica, sono stati uccisi uno per uno, vogliamo conoscere il nome di ciascuno») resterà sepolta nei faldoni consegnati dai servizi russi ai bielorussi e mai aperti al pubblico.
Intanto giunge la notizia che il 9 maggio, dopo i 70 anni di Katyn, si celebreranno a Mosca i 65 anni dalla fine della «Grande guerra patriottica» contro la Germania. Il sindaco della capitale, Juri Lužkov, non si sa più se avversario o sostenitore di Putin, ci tiene a far sapere che sulla Piazza Rossa sfileranno duemila manifestanti e dieci enormi ritratti di Stalin. Il sindaco aveva già proposto di celebrare l’anniversario nella capitale con numerosi manifesti che ritraessero il dittatore, ma era stato frenato perfino da Russia Unita, il partito di Vladimir Putin. Eppure Lužkov ha insistito di nuovo per far partecipare simbolicamente Stalin, anche se soltanto in dieci copie, alle celebrazioni per la fine della seconda guerra mondiale.

Il fuoruscito che vide in Stalin e nei suoi fan la medesima foga depuratrice dei nazisti

di Giorgio Israel
Tratto da Tempi del 16 dicembre 2009
Tramite il blog di Giorgio Israel

Non sono stato uno degli amici più intimi dello storico Victor Zaslavsky, improvvisamente scomparso il 29 novembre scorso, e quindi non sono la persona più titolata a ricordarlo.

Ma proprio per questo può avere valore la testimonianza di chi, pur non avendo avuto un rapporto continuativo con lui, è stato così profondamente colpito dalla sua personalità di intellettuale e dalla sua profonda umanità.

Victor Zaslavsky ti si presentava subito come uno di quei personaggi dei grandi romanzi russi: schivo, con un sorriso un po’ ironico sul volto, ma pronto alla battuta o all’osservazione penetrante, e a offrirti i racconti affascinanti di una persona che aveva vissuto passando per mezzo mondo dopo aver abbandonato l’Unione Sovietica. Talora era anche esilarante, come quanto raccontò che il posto in cui più aveva sofferto il freddo in vita sua non era stato in Russia o in Canada, bensì… a Ostia, dove aveva soggiornato come fuoruscito. Victor era un ingegnere e questa sua preparazione scientifica mi ha fatto sempre sentire una consonanza e una comprensione immediata di temi e problemi, nelle occasioni in cui abbiamo parlato.

Naturalmente egli è noto per essere stato un grande storico che ha avuto un ruolo fondamentale nel mettere a nudo i meccanismi del potere sovietico nei suoi rapporti con i partiti comunisti dei paesi occidentali e, in particolare, con il partito comunista italiano. La sua opera storiografica si è estesa nell’arco di un trentennio ed ha scavato i temi della società sovietica nel periodo di Breznev, dell’emigrazione ebraica, della perestroika. Nessuna concessione all’ideologia da parte di Zaslavsky. Nonostante il fatto che le naturali ferite per le sue vicende personali avrebbero potuto portarlo ad atteggiamenti emotivi, egli si è attenuto al modello di una storiografia rigorosamente documentaria. Ed è in tale direzione, avvalendosi di materiali d’archivio di recente disponibilità, che ha prodotto alcune delle sue ultime opere più dirompenti. Prima di tutte, il libro Togliatti e Stalin, il Pci e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, scritto con Elena Aga-Rossi, che ha demolito il mito della svolta di Salerno e di una via togliattiana di un comunismo nazionale democratico, mostrando che quella scelta faceva parte di un preciso progetto di Stalin. Poi Lo stalinismo e la sinistra italiana del 2004, che sviluppò e approfondì questa tematica.

Un’altra opera magistrale di Zaslavsky è stata la ricostruzione del massacro di Katyn in Pulizia di classe, con cui ha smantellato definitivamente le menzogne staliniane tese a scaricare la responsabilità di quella strage sui nazisti, con la sostanziale connivenza dell’occidente. Delle conclusioni di quel libro ho più volte ripreso l’osservazione concernente l’analogia profonda che corre tra i due grandi totalitarismi del Novecento: «il tentativo di creare una società nuova, utilizzando i metodi “scientifici” dell’igiene sociale e della “purificazione” dal “contagio borghese”».

È facile immaginare quanto queste tesi fossero insopportabili per chi non ha tagliato il cordone ombelicale con il comunismo. Non posso dimenticare un convegno storico in cui un amico venne a raccontarmi di essere stato vivamente redarguito da alcuni partecipanti per essersi messo a chiacchierare con un “tipo come quello”. Zaslavsky per parte sua, aveva come scudo la sua ironia, con cui chiedeva sempre come mai non ci rendessimo conto che certe persone, malgrado le loro proteste in senso contrario, parlavano allo stesso identico modo di quei comunisti che lui aveva conosciuto fino a quando aveva vissuto in Unione Sovietica. Questa lucida ironia ci mancherà molto