DISCERNERE

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Le vie di Dio nella ragione contemporanea. S.Em.za Card. Camillo Ruini

Roma, 10/12 dicembre 2009

Prima sessione – Il Dio della fede e della filosofia

Le vie di Dio nella ragione contemporanea

S.Em.za Card. Camillo Ruini

Presidente del Comitato per il progetto culturale della CEI

Blaise Pascal (1623–1662) ritratto da Augustin Pajou (1730–1809) in una statua conservata al Louvre, mentre sta studiando il cicloide, scolpito sulla tavoletta che regge con la sinistra; le pergamene sparse ai suoi piedi sono le Pensées; e il libro aperto le sue Lettres provinciales. By courtesy of Wikimedia.


1. Due premesse

Inizio da una considerazione sull’atteggiamento con il quale accostare la questione di Dio: anzitutto non con la pretesa di un approccio neutrale, puramente “oggettivo”, “scientifico”. La questione di Dio, infatti, coinvolge inevitabilmente il soggetto che la pone, dato che essa ha a che fare con il senso e la direzione della nostra vita. Perciò anche la risposta all’interrogativo “fa differenza che Dio esista o non esista?” cambia profondamente a seconda che si tratti dei credenti o dei non credenti, sia atei sia agnostici. I credenti autentici rispondono che la differenza non solo esiste ma è grande e radicale – anzi, è la prima e la più grande –, riguardo sia al modo di concepire la realtà sia all’orientamento da dare alla nostra vita: per loro infatti Dio è l’origine, il senso e il fine dell’uomo e dell’universo. I non credenti invece possono differenziarsi nelle loro risposte, a seconda che ritengano la fede in Dio negativa, positiva o irrilevante per la vita dell’uomo e della società, ma propriamente parlando si riferiscono soltanto alla nostra fede in Dio, non alla realtà stessa di Dio, dato che secondo loro Dio non esiste, o comunque non possiamo sapere niente di lui, nemmeno se egli esista[1]. Non vi è dunque spazio per la neutralità: l’orientamento della vita si riverbera per tutti, credenti, atei, agnostici, sulla risposta e ancor prima sul peso che diamo alla domanda riguardo a Dio.

Non esiste, a questo riguardo, nemmeno uno spazio di neutralità che possa consistere nel rifugiarsi in una posizione agnostica: l’agnosticismo è infatti teoreticamente argomentabile ma assai meno concretamente vivibile. Nella pratica siamo costretti a scegliere tra due alternative, già individuate da Pascal: o vivere come se Dio non esistesse, oppure vivere come se Dio esistesse e fosse la realtà decisiva della nostra esistenza. Se agiamo secondo la prima alternativa adottiamo di fatto una posizione atea e non soltanto agnostica; se ci decidiamo invece per la seconda alternativa adottiamo una posizione credente: la questione di Dio è dunque ineludibile[2].

Bisogna aggiungere però che, per quanto importante e decisiva possa essere la questione di Dio per la nostra vita e per l’interpretazione di tutta la realtà, tuttavia il discorso non può arrestarsi a questo aspetto. Deve affrontare in maniera diretta la domanda circa la realtà di Dio, la sua esistenza o non esistenza. Se infatti Dio non esistesse ogni apprezzamento del suo significato per noi rimarrebbe inevitabilmente sospeso nel vuoto. Proprio quella se Dio ci sia o non ci sia è la domanda a cui finalmente la vita stessa rimanda. A questa domanda decisiva occorre dedicare tutto l’acume e il rigore della nostra intelligenza, pur rimanendo sempre consapevoli che non si tratta affatto di una questione puramente teoretica. Pertanto, l’impossibilità di un approccio neutrale e puramente “scientifico”, se da una parte può essere avvertita come un limite, dall’altra ha un risvolto fortemente positivo, che consiste proprio nel totale coinvolgimento di noi stessi, della nostra esperienza di vita, della libertà e degli affetti, come dell’intelligenza e delle sue capacità critiche. Vale specialmente a questo riguardo la parola di S. Agostino: “si conosce veramente solo ciò che si ama veramente”[3]. Riguardo a Dio non è dunque il caso di chiudersi in alcuna ristrettezza razionalistica.

In secondo luogo, quando si tratta di Dio, la questione se egli ci sia non viene semplicemente prima di quella di chi, o di che cosa, egli sia, come sembra ritenere San Tommaso[4], poiché Dio non è tra gli oggetti della cui esistenza ci consti attraverso un’esperienza diretta, o almeno non è pacificamente ammesso che di lui si abbia una tale esperienza. K. Rahner supera questa difficoltà facendo leva sulla parola “Dio”, che oggi comunque esiste nella nostra cultura e nel linguaggio comune[5]. In questo Evento Internazionale diamo al problema una risposta più forte, perché facciamo apertamente riferimento non a un generico concetto di Dio, ma al Dio della nostra tradizione religiosa, il Dio di Abramo e finalmente, e soprattutto, il Dio di Gesù Cristo: è di questo Dio che, in dialogo con la razionalità contemporanea, intendiamo mostrare quanto meno plausibile l’esistenza.

All’origine di questa scelta sta la percezione che l’assoluta autonomia della ragione e la sua totale autosufficienza siano piuttosto un’illusione, anche se largamente coltivata. La ragione umana ha bisogno cioè dell’appoggio delle grandi tradizioni religiose dell’umanità, sebbene essa possa e debba esaminare ciascuna di loro con rigore e libertà critica[6].


2. Da Dio all’uomo e dall’uomo a Dio: una gamma inesauribile di percorsi

Gli approcci umani a Dio sono molteplici. Anzitutto Dio stesso può prendere, e di fatto ha preso, l’iniziativa di rivolgersi a noi, parlandoci “dall’esterno” e “dal di dentro” di noi, nella rivelazione ebraico-cristiana e attraverso la presenza del suo Spirito in noi. In virtù di questa presenza vi sono, come dice il Concilio Vaticano II[7], vie molteplici, che solo Dio conosce, attraverso le quali egli giunge al cuore perfino di chi non lo riconosce esplicitamente. Questa conoscenza di Dio che viene “dall’alto”, attraverso la rivelazione ebraico-cristiana e l’azione dello Spirito, prima che “dal basso”, cioè dal desiderio di Dio iscritto in noi, dallo stupore davanti al creato e dalla nostra ricerca razionale di Dio, si realizza nel rapporto misterioso delle due libertà, di Dio e nostra[8].

Anche partendo “dal basso” e riflettendo con la nostra ragione troviamo nella realtà della storia molti spunti per risalire a Dio[9]. Alcuni di essi hanno a che fare con la storia e la fenomenologia delle religioni, cioè con il dato imponente della dimensione religiosa appartenente all’uomo come essere “simbolico” e perciò presente e diffusa in tutta la vicenda dell’umanità, unitamente al riferimento, più o meno chiaro ed esplicito, a una divinità suprema, seppure spesso “oziosa”[10].

Non meno significativo, e di indole diversa per un credente in Cristo, è il riferimento specifico al fenomeno religioso ebraico e cristiano, in quanto realtà storicamente conoscibile. Già la nascita del monoteismo ebraico appare un segno forte della presenza di Dio, sebbene la fase di transizione che attraversano attualmente gli studi dell’Antico Testamento renda questo segno non facile, oggi, da inquadrare ed apprezzare criticamente. Più chiaro è il segno costituito dalla vita e in particolare dalla risurrezione di Gesù Cristo: questi eventi pongono quasi inesorabilmente alla ragione umana la questione di Dio e del suo intervento nella storia. Se infatti Cristo è soltanto un uomo, e soprattutto non è risorto, siamo costretti, alla fine, a ridurre a mito la sua vicenda storica o a ricorrere ad altre ipotesi storicamente assai improbabili. Anche nella successiva storia del cristianesimo non mancano i dati che rimandano, almeno in qualche modo, all’interrogativo su Dio: così non soltanto i miracoli e gli altri segni di un intervento speciale di Dio, ma anche le esperienze di Dio che hanno avuto i grandi mistici e in genere molti santi.

Il progresso che si è avuto negli ultimi secoli nel pensiero filosofico, dove si è affermato un approccio non solo essenziale, ma esistenziale e storico, è esso stesso un invito a prendere in considerazione, riguardo alla questione dell’esistenza di Dio, anche ciò che è avvenuto e avviene nell’esperienza storica dell’umanità.

Rimane tuttavia lo spazio, anzi la necessità di una riflessione razionale su Dio, e anzitutto sulla sua esistenza, che faccia riferimento sia alla struttura generale e alla consistenza della realtà di cui abbiamo esperienza – e quindi al valore della nostra conoscenza –, sia al soggetto umano in quanto tale, nella sua specificità.

Per un cattolico quella della conoscibilità di Dio da parte della ragione umana non è una questione in cui ogni opinione sia ugualmente accettabile, come emerge da una serie di prese di posizione del magistero della Chiesa, dal Concilio Vaticano I fino al Catechismo della Chiesa Cattolica[11] Alla base vi è l’affermazione della Lettera ai Romani: “l’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia, poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha manifestato a loro. Infatti le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da Dio compiute”[12]. In sintesi, per il magistero è possibile una conoscenza di Dio a partire dalle creature (il Catechismo della Chiesa Cattolica precisa: a partire dall’universo e a partire dall’uomo); in essa però l’uomo incontra difficoltà tali per cui vi è la necessità morale che Dio stesso si riveli per poter essere conosciuto da tutti, con ferma certezza e senza errori. Secondo l’interpretazione teologica del magistero che oggi è largamente prevalente, la conoscenza puramente naturale di Dio è “possibile”, ma non è detto che sia anche attuale, cioè che si sia mai verificata in alcun soggetto umano: quest’ultima questione non è decidibile da un punto di vista teologico, anzi appare poco sensata, dato che è ben difficile escludere un intervento di Dio che illumini dal di dentro l’intelligenza, muova la volontà, apra il cuore a credere in lui. Ha tuttavia grande importanza la questione della validità che ha o non ha di per sé (ossia a prescindere dagli ostacoli che di fatto le impediscono di svilupparsi) la via razionale a Dio: con questa validità si connette infatti la proponibilità a tutti – e non solo ai credenti dell’una o dell’altra religione – dell’esistenza di Dio, e quindi la possibilità di un discorso pubblico riguardo a Dio, e la stessa apertura universale della missione cristiana. Per questi motivi la Chiesa si pronuncia in una materia che potrebbe apparire puramente “filosofica”.


3. L’ambito di questa relazione

Vengo ora a delimitare il mio intento: tenterò di indicare – senza evidentemente poterli sviluppare pienamente – alcuni percorsi verso Dio che ritengo possibili e fecondi per la ragione contemporanea, a partire dalla realtà data alla nostra esperienza e in specie dalla realtà del soggetto umano, tenendo presenti criticamente le capacità e i limiti della nostra conoscenza. Non vorrei limitarmi però ad allineare dei percorsi, bensì presentarli nel loro rapporto reciproco e finalmente come un’unità di distinti.

