DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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Ogni giorno Stalin metteva in scena un allegro terrore

Parate, cinema, fotografia: ecco come la Russia comunista "allestì" un Paese felice e perfetto. Nonostante gulag e orrori
di di Ugo Finetti
Tratto da Il Giornale del 16 febbraio 2010

Stalin sorridente che tiene in braccio una bambina vestita alla marinara è un’icona che dal 1936 innondò l’intera Unione Sovietica ed il mondo comunista attraverso giornali, cartoline, manifesti, sculture, manuali e persino caramelle. La «fortunata» era Gelja Markizova, figlia di Ardan Angadykovitch Markizov, commissario del popolo all’Agricoltura della Repubblica socialista sovietica autonoma Mongolo-Buriata che nella fotografia pubblicata sulla Pravda il 30 gennaio 1936 appare felice insieme a loro. L’immagine era stata realizzata dal fotografo ufficiale del Cremlino, Michail Kalashnikov, pochi giorni prima, il 26 gennaio, quando Stalin aveva ricevuto i delegati mongolo-buriati e la piccola Gelja aveva consegnato al dittatore comunista un mazzo di fiori appena dopo che il padre era stato decorato con la medaglia dell’Ordine del Lavoro «Bandiera Rossa». Stalin, raccontarono le cronache, aveva regalato in quell’occasione a Gelja un giradischi e un orologio d’oro.

Ma la fotografia ripubblicata pochi mesi dopo, il primo maggio, sulla Izvestija in occasione della ricorrenza della Festa dei lavoratori celebrata appunto nel segno del «piccolo padre» risulta «ritoccata»: Stalin e la bambina sono soli ed anche nei successivi sfruttamenti propagandistici il volto del padre si è trasformato in un’ombra scura. Perché? In effetti egli era scomparso e la piccola Gelja che aveva sei anni nel frattempo era diventata un’orfana: il padre era stato fucilato come «nemico del popolo» e la madre, deportata in un gulag del Turkestan, risultava suicida per avvelenamento. Ma il faccino di Gelja continuava ad essere il simbolo della felicità nel «mondo perfetto» della Russia comunista nelle mani di Stalin.

È uno degli esempi dello stretto rapporto tra allegria e terrore nel regime comunista rievocati nel libro di Gian Piero Piretto Gli occhi di Stalin (Raffaello Cortina Editore, pagg. 248, euro 22) dedicato alla «cultura visuale» sovietica sotto il successore di Lenin. «Vivere - aveva sentenziato lo stesso Stalin nel 1935 - è diventato più bello, compagni, vivere è diventato più allegro». L’immagine di una comunità solidale e felice coincide con l’inizio, proprio nel gennaio 1936, del «Grande terrore», la catena dei maxiprocessi contro i «nemici del popolo» a cominciare da alti dirigenti che insieme a Lenin avevano fondato il Pcus. La psicosi dell’Urss accerchiata da paesi capitalisti ed insidiata dall’interno da spie e traditori si traduce nell’immagine di una società giusta che va difesa - ovvero controllata - dall’alto e dal centro. Lo sguardo di Stalin sovrasta tutti e tutto e accentra l’intera popolazione.

Il totalitarismo sovietico ha un volto diverso da quello nazista proprio da come è impersonata la leadership. Tanto Hitler procedeva in crescendo fino alle urla in discorsi lunghissimi, tanto Stalin era composto e quasi laconico; tanto Hitler sfrecciava da un posto all’altro, tanto Stalin appariva sempre immobile - in piedi o seduto - e quasi sempre nello stesso luogo centrale secondo una sorta di «zoom» a tre stadi: la Piazza Rossa, il Cremlino, l’ufficio-tana personale. In sostanza: tanto Hitler rappresentava la sfida forsennata dell’individualismo e della personale forza di volontà, tanto Stalin si atteggiava ad espressione dell’incedere scontato - oggettivo ed inesorabile - della Storia.