Incomincio con alcune esclusioni. Non mi sembrano consistenti le vie a priori, sia quelle dell’“argomento ontologico”, nelle sue varie forme, perché contengono sempre un passaggio dall’ordine dei concetti a quello dell’esistenza, che non può essere giustificato lavorando soltanto sui concetti stessi, sia le altre, che richiamano una conoscenza razionale immediata di Dio, come se egli ci fosse noto di per se stesso. E’ ben vero infatti che – per chi crede in lui – Dio, in se stesso, è la realtà, la verità e il bene originario, primo e fontale, che sta alla base di tutte le altre realtà, verità e beni, ma non è primo e nemmeno di per sé evidente per la nostra intelligenza: vale cioè la distinzione di S. Tommaso[13], secondo la quale conosciamo immediatamente Dio soltanto in maniera indeterminata (“in aliquo communi”), sotto il concetto generale di beatitudine (o di essere, o di verità), ma non nella sua distinta e propria esistenza.

Per un approccio razionale all’esistenza di Dio restano dunque praticabili soltanto percorsi a posteriori, in concreto a partire dall’esistenza di realtà di cui abbiamo esperienza, siano esse l’universo o l’uomo stesso.

Aggiungo subito un’ulteriore precisazione e delimitazione. Il passaggio razionale dalle realtà oggetto di esperienza alla realtà di Dio è sempre, alla fine, un passaggio filosofico, e più precisamente metafisico. Per arrivare per via razionale all’esistenza di Dio non sono dunque sufficienti gli approcci scientifici, nel senso in cui le scienze moderne giustamente si distinguono dalla filosofia e in particolare dalla metafisica. Non bastano nemmeno quegli approcci che fanno leva sull’esperienza morale, o su quella estetica, e sulle esigenze in esse implicite, a meno di essere integrati da un passaggio propriamente metafisico. In caso diverso infatti si rischia di rimanere dentro a un discorso del “come se”, che può mostrare certamente quanto possa essere desiderabile e auspicabile per noi che Dio esista, ma non per questo conclude alla sua esistenza.

I percorsi a posteriori così precisati devono condurci a rispondere non soltanto alla domanda se Dio esista (an Deus sit), ma anche, almeno in qualche misura, alla domanda chi, o che cosa, egli sia (quid Deus sit), cioè a una qualche precisazione, per quanto limitata, imperfetta e soltanto analogica, della sua natura o essenza. In caso diverso infatti la stessa affermazione dell’esistenza di Dio finirebbe con l’essere priva di ogni senso determinato.

D’altra parte, all’interno dell’approccio razionale di cui ci stiamo occupando, non vi sono altre fonti da cui possiamo venire a conoscere qualcosa riguardo alla natura di Dio, se non appunto quei percorsi che conducono a riconoscere la sua esistenza: come si è già accennato infatti, Dio non è oggetto di esperienza diretta, nella sua essenza come nella sua esistenza.

Si apre qui la questione del rapporto tra quella determinazione di Dio che ci viene dalla nostra tradizione religiosa e ciò che possiamo conoscere della sua natura attraverso i percorsi che conducono razionalmente alla sua esistenza. E’ la celebre questione “pascaliana” del Dio della fede e del Dio dei filosofi[14]. In realtà si tratta sempre dell’unico e medesimo Dio, ma la conoscenza di lui è ben diversa a seconda che vi perveniamo per via soltanto razionale oppure sulla base dell’automanifestazione che Dio fa a noi di se stesso nella tradizione ebraico-cristiana. Sebbene, infatti, sia e rimanga fondamentale il legame intrinseco della rivelazione con la razionalità, anche in vista della proponibilità universale e della missionarietà del cristianesimo, soltanto attraverso l’autorivelazione di Dio conosciamo l’atteggiamento che egli ha verso di noi, per così dire il suo volto. Ciò non è senza fondamentali ricadute sul nostro modo di concepire la realtà di Dio, che si manifesta come l’amore originario, libero e gratuito, che entra nella storia e ci chiama alla comunione con lui, è il Dio personale e trinitario che è Dio dell’uomo e della storia, non soltanto della metafisica. La stessa teologia cristiana ha ancora in buona parte davanti a sé il compito, per altro inesauribile, di sviluppare, integrare e correggere nella sua limitatezza e nelle sue preclusioni, alla luce di questa autorivelazione, il concetto di Dio finora elaborato dalla tradizione filosofica, e anche teologica.


4. La difficoltà moderna e l’aporia di sempre nel cammino razionale verso Dio

Proprio su questi percorsi a posteriori dalle realtà di cui abbiamo esperienza a Dio, sulla loro stessa legittimità e possibilità, si è concentrata – come è noto – la critica filosofica moderna: la Critica della ragion pura di Kant rimane il fulcro di questa contestazione, con un’influenza ancor oggi decisiva, particolarmente su questo tema.

Non possiamo perciò non dire una parola a questo riguardo: anzitutto richiamando l’incoerenza interna della Critica della ragion pura a causa del molto discusso “iato” (Bruch) nella deduzione trascendentale: se infatti i dati dell’esperienza sensibile sono puramente amorfi, rimane non spiegato e inspiegabile l’ordine concreto con cui essi sono informati dalle categorie dell’intelletto; se invece non sono del tutto amorfi, la “rivoluzione copernicana” di Kant non è necessaria e il “noumeno” non è puramente inconoscibile[15]. Inoltre, la critica di Kant rimane all’interno dell’analisi dei contenuti della conoscenza intellettuale e non prende in considerazione il suo esercizio, se facciamo attenzione al quale la riduzione di ciò che conosciamo intellettualmente al solo “oggetto” in senso kantiano, e non alla realtà stessa, si rivela, a mio parere, contraddittoria. Infatti, quando affermiamo che ciò che conosciamo è soltanto l’oggetto, e non la realtà, entriamo in contraddizione con l’atto stesso del giudizio con cui affermiamo ciò, dato che tale giudizio intende valere incondizionatamente, e non solo in un senso limitato all’oggetto kantiano, pena rimanere prigionieri di una petizione di principio, o meglio di una tautologia: si affermerebbe cioè che è vero in senso kantiano che conosciamo soltanto l’oggetto, sempre in senso kantiano. Anche riguardo a Kant vale dunque la replica di matrice aristotelica a chi nega che l’uomo possa conoscere la verità[16].

Mi rendo conto di quanto questa impostazione del discorso su Dio implichi una rimessa in discussione del principale corso del pensiero moderno e contemporaneo, ma ritengo questa messa in discussione inevitabile, per ridare spazio all’indole autentica della nostra conoscenza e contestualmente al primato dell’essere. Non penso affatto, inoltre, che questa rimessa in discussione porti con sé un rifiuto globale di tale pensiero e delle sue grandi e preziose acquisizioni, ma solo un suo ri-orientamento, certamente profondo ma anche fecondo e “liberatorio”, rispetto alle restrizioni che attualmente il pensiero sta subendo.

Dopo Kant, che era ancora profondamente convinto dell’esistenza di Dio, si sono affermati i cosiddetti “maestri del sospetto” (Feuerbach, Marx, Nietzsche, Freud), che in vario modo hanno ricondotto Dio a una proiezione del nostro desiderio. Questo sospetto è ben vivo nella nostra cultura e con esso, come con la critica di Kant, ogni approccio riflesso a Dio deve oggi fare i conti. Senza poter approfondire il tema, mi limito a osservare che il nostro desiderio di Dio non necessariamente è da interpretarsi nel senso di un’illusione e di una proiezione di noi stessi fuori da noi stessi, che genererebbe in noi divisione e frustrazione. Può essere invece interpretato come l’indizio della nostra apertura verso quell’Assoluto che, donandosi liberamente a noi, sarebbe il solo in grado di colmare pienamente la radicale non-autosufficienza che si annida nel nostro volere come nel nostro essere[17].

Un posto particolare merita senza dubbio, nella crisi del rapporto della ragione contemporanea con Dio, F. Nietzsche. Non solo ha trovato con lui larga cittadinanza la tesi della “morte di Dio”, ma egli ha visto, prima e forse più profondamente di ogni altro, le conseguenze nichilistiche di questa morte ed ha anche denunciato la deriva banale che ne può seguire, con il travolgimento dell’uomo stesso, pur senza riuscire poi a mettere un consistente argine a tale conseguenza.

Nietzsche ha radicalizzato all’estremo anche la negazione della nostra capacità di conoscere il vero: da una parte, infatti, riconosce che tale negazione può essere ridotta all’assurdo, ma dall’altra sostiene che il mondo in cui dobbiamo imparare a vivere è appunto quello dell’assurdo, nel quale non c’è spazio per qualsiasi verità, ma solo per decisioni che fanno capo a noi stessi. A mio parere però questa posizione di Nietzsche, rinunciando in partenza alla razionalità del discorso, di per sé non ha titolo per interferire in qualsiasi questione da esaminarsi razionalmente, e quindi nemmeno nella questione dell’esistenza di Dio.

Un’ulteriore messa in discussione della legittimità di ogni approccio metafisico a Dio, che a sua volta ha avuto e ancora ha un grande influsso, si deve ad Heidegger, sulla scia di Nietzsche, attraverso la critica della “ontoteologia”. Non prendo qui questa critica in esame diretto ma ne terrò conto nel presentare i percorsi razionali verso Dio.

Lo sviluppo delle scienze cognitive negli ultimi decenni propone con una nuova e a quel che sembra massima radicalità il problema della validità della nostra conoscenza della realtà. Per quanto grandi possano essere i contributi che provengono da queste scienze per una miglior comprensione dei processi concreti della nostra conoscenza, la riduzione del problema propriamente gnoseologico del valore oggettivo della conoscenza stessa alle sue condizioni funzionali di esercizio – e l’implicita sostituzione che ne consegue della gnoseologia filosofica con una gnoseologia che sarebbe “scientifica” – sembra non cogliere lo specifico della conoscenza intellettuale e della sua istanza veritativa[18].

L’altra grande difficoltà nel cammino verso Dio, anzi, un’aporia assai più coinvolgente esistenzialmente che la difficoltà della conoscenza, è quella che nasce dall’esistenza del male nel mondo, e specialmente dalle esperienze dell’abisso di malvagità che può annidarsi nel cuore degli uomini, oltre che dall’ampiezza sconfinata della sofferenza innocente. Questa aporia nasce ben prima dell’epoca moderna e della sua istanza critica: accompagna infatti l’intera vicenda dell’umanità. Nella nostra epoca però, con la svolta della cultura verso il soggetto e la più forte coscienza che il soggetto umano ha preso di se stesso, dei suoi diritti e della sua “inviolabilità”, questa aporia si è ulteriormente radicalizzata, finendo tra l’altro con l’entrare in un conflitto esistenziale (ma implicitamente anche teoretico) con l’appartenenza dell’uomo alla natura, che a sua volta è ormai spesso interpretata come una completa riduzione del soggetto umano alla natura stessa. I “maestri del sospetto” già ricordati, e ancor più molti loro continuatori del secolo XX, hanno dato voce ed espressione anzitutto all’interrogativo e al senso di ribellione che l’esperienza del male, nelle sue molteplici forme, suscita in noi[19].