La marmorea «tranquillità» fino alla staticità emerge quindi come categoria centrale della rappresentazione della figura di Stalin che viene eseguita da storici, registi, romanzieri, teatranti e illustratori. E a leader «tranquillo» che nulla concede alla improvvisazione individuale - sicuro della giustezza delle proprie tesi e della ineluttabilità della vittoria finale - si atteggeranno sempre i suoi successori a Mosca e i suoi imitatori alla guida dei vari partiti comunisti al potere o all’opposizione anche dopo la «destalinizzazione». Il senso di «superiorità» ancor oggi presente in certa sinistra risale appunto a questa «tranquillità» stalinista che si autorappresentava come il Bene ed il Futuro. Da un lato l’anticomunista ridicolo-corrotto-fascista e dall’altro il comunista serio-ascetico-antifascista è il cartone animato inventato negli anni Venti dal Komintern e che surrealisti, espressionisti e neorealisti insieme a comici, magistrati e giornalisti «impegnati» hanno continuato a disegnare nei decenni successivi.

La «cultura visuale stalinista» si estese infatti ben al di là della frontiera sovietica e poi della «cortina di ferro» permeando non poca parte della intellettualità anche occidentale. «Il vero stalinismo - ha osservato Vittorio Strada - non fu un fenomeno sovietico (nell’Urss non essere stalinisti era, in tutti i sensi, impossibile), ma europeo, dato che nell’Europa occidentale, almeno dopo la seconda guerra mondiale, tentare qualcosa di diverso non era impossibile». E Victor Zaslavsky lamentava che in particolare in Italia la storiografia abbia «ignorato lo stalinismo “di ritorno” ossia l’influenza conservatrice esercitata dalla sinistra europea sulla dirigenza sovietica». Gli aspetti crudeli e illiberali della società sovietica erano infatti noti e denunciati sin dagli anni Venti. Eppure da Togliatti a Berlinguer si è insistito in modo marmoreo sulla «superiorità» dei regimi comunisti sulle democrazie occidentali.

In questo ventennale della caduta del Muro di Berlino si è molto insistito in Italia sulla differenza tra comunismo al potere e comunismo all’opposizione. Sicuramente lo stare in Italia era ben diverso dal vivere a Mosca. «È bello trovarsi in Italia, Mister Togliatti»: così nei giardini del Quirinale nel 1962 il presidente americano John F. Kennedy salutava il segretario del Pci Togliatti che era davanti al buffet e ammutolì perdendo l’espressione «tranquilla», incapace di reagire al sorriso americano che alludeva agli anni passati a Mosca dal leader del comunismo italiano.

Il fuoruscito che vide in Stalin e nei suoi fan la medesima foga depuratrice dei nazisti

di Giorgio Israel
Tratto da Tempi del 16 dicembre 2009
Tramite il blog di Giorgio Israel

Non sono stato uno degli amici più intimi dello storico Victor Zaslavsky, improvvisamente scomparso il 29 novembre scorso, e quindi non sono la persona più titolata a ricordarlo.

Ma proprio per questo può avere valore la testimonianza di chi, pur non avendo avuto un rapporto continuativo con lui, è stato così profondamente colpito dalla sua personalità di intellettuale e dalla sua profonda umanità.

Victor Zaslavsky ti si presentava subito come uno di quei personaggi dei grandi romanzi russi: schivo, con un sorriso un po’ ironico sul volto, ma pronto alla battuta o all’osservazione penetrante, e a offrirti i racconti affascinanti di una persona che aveva vissuto passando per mezzo mondo dopo aver abbandonato l’Unione Sovietica. Talora era anche esilarante, come quanto raccontò che il posto in cui più aveva sofferto il freddo in vita sua non era stato in Russia o in Canada, bensì… a Ostia, dove aveva soggiornato come fuoruscito. Victor era un ingegnere e questa sua preparazione scientifica mi ha fatto sempre sentire una consonanza e una comprensione immediata di temi e problemi, nelle occasioni in cui abbiamo parlato.

Naturalmente egli è noto per essere stato un grande storico che ha avuto un ruolo fondamentale nel mettere a nudo i meccanismi del potere sovietico nei suoi rapporti con i partiti comunisti dei paesi occidentali e, in particolare, con il partito comunista italiano. La sua opera storiografica si è estesa nell’arco di un trentennio ed ha scavato i temi della società sovietica nel periodo di Breznev, dell’emigrazione ebraica, della perestroika. Nessuna concessione all’ideologia da parte di Zaslavsky. Nonostante il fatto che le naturali ferite per le sue vicende personali avrebbero potuto portarlo ad atteggiamenti emotivi, egli si è attenuto al modello di una storiografia rigorosamente documentaria. Ed è in tale direzione, avvalendosi di materiali d’archivio di recente disponibilità, che ha prodotto alcune delle sue ultime opere più dirompenti. Prima di tutte, il libro Togliatti e Stalin, il Pci e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, scritto con Elena Aga-Rossi, che ha demolito il mito della svolta di Salerno e di una via togliattiana di un comunismo nazionale democratico, mostrando che quella scelta faceva parte di un preciso progetto di Stalin. Poi Lo stalinismo e la sinistra italiana del 2004, che sviluppò e approfondì questa tematica.