Di fronte a questa aporia va anzitutto osservato che non solo il male, ma anche il bene esiste ampiamente nel mondo, e specificamente nell’uomo, come bene morale e perfino come santità[20]: anche del bene dunque va data ragione e già per questo motivo una conclusione immediata dall’esistenza del male alla non esistenza di Dio non appare sostenibile. D’altra parte, però, all’interno di un percorso razionale verso Dio, l’interrogativo posto dall’esistenza del male non sembra suscettibile di una risposta pienamente convincente. L’aporia, pertanto, rimane in qualche modo irrisolta. Qui si apre dunque, dal di dentro dell’indagine razionale, lo spazio per il bisogno di una risposta più alta, che in ultima analisi può venire solo da Dio, come già aveva intuito il Socrate del Fedone paragonando il percorso umano a una fragile zattera su cui navigare attraverso la vita, nell’attesa di poter navigare con minori pericoli su un veicolo più solido o su un Lógos divino[21]. Secondo la fede cristiana, il Lógos fattosi carne ci ha offerto un tale veicolo più solido, anche se razionalmente non comprensibile, mediante quel “volgersi di Dio contro se stesso” che si compie, per amore, nella croce del Figlio[22].


5. La via che parte dall’esistenza nostra e del mondo

I tre percorsi razionali verso l’esistenza di Dio che proporrò cercano dunque di porsi come un’unità di distinti. Sono percorsi a posteriori che partono dalla realtà data alla nostra esperienza: anzitutto la realtà di me stesso, ma anche e inseparabilmente la realtà dell’universo al quale apparteniamo. Si articolano secondo i tre “trascendentali” classici dell’essere, del vero e del bene, sempre con riferimento prioritario a noi stessi, in quanto esistenti, capaci di conoscere e capaci di amare. Sono dunque percorsi che rimangono assai radicati nella grande tradizione filosofica e in particolare metafisica. Cercano però anche di prendere sul serio la distanza storica che ci separa dai periodi antico e medioevale di tale tradizione, distanza che si è concretizzata con speciale forza nella svolta verso il soggetto, nel grande sviluppo della dimensione critica nel pensiero moderno, nell’affermarsi delle scienze moderne con il radicale cambiamento dell’immagine dell’universo, e anche dell’uomo, che esse hanno portato e stanno portando con sé.

Il primo percorso, che potremmo denominare “ontologico” ma “a posteriori”, inizia dalla constatazione – immediatamente evidente e non negabile se non vogliamo cadere, come si è visto, in una contraddizione tra il contenuto che affermiamo e l’atto con cui lo affermiamo – che esiste qualcosa piuttosto che nulla. Qui sorge spontanea la domanda “perché esiste qualcosa piuttosto che nulla?”, classica nel pensiero filosofico da Leibniz ad Heidegger. Essa esprime la meraviglia davanti al dato primigenio che qualcosa esiste, davanti cioè all’incontro con la realtà. Nell’esperienza stessa che qualcosa esiste possiamo discernere però tra la sua determinatezza particolare – per cui io sono me stesso, un altro uomo è un altro uomo, ciascun’altra cosa è quella cosa e non una diversa, inserita in quel determinato contesto spaziale e temporale – e l’atto per cui essa esiste: nei termini di San Tommaso l’“atto di essere”. Quest’ultimo per un verso è proprio e peculiare di quella realtà particolare, ma per l’altro la supera e la deborda da ogni parte, perché alla base di ogni esperienza di qualsivoglia realtà esistente ritroviamo analogamente l’atto di essere. Anzi, si può e si deve dire che ogni realtà della nostra esperienza in certo senso è e al contempo non è: è come una realtà ben concreta dell’esperienza, non è nella misura in cui esiste in maniera limitata, mutevole, condizionata e transitoria, quindi non da se stessa. Sotto questo profilo il suo atto di essere non le appartiene in proprio, ma piuttosto le è dato, e soltanto così la pone in essere.

Per questo la nostra intelligenza non può non interrogarsi sull’origine dell’essere delle realtà che sperimentiamo e ricercarlo in una realtà profondamente diversa, non condizionata e trascendente, a cui l’atto di essere appartenga in proprio, anzi, che coincida con esso. Nello stesso tempo diventa chiaro che questa sorgente trascendente, e finalmente ineffabile, non può dare l’essere alle realtà del mondo se non in maniera conforme alla propria incondizionatezza. Non può quindi rientrare in alcuna serie di cause mondane né essere legata da alcun vincolo necessario con i suoi effetti. Una necessità può e deve sussistere solo in direzione inversa, per così dire non dall’alto al basso ma unicamente dal basso all’alto, nel senso che le realtà della nostra esperienza non potrebbero esistere se non ricevendo in dono da quella sorgente il loro atto di essere. Pertanto i concetti di causa e causalità vanno uniti, in questo ambito, a quelli di dono e donazione, per esprimere in qualche modo, secondo le modeste possibilità della nostra comprensione e del nostro linguaggio, il rapporto misterioso tra le realtà della nostra esperienza e la loro sorgente ineffabile[23].

Sono ben note le obiezioni che vengono opposte ad ogni uso trascendente del principio di causalità: in particolare la critica che ne ha fatto Kant, anche con la terza e quarta antinomia della ragion pura, è tuttora ritenuta da molti la parola definitiva su questo punto. Poi, con l’affermarsi della meccanica quantistica, il principio di indeterminazione è stato considerato una conferma scientifica della non universalità, anche all’interno del mondo fisico, del principio di causalità. Occorre dunque precisare, sia pure molto brevemente, il senso in cui facciamo riferimento all’espressione “principio di causalità”, gravata nella storia del pensiero da mille equivoci. Non si tratta del senso che tale principio assume nelle scienze empiriche, per indicare una successione necessaria di fenomeni fisici, e nemmeno semplicemente di un’estensione della causalità di cui facciamo esperienza nel nostro agire. Il significato che gli attribuiamo – che potremmo denominare “ontologico” o “metafisico” e che abbiamo cercato di mostrare concretamente motivando il passaggio dalle realtà della nostra esperienza alla realtà originaria – è invece anzitutto quello di non limitare in maniera aprioristica la nostra tendenza a conoscere e quindi di non sottrarsi alle domande che l’intelligenza umana si pone quando riflette fino in fondo sull’esperienza stessa.

L’ambito su cui possiamo interrogarci – ossia l’intenzionalità della nostra conoscenza – è infatti illimitato e non ammette restrizioni, dato che queste diventerebbero a loro volta automaticamente oggetto di interrogazione circa la loro legittimità. Tale ambito illimitato su cui possiamo interrogarci è esattamente l’essere, sul quale vertono le due domande fondamentali “an sit” e “quid sit”. In concreto, l’essere è ciò che in qualche modo conosciamo fin dall’inizio dell’uso della nostra intelligenza e che però rimane sempre anche il non ancora conosciuto, l’oggetto di ogni ulteriore domanda, conservando al tempo stesso una sua profondamente differenziata ma fondamentale unità, poiché ogni sua effettiva differenziazione a sua volta esiste e quindi rientra nell’ambito dell’essere. Analogamente, ogni suo limite, se reale, apparterebbe in qualche modo all’essere[24]. E’ eliminata così, fin dall’inizio, la questione del “ponte” che ha travagliato il pensiero moderno prima di Kant e che ha contribuito a spingere Kant stesso ad operare la sua “rivoluzione copernicana”.


6. La via che parte dall’intelligibilità della natura

Il nostro secondo percorso razionale verso l’esistenza di Dio ha una profonda corrispondenza con il percorso precedente: riprende infatti sotto il profilo della nostra conoscenza ciò che finora avevamo considerato sotto il profilo dell’essere. Il suo punto di partenza è la constatazione che l’universo è conoscibile da parte dell’uomo, sia pure in maniera sempre imperfetta e rivedibile. Tutti i tentativi di conoscere noi stessi e la natura, che l’umanità da sempre ha compiuto nel corso dei millenni, hanno questo fondamentale presupposto. La nascita e lo sviluppo delle scienze moderne e delle relative tecnologie, con la loro specifica razionalità e fecondità operativa, che costituiscono qualcosa di nuovo e di assai rilevante nella storia del pensiero, presuppongono a maggior ragione la conoscibilità dell’universo e consentono di cogliere con particolare chiarezza che non si tratta di semplice esperienza sensibile, ma di vera e propria intelligibilità, che si pone a un livello diverso e più profondo. La struttura stessa della scienza moderna è caratterizzata infatti da una stretta sinergia tra l’esperienza e la matematica: è questa la chiave dei risultati giganteschi e sempre crescenti che si ottengono attraverso le tecnologie operanti sulla natura, così da mettere a nostro servizio le sue immense energie. La matematica si spinge però al di là di tutto ciò che noi possiamo immaginare e rappresentare sensibilmente, e proprio così consente i più straordinari risultati conoscitivi e operativi, ad esempio nelle equazioni della meccanica quantistica e della teoria della relatività. D’altra parte, i riscontri sperimentali delle previsioni scientifiche e il successo delle loro applicazioni pratiche confermano che esiste una corrispondenza profonda tra la natura e questa nostra conoscenza empirico-razionale (e non soltanto empirica): questo è il senso nel quale affermiamo che l’universo è intelligibile. Si tratta di un’intelligibilità intrinseca alla natura e non ad essa esterna, dato che è la natura stessa ad essere, almeno in qualche modo, conoscibile scientificamente. Non può essere però qualcosa di cui la natura sia dotata di per se stessa e in maniera autonoma: sarebbe infatti del tutto ingiustificata e alla fine assurda un’intelligibilità che esista di per sé, senza essere frutto ed espressione di un’intelligenza. Siamo rimandati così a un’intelligenza originaria, che sia la fonte comune della natura e della nostra razionalità: un’intelligenza distinta e trascendete rispetto alla natura e però, al tempo stesso, ad essa così originariamente e costitutivamente presente da porre in essere una natura in se stessa intelligibile[25].

Riguardo a questo percorso verso l’esistenza di Dio a partire da quell’intelligibilità del mondo che emerge soprattutto dall’analisi della struttura della conoscenza scientifica moderna e contemporanea, sembrano necessarie alcune precisazioni. Esso appare particolarmente adatto all’odierna situazione culturale, nella quale le scienze e gli uomini di scienza giocano un ruolo quanto mai grande. Ha inoltre il vantaggio di mettere in discussione, in certo senso “dall’interno”, quella tendenza a considerare la conoscenza scientifica come la sola capace di farci conoscere qualcosa di razionale e valido per tutti che spesso sfocia nella negazione della possibilità di conoscere Dio e anche nella riduzione del soggetto umano ad un oggetto tra gli altri. Va detto però chiaramente che anche questo percorso verso Dio, pur valorizzando la struttura della scienza empirica, non sta sul piano di tale genere di scienza e nemmeno dell’epistemologia intesa come studio dei metodi e dell’indole proprio della conoscenza scientifica, ma si sviluppa invece a livello filosofico e più precisamente metafisico, come riflessione sulle condizioni ontologiche che rendono possibile la conoscenza scientifica.

Le obiezioni che vengono sollevate contro un simile percorso riguardano principalmente il fatto stesso che la natura sia da noi intelligibile. Rimane classica a questo proposito ed esercita tuttora una grande influenza la tesi di Kant, che già abbiamo discusso, secondo la quale le scienze farebbero conoscere non la realtà ma soltanto l’“oggetto”[26]. Oggi però le obiezioni fanno leva soprattutto su quelle correnti dell’epistemologia che sottolineano i limiti della conoscenza scientifica, in particolare la sua rivedibilità e provvisorietà, assai diversamente da quel che si pensava al tempo di Kant. Conoscenza rivedibile e provvisoria non equivale però a nessuna conoscenza: in concreto nessuna critica epistemologica deve indurci a mettere tra parentesi quella capacità di penetrazione nella natura che, per quanto parziale, rivedibile e imperfetta, consente alle scienze di non limitarsi a descrivere i fenomeni direttamente osservabili, ma di indagare su di essi, per concludere ad altri fenomeni, di cui si ottiene spesso riscontro sperimentale, oltre che per conseguire tramite le tecnologie crescenti risultati pratici.

Il principio di indeterminazione della meccanica quantistica, con la conseguente necessità che determinate leggi siano soltanto statistiche e probabilistiche, non impedisce che anche queste leggi costituiscano una forma di conoscenza dei fenomeni fisici, sebbene molto diversa da quella delle leggi della meccanica classica. Tali leggi implicano a loro volta delle serie molto complesse di processi logici, attraverso i quali è resa possibile una nuova penetrazione all’interno del mondo fisico.

E’ da prendere inoltre in attenta considerazione l’esistenza di una grande abbondanza di sistemi fisici caotici – il cosiddetto caos deterministico: se ne occupano le teorie del caos e della complessità –, che possono essere studiati solo con equazioni differenziali non lineari, che però quasi sempre non sappiamo risolvere. Ciò mette certamente in evidenza che la natura non può essere totalmente rappresentata attraverso un approccio matematico (o quanto meno attraverso gli strumenti matematici di cui disponiamo attualmente), ma non implica in alcun modo che tali sistemi siano propriamente e assolutamente inintelligibili[27]. E’ chiaro, ad ogni modo, che il caos non può essere il tutto dell’universo, perché altrimenti le nostre tecnologie sarebbero inapplicabili, non funzionerebbero[28].

Questo itinerario verso l’esistenza di Dio a partire dall’intelligibilità della natura è certamente vicino alla “quinta via” di S. Tommaso. A differenza di essa non parte però dalla presenza della finalità nell’universo ma, in maniera più globale e radicale, dalla constatazione che l’universo è intelligibile.

Nel cercare di arrivare all’esistenza di Dio partendo dalla nostra conoscenza della natura non ho fatto riferimento agli apporti che potrebbero essere forniti dai risultati, e non solo dalla struttura, delle attuali conoscenze scientifiche sia dell’universo sia in particolare della vita. I motivi di questa scelta sono principalmente due: il continuo evolversi di tali conoscenze e la necessità, in ogni caso, di un passaggio non “fisico” ma metafisico se con la nostra ragione vogliamo arrivare davvero, per quanto imperfettamente, a Dio. Ciò non significa però che l’immagine dell’universo e della vita attualmente proposta dalle scienze non sia di grandissimo interesse per l’approccio razionale a Dio (come del resto in ogni tempo l’approccio a Dio è stato condizionato dall’immagine dell’universo allora vigente). Mi limito ad osservare che la concezione, ormai affermatasi nel mondo scientifico, dell’universo come “storia” non è certo meno compatibile, ma piuttosto assai più simpatetica con la contingenza dell’universo – ossia con la sua non auto-sufficienza ontologica – rispetto alla concezione precedente dell’universo stesso, caratterizzata soltanto dalla perennità delle leggi fisiche.

D’altra parte, i limiti intrinseci delle scienze moderne, derivanti dalla loro struttura e metodologia, e la netta distinzione che va mantenuta tra sapere scientifico e sapere filosofico e metafisico, non implicano che vada ignorato quel rinnovato interesse che le grandi domande sull’uomo, sulla vita, sulla totalità dell’universo suscitano sempre più tra coloro che sono impegnati nella ricerca scientifica, per il fatto che proprio l’avanzare delle scienze stimola a porre problemi che debordano dai canoni metodologici delle scienze stesse. Non raffrenando ma al contrario incoraggiando tale interesse potrà progredire, nella distinzione reciproca, una feconda interazione tra le scienze e la filosofia, e anche tra le scienze e la teologia, non senza la mediazione della filosofia[29].


7. La via che parte dall’esperienza etica

Il terzo percorso razionale verso l’esistenza di Dio ha a che fare con il bene e con la nostra capacità di amarlo, di accoglierlo e di compierlo. Come punto di partenza prendiamo il soggetto umano, e in particolare l’esistenza in noi e la percezione del valore morale e dell’obbligazione morale. Essi infatti costituiscono un dato irriducibile della nostra coscienza ed esperienza, dotato di un’incondizionatezza che non si lascia rendere totalmente funzionale ad alcuno obiettivo o fine ad esso esterno, sebbene altri obiettivi (ad esempio la conservazione della nostra specie) possano senz’altro congiungersi al valore e all’obbligazione morale. Una tale riduzione funzionale farebbe svanire infatti l’incondizionatezza del valore e dell’obbligazione e comporterebbe quindi l’eliminazione dell’esperienza morale in quanto tale[30]. Il valore morale che sta alla base di questa esperienza fa certamente riferimento al soggetto umano, alla sua ragione, volontà e libertà, e a tutte le condizioni e i condizionamenti sociali e storici entro cui il soggetto vive. Non può tuttavia risolversi integralmente in essi, dato che ciò equivarrebbe a rendere del tutto relativa al soggetto e alla sua storia l’esperienza morale, sopprimendo di nuovo il suo carattere incondizionato. D’altra parte il valore morale non può godere nemmeno di una priorità “in sé”, che si riconduca in ultima analisi solamente al valore stesso: anch’esso infatti, per valere effettivamente, ha bisogno di esistere. La persona umana (e con essa la comunità degli uomini), con il suo valore di fine e con la sua dignità inviolabile, sembrerebbe poter rappresentare per il valore un tale ancoraggio alla realtà: ad un esame più attento, però, il valore propriamente morale della persona concreta passa attraverso la sua adesione al valore stesso, adesione al contempo libera e obbligante, e quindi non può fondarla ma piuttosto la presuppone. Fondamento adeguato del valore morale, nella sua incondizionatezza, può essere dunque soltanto un essere incondizionato, che coincida con esso: proprio attraverso questa coincidenza si esprimono l’esistenza e la natura intima di Dio.

Questo percorso ha certamente bisogno di una formulazione e giustificazione più ampie e approfondite[31]. Mi limiterò ad alcune precisazioni che inquadrano meglio il percorso stesso. Anzitutto il valore e l’obbligazione morale trovano il loro fondamento prossimo non in Dio ma nell’incondizionatezza a loro intrinseca. Non è possibile, inoltre, ricavare il valore e l’obbligazione morale da Dio fin tanto che Dio stesso non è riconosciuto come “morale”, sebbene in un senso del tutto trascendente[32]. Proprio in quanto è, in questa maniera trascendente, “morale” in se stesso, Dio è il fondamento ultimo del valore morale e dell’obbligazione: senza di lui essi esistono ma non possono essere giustificati in modo pienamente coerente.

Ciò detto, è facile individuare sia i punti di contatto sia le profonde differenze di questo percorso rispetto al modo in cui Kant afferma l’esistenza di Dio, sommamente santo e beato, come terzo postulato della ragion pratica. Qui mi preme soltanto sottolineare che, mentre per Kant si tratta appunto di un “postulato” che resta fuori dall’ambito della ragione teoretica ed è affermato solo per “fede” o “conoscenza pratica”, per la necessaria connessione che deve esistere tra la bontà morale e il conseguimento della felicità, il percorso che ho proposto prende certamente in esame l’esperienza morale nella sua irriducibile specificità, ma per riflettere sulle sue implicazioni in termini non solo etici bensì metafisici.

Il percorso razionale dall’esperienza etica a Dio può essere impostato anche in modo da condurre a Dio come colui che ci dona la capacità effettiva di agire moralmente, piuttosto che come fondamento del valore e dell’obbligazione morale[33]. Si tratta di un approccio senza dubbio stimolante, che però deve stare in guardia dal rischio che l’esistenza di Dio sia affermata come una nostra esigenza, e non anzitutto come una verità che riconosciamo oggettivamente valida. E’ vero d’altronde che un rischio del genere insidia con particolare intensità ogni percorso verso Dio che prenda le mosse dall’esperienza etica. L’aporia derivante dall’esistenza del male nel mondo e specialmente nell’uomo non può non avere, del resto, un impatto particolarmente diretto su ogni percorso razionale verso Dio che parta dall’esperienza etica.


8. Ritornando sui nostri passi

Tentiamo infine un approccio sintetico e una valutazione critica dei tre percorsi proposti. Essi si riferiscono, come accennavo prima di articolarli, ai tre trascendentali dell’essere, del vero e del bene e ciascuno di essi può essere sviluppato mettendo in maggior o minor rilievo la specificità del soggetto conoscente e volente, oltre che, ovviamente, esistente.

Non ho fatto alcun riferimento a un quarto trascendentale, quello della bellezza, per la difficoltà che avrei a trattarlo, anche se sono convinto che l’esperienza della bellezza sia una via assai importante per andare verso Dio: a questo tema, sotto un’angolatura diversa, è dato comunque ampio spazio nel nostro Evento Internazionale.

Il Dio di cui questi percorsi conducono a riconoscere l’esistenza è a sua volta, inseparabilmente, esistente, intelligente e volente, sebbene in un modo che trascende ogni nostra capacità di conoscere. Usando termini che stanno per così dire più dalla parte dell’oggetto, egli è l’essere, il vero e il bene originario. Nel giungere ad affermare la sua esistenza siamo quindi pervenuti anche a precisare, almeno in modo iniziale, che cosa, o meglio chi egli sia.

In particolare, data la tendenza a mettere in alternativa la bontà morale di Dio e la sua onnipotenza, oggi diffusa a motivo delle enormi dimensioni del male morale e della sofferenza, è bene precisare che onnipotente e buono sono i due predicati i quali, nella loro unità essenziale e necessaria, consentono una prima individuazione del significato della parola “Dio”, discernendo tale significato dalle tante riduzioni e contraffazioni a cui questo nome può andare soggetto[34].

Tutti e tre i percorsi, come dicevo, comportano un passaggio propriamente metafisico, quindi non verificabile mediante l’esperienza sensibile. Questa è la condizione per tentare di accedere alla realtà trascendente di Dio ma, a mio parere, è anche la fonte di un limite ineliminabile che si annida in ogni percorso razionale verso Dio. Già si è accennato ai limiti della conoscenza scientifica, nonostante il suo costante ricorso alla verifica sperimentale: sarebbe strano che la filosofia, e in particolare la metafisica, non avessero dei limiti non meno gravi, anche se diversi. Se mi è lecito fare un passo in più su questo difficile terreno, direi che, da una parte, nonostante l’irriducibile molteplicità di posizioni contrastanti che attraversa tutta la storia del pensiero filosofico – e che viene spesso ricordata come un motivo per non dare credito alla filosofia, almeno come fonte di conoscenze obbiettivamente valide – questa storia è anche segnata dalla presenza di alcune costanti che, pur essendo a loro volta soggette a contestazioni antiche e nuove, tuttavia sono sempre vive e convincenti: un esempio di esse è la confutazione degli antichi sofisti operata da Platone ed Aristotele e tuttora fondamentale per rispondere a chi nega la possibilità stessa di conoscere il vero, come ho cercato di mostrare in precedenza. Alla base di questa persistenza sta a mio parere una “metafisica latente”, presente e operante in ogni nostra conoscenza intellettuale, che la metafisica riflessa deve tematizzare e rendere esplicita. Dall’altra parte l’impossibilità di verifiche sperimentali non consente di immaginare, in ambito propriamente filosofico, risolutivi progressi o cambiamenti di paradigma che permettano dei processi di accumulazione delle conoscenze analoghi a quelli che costituiscono uno dei pregi fondamentali delle scienze moderne, malgrado la loro fallibilità e provvisorietà.