Un’altra opera magistrale di Zaslavsky è stata la ricostruzione del massacro di Katyn in Pulizia di classe, con cui ha smantellato definitivamente le menzogne staliniane tese a scaricare la responsabilità di quella strage sui nazisti, con la sostanziale connivenza dell’occidente. Delle conclusioni di quel libro ho più volte ripreso l’osservazione concernente l’analogia profonda che corre tra i due grandi totalitarismi del Novecento: «il tentativo di creare una società nuova, utilizzando i metodi “scientifici” dell’igiene sociale e della “purificazione” dal “contagio borghese”».

È facile immaginare quanto queste tesi fossero insopportabili per chi non ha tagliato il cordone ombelicale con il comunismo. Non posso dimenticare un convegno storico in cui un amico venne a raccontarmi di essere stato vivamente redarguito da alcuni partecipanti per essersi messo a chiacchierare con un “tipo come quello”. Zaslavsky per parte sua, aveva come scudo la sua ironia, con cui chiedeva sempre come mai non ci rendessimo conto che certe persone, malgrado le loro proteste in senso contrario, parlavano allo stesso identico modo di quei comunisti che lui aveva conosciuto fino a quando aveva vissuto in Unione Sovietica. Questa lucida ironia ci mancherà molto

Holodomor: "Infliggere la morte attraverso la fame". Lo sterminio del popolo Ucraino con una carestia programmata e prodotta artificialmente da Stalin



In Ucraina, il quarto sabato di Novembre é il giorno ufficiale di commemorazione dell'Holodomor, lo sterminio del popolo Ucraino attraverso una carestia programmata e prodotta artificialmente da Stalin.
L’Holodomor causò dai sette ai dieci milioni di vittime, deportati e casi di terrificante cannibalismo.
Nel 1932-33 Milioni di contadini vennero fatti morire di fame sequestrando loro le scorte di cibo, gli attrezzi, gli animali. Chi cercava il cibo era colpevole e condannato.
È stata una carestia terroristica pianificata scientificamente per imporre nel “granaio d’Europa” la collettivizzazione forzata e distruggere la nazione ucraina nella sua consistenza politica, sociale e culturale.
Lo Stato comunista sottraeva i beni alimentari come arma di distruzione di massa del proprio popolo. Gioie e splendori del comunismo.
Nel nostro paese l'Holodomor é stato censurato, come tutti gli altri genocidi comunisti. Ricordarlo é un dovere morale.
QUI E QUI due video per avere una pallida idea di cosa significhi l'Holodomor per gli ucraini. Alcune immagini sono per stomaci forti.





Orpheus

E Stalin decimò i kazachi

In Asia centrale la «grande carestia» fu più massiccia che in Ucraina: le scoperte d’archivio dello storico Niccolò Pianciola • «Dal 1931 al '33 l'azione di Mosca per controllare il grano nelle steppe causò un milione e mezzo di morti tra i contadini, un terzo della popolazione di quel tempo»
di Antonio Giuliano
Tratto da Avvenire del 26 novembre 2009

Che l’Asia centrale fosse una regione strategica se ne accorsero già i grandi conquistatori del passato, da Alessandro Magno a Gengis Khan. E tuttavia per quest’area geografica non c’è mai stata pace.

Sebbene oggi le riserve petrolifere e di gas naturali facciano gola alle potenze mondiali, Paesi come il Kazakistan o l’Uzbekistan scontano tuttora, come pochi altri, le conseguenze del comunismo sovietico.

Dopo anni di ricerche ne­gli archivi ex sovietici, Niccolò Pianciola, docen­te di Storia dell’Europa o­rientale all’Università di Trento, ha ricostruito il mosaico di orrori perpe­trato da Stalin e compagni nei territori centroasiatici e l’ha illustrato nel docu­mentato volume Stalini­smo di frontiera. Coloniz­zazione agricola, stermi­nio dei nomadi e costru­zione statale in Asia cen­trale (Viella, pp. 548, euro 40).