A mio parere la metafisica oggi deve procedere a una auto-limitazione e rigorizzazione, che vadano nettamente al di là di quanto è stato già operato dai grandi metafisici dell’antichità e del medioevo[35]. Dovrebbe essere meglio salvaguardata così, anche dal punto di vista della metafisica, quell’assoluta trascendenza di Dio rispetto ad ogni capacità della nostra mente che è ben riassunta dalle parole Deus semper maior.

Le difficoltà dell’approccio metafisico nel contesto culturale contemporaneo, aggiungendosi all’aporia derivante dall’esistenza del male nel mondo, sono le ragioni di fondo di quella “strana penombra che grava sulla questione delle realtà eterne”. Perciò l’esistenza del Dio personale, pur solidamente argomentabile come abbiamo cercato di fare, non è oggetto di una dimostrazione apodittica, ma rimane “l’ipotesi migliore… che esige da parte nostra di rinunciare a una posizione di dominio e di rischiare quella dell’ascolto umile”[36]. Sono grandi le implicazioni di un simile riconoscimento, sia per i rapporti tra credenti e non credenti che, già per questa ragione di fondo, andrebbero improntati a un sincero e convinto rispetto reciproco, sia per l’atteggiamento personale di ciascun credente, e in particolare per il ruolo fondamentale che deve occupare la preghiera nel nostro rapporto con Dio, così da poter impetrare da lui il dono della fede, che ci dà quella certezza incondizionata, e al contempo libera, riguardo a Dio che, come spiega S. Tommaso[37], non esclude in alcun modo lo spazio per ulteriori indagini, ma sostiene la nostra fedeltà a lui fino al dono di noi stessi[38].

Termino con una constatazione che mi sembra assai significativa della condizione in cui stiamo vivendo. Esiste cioè un profondo parallelismo tra l’approccio a Dio e l’approccio a noi stessi, in quanto soggetti intelligenti e liberi. In entrambi i casi siamo attualmente sottoposti alla pressione di un forte e pervasivo scientismo epistemologico e naturalismo, spesso inconsapevolmente metafisico, che vorrebbero dichiarare Dio inesistente, o quanto meno razionalmente non conoscibile, e ridurre l’uomo a un oggetto della natura tra gli altri. Oggi, come forse mai in precedenza, appare chiaro dunque che l’affermazione dell’uomo come soggetto e l’affermazione di Dio simul stant et simul cadunt. Ciò del resto è profondamente logico, poiché da una parte è ben difficile fondare un vero e irriducibile emergere dell’uomo rispetto al resto della natura se la natura stessa è il tutto della realtà, e dall’altra è ugualmente difficile lasciare razionalmente aperta la via al Dio personale, intelligente e libero – in modo vero anche se per noi ineffabile – se non si riconosce al soggetto umano questa sua irriducibile specificità. Rendere testimonianza al vero Dio e al tempo stesso alla verità dell’uomo è però il compito forse più esaltante che ci sia dato di adempiere.



[1] Cfr R. Spaemann, Il significato sociale della fede, in Supplemento al numero 9 di Fondazione Liberal, 2001.

[2] Cfr J. Ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi della culture, ed. Cantagalli 2005, pp.103-114.

[3] De diversis quaestionibus, 83,35,2; cfr 1Gv 4.

[4] Summa Theologiae, I, q.2 prologo; a.2 sed contra.

[5] K. Rahner, Meditazione sulla parola “Dio”, in Ma chi è questo Dio?, ed. Paoline 1970, p.9.

[6] Cfr J. Ratzinger, Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, ed. Cantagalli 2003, pp. 274-275.

[7] Gaudium et spes, 22.

[8] Cfr K. Rahner, Theos nel Nuovo Testamento, in Saggi teologici, ed. Paoline 1965, pp.467-505.

[9] R. Swinburne, The Existence of God, Clarendon Press 1992, a suo modo, ne raccoglie molti.

[10] Al riguardo sono importanti oggi soprattutto gli studi di J. Ries, in particolare i volumi II, III, IV/1 e IV/2 delle Opera omnia in corso di pubblicazione presso la Jaca Book: rispettivamente L’uomo e il sacro nella storia dell’umanità, L’uomo religioso e la sua esperienza del sacro, Simbolo, Mito e rito.

[11] Cfr Concilio Vaticano I, Costituzione dogmatica Dei Filius, Denzinger, 37ª ed., 3004-3005, 3026; Giuramento antimodernistico (“adeoque demonstrari etiam”), D. 3538; Enciclica Humani generis, D. 3875-76 (analogia con le prove razionali del fatto della rivelazione); Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Dei Verbum, 6 e anche Costituzione pastorale Gaudium et spes, 19,21; Catechismo della Chiesa cattolica, 36-38 e più ampiamente 27-49.

[12] Rom 1,18-20, cfr anche 21-23 e fino al termine del cap. 1. Vedi anche Sapienza 13,1-9.

[13] Summa Theologiae, I, q.2, a.1.

[14] Al riguardo restano particolarmente rilevanti le considerazioni del giovane J. Ratzinger, nella sua prolusione del 1959 all’Università di Bonn, Il Dio della fede e il Dio dei filosofi. Un contributo al problema della theologia naturalis, Marcianum Press 2007: cfr specialmente le pp.51-55.

[15] Il ricorso agli schemi della fantasia trascendentale non risponde a questa aporia, dato che la loro funzione è psicologica piuttosto che propriamente gnoseologica.

[16] Cfr Aristotele, Metafisica, libro IV, capp. 3-8; B. Lonergan, Metaphysics as Horizon, Gregorianum 1963, p.310; Ragione e fede di fronte a Dio, ed. Queriniana 1977, pp.87-102. Completeremo questa riflessione quando prenderemo in considerazione l’uso del principio di causalità al di là dell’esperienza sensibile.

[17] A questo riguardo cfr Y. Labbé, Dieu contre le mal. Un chemin de théologie philosophique, éd. du Cerf 2003, pp.39-70; 124-137; 152-157.

[18] R. Spaemann, La diceria immortale. La questione di Dio o l’inganno della modernità, ed. Cantagalli 2007, pp. 89-90, nota acutamente che il tentativo di spiegare alla filosofia, con l’aiuto di una teoria funzionale, ciò che essa è realmente, coincide con la spiegazione della fine della filosofia.

[19] In particolare Nietzsche ha ritenuto che l’attacco decisivo al cristianesimo – e quindi al Dio del cristianesimo – non possa essere portato sul tema della verità, ma su quello della morale cristiana: essa, in quanto morale che reprime, costituirebbe un grande crimine contro la vita, la libertà, la gioia. Questa intuizione ha avuto nel nostro tempo un riscontro storico certamente rilevante.

[20] Questo sarà, nella sua sostanza, il nostro terzo percorso razionale verso Dio.

[21] Cfr Platone, Fedone, 86 a.

[22] Cfr Benedetto XVI, Enciclica Deus caritas est, 12. La centralità del problema del male per la questione dell’esistenza di Dio è assunta da Y. Labbé, Dieu contre le mal, cit., tanto seriamente da porre l’esistenza del male fin dall’inizio “all’interno” del percorso razionale che conduce ad affermare l’esistenza di Dio e a conoscere in qualche modo la sua natura.

[23] Per questo modo di articolare un percorso “ontologico a posteriori” verso Dio sono in larga misura debitore a G. Lafont, Dieu, le temps et l’être, éd. du Cerf 1986, pp.61-92, 267-336, che si è confrontato soprattutto con M. Heidegger, cercando di superare però la sua critica troppo generalizzata alla metafisica come “ontoteologia”. Ho già presentato brevemente questo percorso nella mia Piccola risposta teologico-filosofica al Professor Dario Antiseri, pubblicata in calce al volume dello stesso Antiseri Teoria della razionalità e ragioni della fede, ed. San Paolo 1994: cfr pp.254-258. Sulla tematica del dono e della donazione sono assai importanti gli studi di J.-L. Marion, ma qui non vi abbiamo fatto ricorso perché sembrano muoversi su una linea in qualche modo alternativa al discorso dell’essere.

[24] Cfr Lonergan, Metaphysics, cit., pp.307-310.

[25] Avevo delineato questo percorso in due articoli pubblicati sul quotidiano la Repubblica il 27 dicembre 1992 e il 10 febbraio 1993, e poi ripresi in Le ragioni della fede. Indicazioni di percorso, ed. Paoline 1993, pp.57-76. Per le precisazioni ulteriori che ho qui proposto sono debitore a J. Ratzinger-Benedetto XVI, Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, ed. Cantagalli 2003, pp.188-192; incontro con i giovani di Roma e del Lazio, 8 aprile 2006; discorso all’Università di Regensburg, 12 settembre 2006; discorso al Convegno ecclesiale di Verona, 19 ottobre 2006.

[26] Kant ha l’indubbio merito di aver impostato un discorso filosofico di grande respiro sulle condizioni di possibilità della scienza moderna. La sinergia che egli rivendica tra sensibilità e intelletto in quanto sinergia è incontestabile, ed è anche assai più vicina all’approccio di Aristotele di quanto Kant stesso sembri ritenere. Inoltre, specialmente nella Critica del giudizio, egli ha in qualche modo prefigurato, o almeno ricercato, una via d’uscita dai limiti della Critica della ragion pura. E’ questa prima critica però quella che ha avuto un’influenza preponderante sugli sviluppi della gnoseologia e della questione della metafisica dopo Kant.

[27] Sulle problematiche del caos cfr R. Maiocchi, Anche il caos ha le sue regole. Determinismo e caos nella storia della scienza moderna, EDUCatt 2009.

[28] Così Benedetto XVI all’incontro già ricordato con i giovani di Roma e del Lazio dell’8 aprile 2006.

[29] Cfr E. Agazzi, Le frontiere della conoscenza scientifica e l’ipotesi del trascendente, in AA.VV., Valori, scienza e trascendenza, vol. II, ed. della Fondazione Giovanni Agnelli 1990, pp. 1-12.

[30] Cfr R. Spaemann, La diceria immortale, cit., pp.89-92.

[31] Per questo rimando all’Etica generale di J. de Finance, ed. Tipografia Meridionale 1975, dove trova largo spazio l’analisi dei fondamenti e dello sviluppo di un simile percorso. Un approccio analogo è adombrato da Benedetto XVI che, nell’Enciclica Spe salvi, 43 e più ampiamente 42-44, si dice personalmente convinto che la questione della giustizia costituisca l’argomento essenziale, e in ogni caso il più forte, in favore della fede nella vita eterna: la sua argomentazione fa chiaramente riferimento anche all’esistenza di Dio.

[32] Il Dio tre volte santo (Isaia 6,3), che è l’agape (1Gv 4,8.16).

[33] Così procede Y. Labbé, op. cit., pp. 124-137.

[34] Cfr R. Spaemann, La diceria immortale, cit., pp.19-21. Seguendo un percorso diverso, J. Ratzinger fa un’osservazione fortemente convergente, nell’analisi critica del libro di J. Assmann Mosé l’egizio contenuta in Fede Verità Tolleranza, cit., pp. 223-244: rileva infatti che la distinzione mosaica tra vero Dio e falsi dei, quindi anzitutto tra vero e falso, è anche distinzione socratica e che da essa è inseparabile l’altra distinzione, tra bene e male, anch’essa mosaica e socratica. Così, unitamente al legame tra rivelazione e razionalità, è affermato il nesso inseparabile tra verità e bontà, sia dell’essere sia del soggetto umano.

[35] Assai indicativo in proposito è il contributo di E. Berti, Quale metafisica per il terzo millennio?, in Proceedings of the Metaphysics for the Third Millennium Conference, ed. de la Universidad de Loja 2001, vol. I, pp. 29-44.

[36] Cfr J. Ratzinger, L’Europa di Benedetto, cit., pp. 115-124.

[37] Q. D. De Veritate, q.14, a.1 c; Summa Theologiae, II-II, q.2, a.1 c.

[38] Cfr Spaemann, La diceria immortale, cit., p. 30: “Per colui che crede in Dio l’ipotesi probabile si trasforma in certezza inesorabile, perché prega.

«DIO OGGI» E LA NOSTRA UMANITÀ NESSUN PROGRESSO CANCELLA LA MEMORIA DEL SENSO

FRANCESCO BOTTURI
S
ono contento di aver collaborato all’e­vento «Dio oggi. Con Lui e senza di Lui cambia tutto» a cura del Comitato per il Pro­getto culturale della Cei, e ancor più di aver­vi partecipato a pari titolo delle molte centi­naia di persone che hanno affollato l’Audito­rium di via della Conciliazione, portando il contributo della loro aspettativa e della loro attenzione, segno di un impegno personale di interesse che non può non colpire.
Mi è sembrato che l’intenzione di creare un 'evento' abbia avuto successo, non nel sen­so effimero quantitativo e spettacolare, ma in quello sostanziale di un incontro allargato in cui si condivide qualcosa di importante e di coinvolgente. Così è stato per una grande assemblea in cui si realizzava anche un in­contro molto significativo di generazioni, di ceti culturali, di appartenenze non solo ec­clesiali.
La domanda su Dio non è affatto morta. I pro­gressi economici e tecno-scientifici non can­cellano la memoria del senso; anzi, le sempre maggiori incertezze che accompagnano le lo­ro sicurezze fanno sentire che gli orizzonti della vita e del desiderio umano sono ben più ampi ed esigenti. Ciò che spinge di nuovo ver­so la questione di Dio non credo che sia oggi il riverbero della crisi delle ideologie o la stan­chezza della secolarizzazione, che avendo or­mai secolarizzato tutto non ha più nulla da ag­giungere; bensì il riemergere della elementa­re percezione che non si può vivere la vita u­mana senza una qualche visione dell’esi­stenza come un tutto e della propria espe­rienza come qualcosa di unitario. Non per ca­so l’interesse estetico, nei suoi molti modi e livelli, è comunque e diffusamente presente oggi nel vissuto condiviso: l’esperienza del bello evoca di per sé un senso di unità viven­te e di appartenenza complessiva.
Certamente, tutto ciò è solo in modo anoni­mo pensiero di Dio e domanda di Dio, ma è tuttavia segno di un memoria e di una no­stalgia che trapassano le mura fortificate del vivere nelle cose e delle cose, e premessa per una nuova sensibilità. L’idea della totalità, in­fatti, porta con sé l’inesorabile domanda se ciò di cui si vive sia a misura dell’esigenza di u­nità che l’esistere porta in sé e se la vita che si vive risponda al senso di perfezione che l’e­sperienza del bello attesta. Si comprende, al­l’opposto, come il nichilismo quotidiano in cui siamo immersi usi della strategia di far vi­vere nel particolare dello stato emotivo sen­za profondità, nella scomposizione dei tanti interessi, nell’autoreferenzialità narcisistica dell’immediato; insomma abbia bisogno di un’esistenza gestita nell’assenza di stupore e di interrogazione.
«Dio oggi» è stato il contenuto di un evento, perché ha aperto uno spazio di attenzione e di domanda sull’orizzonte globale di senso entro cui l’esistenza umana fa il suo corso, mostrando con abbondanza di testimonian­ze e di esempi che tutto ciò non è solo ogget­to di un sentire profondo, ma è anche ogget­to possibile di un lavoro intellettuale e cultu­rale ricco di tradizione, di argomenti, di pro­spettive. Che il cardinal Ruini abbia ripropo­sto una riflessione sulle prove razionali del­l’esistenza di Dio, che il professor Spaemann abbia argomentato sulla ragionevolezza del­la fede in Dio, che il cardinal Scola abbia di­scusso il senso antropologico della ritornan­te questione di Dio dopo il travaglio della se­colarizzazione moderna ha testimoniato che esiste un livello del domandare umano che è una sorgente viva, feconda, dialettica, ine­sauribile di itinerari di pensiero e di forme di cultura. E che tutto ciò è allo stesso tempo proposta di esercizio personale di razionalità e via della fede nel Dio che, incarnandosi, ha dato nuovo senso alla totalità dell’esistenza.


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Scola: l'eclissi di Dio


A lato, l'eclissi totale di sole del 29 marzo 2006 fotografata da Angelo Molinari, che ringraziamo.

Dal sito del Patriarca di Venezia riprendiamo il testo dell'intervento di Angelo Scola al convegno dal titolo “Dio Oggi. Con Lui o senza di Lui cambia tutto” promosso dal Comitato per il progetto culturale della Cei, dall’11 al 12 dicembre a Roma. Il card. Scola è intervenuto venerdì 11 dicembre all’interno della seconda sessione dei lavori, intitolata “Il Dio della cultura e della Bellezza”.

1. Modernità: deicidio o eclissi di Dio?

A suo tempo Augusto Del Noce ha affermato: «L’ateismo si fa destino della modernità» dal momento che la modernità immanentista termina nella rinuncia radicale alla domanda sul senso. Anzi, insiste il filosofo, l’in-sensatezza della modernità altro non sarebbe che la prova del deicidio compiuto[1].

Ma quale Dio sarebbe stato ucciso? Ed anche: quale Dio è quello che la modernità filosofica religiosa ha affermato e difeso? Per identificarlo possiamo far ricorso ad un celebre passaggio della Lettera ai Romani in cui San Paolo, parlando di Abramo, dice: «Sta scritto: “Ti ho costituito padre di molti popoli”; (è nostro padre) davanti al Dio nel quale credette, che dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono» (Rm 4, 17).

L’Apostolo sa bene Chi è il Dio di cui vuol parlare. Dio è «colui che dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono» (Rm 4, 17). Nel primo capitolo della stessa Lettera ai Romani, l’apostolo aveva ammonito che non ha alcuna scusa chi non riconosce «ciò che di Dio si può conoscere… perché Dio stesso lo ha manifestato. Infatti le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo per le opere da Lui compiute» (Rm 1, 19-20).

Ciò che di Dio si può conoscere, dice Paolo. Cioè: di Dio non si può conoscere tutto, ma quel che di Dio si può conoscere lo possono conoscere tutti. Ebbene la modernità ha veramente ucciso questo Dio? O lo si può invece ancora oggi nominare? La notitia Dei continua ad essere pertinente alla condizione dell’uomo post-moderno[2]?

2. Eclissi e ritorno di Dio

Eclissi sembra a me la parola più adeguata per descrivere il tormentato rapporto della modernità euroatlantica con Dio. La metafora del frapporsi della luna tra la terra ed il sole esprime il carattere transitorio di tale nascondimento. Già Theilard De Chardin l’aveva evidenziato: «L’umanità ha momentaneamente perduto il suo Dio»[3].

A. La perdita di Dio

La parola eclissi per indicare questa temporanea sparizione venne usata a partire dagli anni ’50 da Martin Buber, che la pose come titolo di una celebre raccolta di saggi[4]. Che cosa intendeva Buber per “eclissi di Dio”? Con questa metafora l’esponente del pensiero dialogico certamente contestava l’idea della “definitiva” morte di Dio annunciata da Nietzsche ed affermava la possibilità che Dio stesso potesse presentarsi, anche a breve, nuovamente accessibile[5].

Abbastanza sorprendentemente, trattandosi di quella penna e di quegli anni, Buber non volle affatto parlare dei drammi storici che hanno “nascosto” la faccia di Dio e riproposto, nella loro antica formulazione ma con nuova angoscia, i temi della teodicea.

Si riferiva piuttosto a quelle movenze del pensiero moderno che, in campo sia filosofico sia teologico, hanno progressivamente oscurato il rapporto con Dio, perché hanno ridotto Dio ad un contenuto oggettivabile di una teoria, in ossequio all’epistemologia razionalistica moderna modellata cartesianamente sul rapporto soggetto-oggetto: l’intelligibile è tale nella forma di una oggettivazione operata dal soggetto. In tal modo, qualunque sviluppo teorico abbia raggiunto la riflessione umana, Dio in quanto eterno “Tu” scomparirebbe e diventerebbe sempre più difficile parlare con Dio, ricevere la sua parola e potervi rispondere.

Secondo Buber è esattamente questa la ragione per cui Dio si è eclissato: non quindi per motivi sociologici o morali e neppure direttamente teoretici, ma per un singolare difetto nell’atteggiamento spirituale fondamentale dell’uomo, che tra sé e Dio frappone la propria mentalità oggettivante, con la sua pretesa di poterLo afferrare.

Già Agostino aveva messo in guardia da questa tentazione – «Si comprehendis non est Deus»[6] – e la prima scolastica aveva un vivo sentimento dell’insuperabile funzione della “teologia negativa” per parlare di Dio senza perdere il senso del suo mistero.

Con acume Sergio Quinzio, introducendo una traduzione italiana del volume di Buber[7], denuncia il pericolo di questa interpretazione dell’esperienza religiosa in chiave decisamente soggettiva: nessuna istanza, secondo Buber, al di fuori del sentimento individuale, potrebbe giudicare in ultima analisi la realtà di un’esperienza religiosa. Il suo suggestivo richiamo all’esperienza del “Tu” e la sua critica all’oggettivizzazione si rivelerebbe quindi affine ad una dissoluzione soggettiva della tradizione religiosa in cui, per esempio, non solo il ruolo della Scrittura, ma anche quello dell’oggettività dell’etica e dell’impegno storico, verrebbe pericolosamente minimizzato. La critica evidenzia l’insufficienza della prospettiva di Buber: se l’eclissi di Dio è dovuta alla perdita del rapporto personale con Lui, non si rimedia portandosi a livello di un’incontrollabile ispirazione soggettiva, ma ritornando ai dati reali e oggettivi («le opere da lui compiute» e la possibilità di comprendere la sua eterna potenza e divinità di Paolo) che in ultima analisi permettono tale rapporto. L’uscita teologica dal secolarismo chiede di ripensare in modo unitario storia, ontologia ed esperienza, affinché si dia di nuovo relazione con il Dio di Gesù Cristo.