Professor Pianciola, per­ché i kazachi soffrirono più di ogni altra popola­zione sovietica la «rivolu­zione dall’alto stalinia­na»?
«Nel biennio 1931-33, quasi 1 milione e mezzo di kazachi (di cui circa tre quarti erano pastori e un quarto agricoltori) mori­rono durante la grande carestia. Furono vittima della guerra dello stato sovietico contro i contadi­ni per il controllo del gra­no: i kazachi subirono le requisizioni di grano e di­vennero l’ultima grande riserva di bestiame del­l’Urss. Il prelevamento di bestiame nel 1931 privò i pastori della loro più im­portante fonte di sussi­stenza, e la morte di mas­sa iniziò nell’autunno di quell’anno».

Non furono gli ucraini a patire l’esperienza più tragica con l’«Holodo­mor», (l’uccisione per fa­me, ndr)?
«Nella carestia morirono un terzo dei kazachi e un quinto degli ucraini. An­che se l’Holodomor ucrai­no uccise più persone, circa 3, 3 milioni di indivi­dui. Però in Ucraina, che co­stituiva il granaio sovieti­co, la carestia non fu orga­nizzata dallo Stato. Fu l’imprevista conseguenza delle politiche di Stalin.
Solo dall’autunno del 1932, la carestia divenne un’arma per costringere i contadini al lavoro nelle fattorie collettive e alla consegna del grano. In Kazakistan, nel periodo 1928-1933, l’attacco alla società rurale rese i so­pravvissuti totalmente di- pendenti dallo Stato e sancì la definitiva integra­zione dei kazachi alle isti­tuzioni sovietiche».

Ma il colonialismo zarista non fu altrettanto repres­sivo in Asia centrale?
«Il regime zarista fu infini­tamente meno ag­gressivo di quello sovietico nel pro­muovere trasfor­mazioni economi­che e culturali. Era un colonialismo che aveva lasciato in buona parte in­tatto il sistema so­ciale e, identifi­cando i locali nella categoria giuridica degli 'allogeni', li separa­va dagli altri sudditi del­l’Impero (per la fiscalità o per gli obblighi militari, ad es.). Il sistema sovieti­co era invece 2inclusivo': le diverse popolazioni do­vevano essere acculturate ai valori bolscevichi e questo significava la mes­sa fuori legge di pratiche sociali e culturali radicate, tra cui quelle religiose».

Oggi invece, sul piano re­ligioso, il fondamentali­smo islamico è una mi­naccia per queste aree?
«L’ateismo di stato, e più ancora singoli provvedi­menti repressivi come lo sterminio di due genera­zioni di dotti islamici nel 1937-38, hanno causato l’interruzione per molti anni degli stretti rapporti che univano l’area cen­troasiatica alle restanti re­gioni del mondo musul­mano. Tuttavia, la diffu­sione di ideologie e grup­pi di impronta fondamentalista non è stata molto significativa negli ultimi vent’anni in Asia Centrale, an­che per il successo delle politiche re­pressive dei gover­ni. Solo in Tajiki­stan è presente un partito legale che si rifà a un ideolo­gia islamista. Del resto, l’Urss ha avuto successo nel secolarizzare le popo­lazioni».

Come mai la caduta del Muro di Berlino sembra non sia stata avvertita da queste parti?
«Molto è cambiato, anche se c’è stata una forte con­tinuità della classe politi­ca. Islam Karimov e Nur­sultan Nazarbaev, attuali presidenti rispettivamen­te dell’Uzbekistan e del Kazakistan, erano già al potere nelle loro repub­bliche sovietiche prima del 1991. Petrolio e gas costituiscono una ric­chezza enorme per i go­verni di questi Stati che sfruttano queste risorse per consolidare un solido sistema clientelare. Dopo la catastrofe demografica, le conseguenze maggiori dello stalinismo sono sta­te di tipo culturale, con la perpetuazione di modelli autoritari di gestione del potere. Senza dimenticare le deportare di intere po­polazioni e le trasforma­zioni del sistema produt­tivo. La storia di quest’area è anco­ra poco conosciu­ta, ma è di grande interesse perché riguarda i totalita­rismi europei e il colonialismo, il comunismo e le società islamiche.
Senza lo studio dell’esperienza so­vietica in questi territori, non si può capire il pre­sente dell’Asia Centrale».