B. Età secolare ed eclissi di Dio

La condizione spirituale dell’eclissi di Dio è in rapporto storico con l’epocale processo di secolarizzazione in atto[8]. Senza dover qui riproporre le note precisazioni di vocabolario legate al significato proprio dei termini secolarizzazione (laicizzazione), secolarismo e secolarità[9], sono illuminanti le conclusioni dell’analisi condotta da Taylor nella sua poderosa opera L’età secolare[10].

Per Taylor il nucleo della secolarizzazione delle odierne società euroatlantiche consiste nel considerare la fede in Dio come un’opzione tra le altre. Siamo passati da una società in cui era «virtualmente impossibile non credere in Dio, ad una in cui anche per il credente più devoto questa è solo una possibilità umana tra le altre»[11]. La nascita di un “umanesimo esclusivo”, in cui è diventata concepibile l’eclissi di tutti i fini che trascendono la prosperità terrena dell’umanità, elimina ogni possibilità di una considerazione “ingenua” della fede religiosa e apre il campo a una pluralità di opzioni. Tutti, credenti e non credenti, secondo Taylor, dovrebbero ormai far riferimento ad un nuovo sfondo “riflessivo” che ha cambiato radicalmente il peso ed il posto della religione nella nostra società.

C. Dio è tornato?

Tuttavia l’odierna età ci riserva una grossa sorpresa: in essa non solo è presente l’istanza critica nei confronti della coscienza religiosa, ma anche la riaffermazione del religioso nella vita personale e sociale[12].

È ormai noto agli studiosi che le previsioni fatte negli anni Sessanta dai sociologi e, sulla loro scorta, da non pochi teologi circa la secolarizzazione e la morte di Dio, si sono rivelate sbagliate. Per stare all’ambito teologico basti pensare a come ci appare oggi improprio il discorso di un cristianesimo che, ridotto al “mondo mondano”, parli di Dio in maniera secolare [13]. Di fronte alla smentita venuta dalla realtà oggi si parla piuttosto di società post-secolare[14], con un termine ambiguo che comunque, come ha scritto Spaemann, torna a riferirsi al religioso[15]. Più precisamente, oggi la questione della secolarizzazione ha lasciato decantare i suoi plurimi significati, mostrandone le diverse attualità. Per esempio, come suggerisce J. Casanova, oggi è più chiaro che il frutto duraturo del processo di secolarizzazione è la “differenziazione” tra sfera religiosa e sfera secolare, mentre le tesi della secolarizzazione come inevitabile “declino religioso” e come irreversibile “privatizzazione” della religione non sono più attuali. Anzi, osserva ancora Casanova, «le religioni di tutto il mondo», quelle tradizionali piuttosto che i «nuovi movimenti religiosi», «stanno facendo il loro ingresso nella sfera pubblica» e partecipano alle lotte per la ridefinizione dei confini moderni tra sfera pubblica e privata, tra sistema e mondo vitale, tra legalità e moralità, ecc[16].

Tuttavia è innegabile che questo ritorno del sacro, delle religioni, di Dio, possiede un carattere problematico e non privo di vistosi equivoci, che hanno dato luogo a molte valutazioni contrastanti.

Se la sociologia mette in evidenza l’irriducibilità del sacro, ponendolo in relazione con l’insoddisfazione lasciata dalla modernità e con l’inconsistenza della postmodernità, tuttavia vi appare probabilmente sovrastimata l’importanza attribuita al fallimento degli ideali “moderni” nel loro rapporto con il futuro della religione e in particolare del cristianesimo. È sicuramente vero che la fine del socialismo reale, del sogno scientista, di un “pensiero forte” filosofico autofondantesi, insomma il tramonto degli “assoluti terrestri”, potrebbe riaprire lo spazio per altri assoluti di carattere trascendente[17]. È però altrettanto vero che rimane ancora inesaurito il compito di comprendere i motivi per cui l’uno o l’altro assoluto terrestre possa aver goduto, malgrado la sua interna problematicità, di tanto successo. Soprattutto, nulla assicura che questi spazi oggi divenuti liberi vengano di fatto occupati da una religiosità in qualche misura davvero teologica, e non piuttosto lasciati vuoti da un disincanto universale circa la possibilità in sé di un assoluto. Resta lo slogan con cui Gianni Vattimo riassume la significativa fase terminale della modernità, “addio alla verità”, addio a quel senso della verità forte per cui anche la fede cristiana è destinata, come tutti gli altri assoluti, a sfaldarsi[18].

Negli ambienti teologici, al momento stesso in cui ci si accorge dell’urgenza di ricominciare a parlare di Dio[19], resta marcato il sospetto nei confronti del ritorno di Dio[20], caratterizzato in modo preoccupante da due estremismi opposti e connessi. Il religioso si ripresenta sulla scena della storia da protagonista accompagnato:

a) dal grave rischio di una estrema soggettivizzazione dell’esperienza religiosa, progressivamente privata di ogni contenuto reale[21]; con cui prima si nega la Chiesa, poi Cristo, successivamente Dio, infine la religione stessa fino a rimanere appesi ad una “spiritualità” vuota di ogni contenuto effettivo e caratterizzata da un approccio fortemente individualistico al sacro[22];

b) dal carattere fondamentalista di talune correnti religiose, soprattutto quelle legate all’Islam e alla sua presenza massiccia in Europa, attraverso l’immigrazione.

Tali versioni fondamentaliste rendono più urgente la necessità di ripensare il rapporto tra religioni e società rispetto alla quale si ripropongono tendenze di “riprivatizzazione” religiosa, come documentano i sempre più frequenti dati di cronaca a tutti noti[23]. A qualsiasi fede religiosa deve essere negata ogni espressione nel comune spazio pubblico? Essa deve restare un fatto del tutto privato in nessun modo pubblicamente rilevante[24]? O, addirittura, neppure rilevabile, se si tiene conto delle quérelles circa i segni distintivi in luoghi pubblici, dal crocifisso al burka, posti paradossalmente in Occidente sullo stesso banco degli imputati[25]?

Il quadro sinteticamente tracciato pone un problema cruciale alla filosofia della religione chiamata ad interpretare l’evoluzione socio-religiosa della modernità. In particolare, per quanto riguarda la proposta dell’esperienza cristiana, ritorna l’alternativa cui abbiamo fatto riferimento: l’annuncio cristiano va effettuato diminuendo il peso della sua oggettività, cioè della sua densità ontologica, esponendosi così all’ovvia perplessità su quale sia la sorte di «Dio» una volta che il “soprannaturale” in quanto tale sia sempre più ridotto a gioco linguistico, oppure è proprio tale riduzione una delle ragioni (o comunque un grave segnale) dell’attuale perdita di rilevanza, anche soggettiva, della fede cristiana?

Un documentato studio pubblicato qualche anno fa dallo storico Philip Jenkins, La terza Chiesa (The Next Christendom)[26], ha sottolineato l’urgenza di distinguere la riflessione sulle sorti dell’Occidente da quella sulle sorti del cristianesimo

Di fronte alle frequenti diagnosi di regresso della fede cristiana e in generale di perdita di peso sociale delle religioni, Jenkins nota, con anglosassone freddezza documentaria, che tutto ciò riguarda appunto solo l’Occidente: nel resto del pianeta (Asia, Africa e in parte America del Sud) il cristianesimo sta vivendo una fase di espansione che complessivamente lo rende la religione con maggior tasso di crescita nel mondo

Questa osservazione ha il merito di porre sul tappeto due questioni: la prima, se si possa usare “la fine della secolarizzazione” per formulare delle ipotesi sul destino del cristianesimo nel suo senso universale e cattolico; la seconda, più decisiva, se il problema della trasmissione del cristianesimo non stia, soprattutto oggi, nell’assumere il linguaggio evangelico nella sua “essenzialità”, piuttosto che nella ricerca, forse ossessiva, circa il modo di tradurlo nella complessità attuale

Non si tratta ovviamente di tornare al pre-moderno, quanto piuttosto di raccogliere l’invocazione sottesa al ritorno di Dio in atto, cioè la domanda radicale circa l’identità più autentica di quel Dio a cui anche l’uomo contemporaneo non sembra in grado di rinunciare davvero. Come non cessa di affermare Benedetto XVI, la domanda di Dio incontra adeguata ospitalità nell’orizzonte del Logos-Amore, in cui la ragione, riconosciuta nella sua interiore ampiezza, la fede e la vera religione trovano il loro nesso profondo e fecondo[27]. È solo nel Dio che è Logos-Amore che riceve senso il tema decisivo della kenosi divina come modalità con cui Dio-Verità-Bene si offre agli uomini[28]. Il Dio kenotico non è un Dio debole, ma un Dio che ama e come tale si offre alla libertà dell’uomo[29]. È un Dio la cui assenza è in realtà una forma di presenza[30]: «Uno sconosciuto è il mio amico, uno che non conosco… Per Lui il mio cuore è colmo di nostalgia… Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza? Che colmi tutta la terra della tua assenza»[31]?

La questione del binomio eclissi/ritorno di Dio assume così un’altra più adeguata formulazione. Come nominare questo Dio oggi[32], come narrare di Lui comunicando questo Dio vivo all’uomo reale?

Nell’ottica cristiana Dio è Colui che viene nel mondo e perciò si distingue da esso senza che questo escluda la possibilità di coglierlo come familiare. Per parlare di Dio «si deve azzardare l’ipotesi che sia Dio stesso ad abilitare l’uomo a divenirgli familiare. La fede cristiana vive anche dell’esperienza di Dio che si è fatto conoscere e si è reso familiare»[33]. È necessario stabilire prima la familiarità con Dio perché Dio sia conosciuto. Allora «Dio è una scoperta, che insegna a vedere tutto con occhi nuovi»[34].

3. Dio si è reso familiare

La fede cristiana sa che l’unica possibilità di narrare Iddio si trova nell’ascolto di quanto Egli ha voluto liberamente comunicarci. E la comunicazione diretta dell’Invisibile ha un nome proprio, è una persona vivente: Gesù Cristo, l’Interprete di Dio. Il Vangelo di Giovanni dice fin dall’inizio a chiare lettere: «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1, 18).

A commento di questo versetto evangelico si possono leggere opportunamente le parole di Ireneo, discepolo di Policarpo che, secondo la tradizione, conobbe personalmente lo stesso Giovanni: «Dunque non è possibile conoscere Dio secondo la sua grandezza perché è impossibile misurare il Padre; ma secondo il suo amore – perché è questo amore che ci conduce al Padre mediante il Verbo –… coloro che gli obbediscono, imparano, in ogni tempo, che esiste un Dio così grande e che è stato Lui stesso da Se stesso a fondare, creare e ordinare tutte le cose»[35].

In Gesù, morto e risorto, Dio ci viene incontro in quanto Dio. Hans Urs von Balthasar ricorda che «il Dio che si immanentizza con Gesù Cristo nel mondo non si può, a partire da quest’ultimo, né costruire (Hegel), né postulare (Baio). Viene esperito come pura “grazia” (Gv 1,14.16.17)»[36]. L’umanità singolare del Figlio di Dio ha reso escatologicamente presente Dio stesso nella storia attraverso la testimonianza dello Spirito Santo che apre ad ogni uomo, in modo personale, l’accesso al rapporto fra il Figlio e il Padre. È così che, alla luce della vita, passione, morte e risurrezione del Figlio incarnato si possono reperire, anche oggi, i “tratti inconfondibili” della presenza di Dio operante nella storia[37] o almeno gli “indizi” per cui tutti possono avere “notitia” di Dio.

L’espressione di Balthasar è molto ardita: «Dio… viene esperito…». Come è possibile che Dio venga esperito? Ritorna forse ad essere “oggetto” in qualche modo a disposizione dell’uomo? Il teologo basilese scioglie il nodo in questi termini: «Il Verbo incarnato “è venuto nella sua proprietà” (1, 11), dunque non va semplicemente in terra straniera (come dice Karl Barth), bensì in un paese di cui conosce la lingua: non soltanto l’aramaico galileo, che il bambino impara a Nazareth, ma più a fondo la lingua della creatura in quanto tale. La logica della creatura non è straniera alla logica di Dio… Gesù non è una verità immaginata, ma è la pura verità, perché egli presenta nella forma mondana la spiegazione adeguata di Dio, il Padre». E qui Balthasar aggiunge una notazione importante : «Gesù non ha avuto bisogno (per questa spiegazione) delle imagines Trinitatis» – escogitate successivamente nella storia del pensiero da Agostino ad Hegel – «l’essere mondano come tale, la sua realtà quotidiana gliene offriva più che abbastanza»[38].

Dio parla di sé all’uomo «abbreviandosi nel Verbo incarnato» (Verbum Abbreviatum)[39].

«Dio ha reso breve la sua Parola, l’ha abbreviata» (Is 10,23; Rom 9,28). Il Figlio stesso è la Parola, «il Logos, la Parola eterna si è fatta piccola… Si è fatta bambino, affinché la Parola diventi per noi afferrabile»[40].

Per dire Dio occorre, quindi, approfondire la grammatica di questa lingua della creatura assunta dal Verbo incarnato. Grammatica che riesce a narrarci il Divino. Così il fedele sarà in grado di confessarlo come il suo Signore e Dio, ed ogni uomo, anche non credente, lo potrà riconoscere nei termini indicati da Paolo nella Lettera ai Romani[41].

Ovviamente, in questa sede, è possibile affrontare tale compito solo per sommi capi, quelli essenziali per comprendere quali siano i luoghi dell’umano predisposti all’incontro con il divino incarnato.

A. “Esperienza umana nella sua semplicità”

La perenne grammatica dell’umano cui abbiamo fatto riferimento attesta anzitutto l’integralità e l’elementarità dell’esperienza umana, cioè la sua indistruttibile semplicità. Come dice Karol Wojtyla in Persona e atto, «questa esperienza nella sua sostanziale semplicità supera qualunque incommensurabilità e qualunque complessità»[42].

In ossequio alla convinzione dogmatica della fede cattolica la creazione, pur ferita dal peccato originale, non si è mai corrotta fino a perdere i suoi tratti essenziali; e mai si potrà corrompere completamente. Dio, dopo il peccato originale, non ha “scaricato” né il mondo né gli uomini.

Al contrario, come insegna la Bibbia, ravvisando nell’arcobaleno il segno di un’alleanza imperitura di Dio nei confronti degli uomini e di tutti i viventi dopo il diluvio, ai tempi di Noé (Gn 9, 9-17), la condizione creaturale non è stata e non sarà mai distrutta per iniziativa divina, a castigo per i nostri peccati.

Perciò l’occhio del credente sarà sempre attento a riconoscere ed indagare i tratti tipici dell’esperienza umana che nella sua originaria semplicità costituisce la prima narrazione di Dio al “fratello uomo”. Tale esperienza universale identifica la nostra condizione creaturale così come Dio l’ha voluta e conservata pur nel suo indebolimento per il peccato. La sua permanenza è, di per se stessa, “testimonianza epistemologica” a Dio.

Qual è il contenuto sostanziale di questa testimonianza?

La ragione stessa, con la sua capacità trascendentale di ospitare il reale intelligibile, in un nesso inscindibile con il dinamismo desiderante e insieme libero della volontà.

È il plesso (intreccio) antropologico originario in cui si uniscono conoscenza e affettività, prassi e gratuità che, in quanto plesso intenzionale, attinge il reale nella sua struttura “epifanica” o “quasi-sacramentale”. Il reale si offre come fonte di stupore e di meraviglia e come luogo di rinvio oltre le “cose” che appaiono (differenza ontologica).

Questa è, dunque, l’esperienza umana integrale ed elementare colta nella sua radicalità.

B. Persona in relazione

La grammatica della lingua in cui comunicano il Verbo incarnato e la creatura ha però altre articolazioni essenziali. Tra queste bisogna soffermarsi sulle tre polarità costitutive dell’unità duale dell’io. Mi riferisco al dato antropologico essenziale che vede l’uomo uno nella dualità di anima-corpo, di uomo-donna e di individuo- società. Anche attraverso questo dato antropologico Dio narra Se stesso e ancor più si lascia narrare nell’incontro con il testimone fedele (cfr Ap 1, 5; 3, 14), Gesù Cristo, in cui queste polarità – segnate da un insopprimibile elemento di tensione drammatica perché mettono in gioco la libertà del singolo – trovano adeguata stabilizzazione.

Non si tratta, sia ben chiaro, di un annullamento della tensione propria di tali polarità, né di un suo superamento attraverso una impossibile sintesi superiore. Cristo scioglie l’enigma uomo ma non pre-decide il dramma del singolo[43].

Si tratta piuttosto di una stabilizzazione in forza della quale, nell’incontro con il Crocifisso Risorto, Dio accompagna il cammino dell’uomo nella prospettiva, rispettivamente, del rapporto nuziale Cristo-Chiesa, della risurrezione della carne e della communio sanctorum.

Ancora una volta nella manifestazione della corrispondenza, per grazia, tra l’esperienza umana nella sua semplicità originaria e l’avvenimento dell’autocomunicazione salvifica del Dio Trinità in Gesù Cristo, si illumina il percorso di tutti gli uomini. Così, ad esempio, nelle strabilianti scoperte della fisica, della biologia e delle neuroscienze a proposito della corporeità e della psichicità umana sarà sempre riconoscibile la dimensione spirituale costitutiva dell’humanum[44]. Il valore educativo della differenza sessuale, a sua volta, permetterà di far luce sull’importanza dell’altro e sulla sua incatturabilità[45]; mentre nella “relazione di riconoscimento”[46] risulterà più evidente il valore della socialità umana accompagnata dalla comprensione che il vero essere è relazione sostanziale con l’altro e moto di allontanamento da sé[47].

Questi elementi sono inseriti nel quadro dell’eredità moderna che, comunque definita, è contraddistinta da un individualismo psicologico e sociale di vasta portata. Esso attenua e rende fragili i rapporti umani, specialmente la trasmissione tra le generazioni del significato della vita. Questo non è più vissuto come un ovvio patrimonio dell’umanità, ma impone nuove e coraggiose strade educative che chiedono la fatica di una continua riproposta. Se il vuoto lasciato dal crollo dagli assoluti mondani scopre e rende più evidente il vuoto dell’individualismo, sarà soprattutto su questo terreno che prenderà forma l’invocazione del ritorno di Dio: esso non potrà fiorire a partire da programmi culturali astratti, tanto meno sulla base di automatismi sociali, ma solo grazie alla paziente ricostruzione di relazioni buone (da quelle più intime e spontanee a quelle più istituzionalizzate e indirette) nelle quali imparare a vivere e a compiere il bene.

Come afferma il Rapporto-proposta La sfida educativa, per educare non è sufficiente annunciare i valori ma è necessario far fare l’esperienza dei valori[48].

C. Unità e misericordia

All’interno di queste relazioni buone il linguaggio mondano in cui si è abbreviato il Verbo incarnato risuona inoltre in modo inconfondibile nel dono dell’unità e della misericordia, tracce storicamente rilevabili della caritas di Dio nei confronti degli uomini. Il peccato, con il suo seguito di morte, sofferenza e dolore, ha l’inconfondibile marchio della divisione fino alla scomposizione. Il male separa e distrugge, rompe, come ha mostrato la storia del XX° secolo con le sue tragiche utopie che hanno portato il buio dell’eclissi di Dio al suo grado più tenebroso[49]. È perciò decisivo identificare la sostanza squisitamente divina del perdono e della misericordia, fonte unica dell’unità della persona e dell’unità fra coloro che prima erano divisi.

Analogatum princeps resta sempre il gesto di Gesù Cristo che sulla Croce offre Se stesso al Padre, nell’unità dello Spirito Santo, per riconciliare il mondo con Dio. La nuova Alleanza, nel sangue di Gesù, riconferma la prima Alleanza di Dio con i patriarchi, con Mosé, e la porta a definitivo compimento. Dall’interno di questo infinito gesto di misericordia, di cui il Nuovo Testamento non è che la documentazione e l’annuncio, parlano i segni che la rendono presente: dal Crocifisso fino all’azione del memoriale eucaristico (e degli altri sacramenti) e ai gesti di testimonianza vissuta nei diversi ambiti dell’umana esistenza. Nel perdono efficace dei peccati degli uomini si può ritrovare l’unità perduta a cui tutti gli uomini in vario modo anelano, come vediamo nelle multiformi espressioni culturali ed artistiche di ogni civiltà.

4. Testimoniare per conoscere e comunicare

Qual è la risposta suscitata dal Dio che si è reso a noi familiare e ci parla lasciandosi dire nella lingua umana? L’uomo, oggi come sempre, non può che percorrere, a sua volta, la strada del Testimone degno di fede. Di fronte a Colui che ci ha amati per primo e ci ama in ogni istante come se fosse l’ultimo, gli uomini sono chiamati a coinvolgersi. Se Cristo è venuto per rendere testimonianza alla verità, all’uomo tocca dar testimonianza a Lui e di Lui, Verità vivente e personale, di fronte alla sempre risorgente pretesa di «incanalare quest’acqua selvaggia nelle turbine dell’umanità a vantaggio di quest’ultima»[50].

Invece la «ferita inferta alla storia del mondo con l’apparire di Cristo continua a suppurare»[51].

Per questo l’in-contro con il fratello uomo non potrà mai evitare il contro, vale a dire l’urto di una originalità irriducibile ad ogni tentativo di addomesticare la novità che viene da Dio. Di tale irriducibile novità però nessuno dovrà avere timore se i cristiani, resistendo alla tentazione dell’egemonia, sapranno fare della loro differenza la via di una proposta umile e tenace.

Essa è propria del soggetto cristiano personale e comunitario in cui, per dirla con Guardini, la Chiesa avviene nelle anime (persone). Parliamo di un soggetto capace di assumere la dimensione ecumenica e quella del dialogo interreligioso come intrinseche alla vita di fede. Questo soggetto può proporre senza pretese egemoniche, in una società plurale, l’avvenimento di Cristo in tutte le sue implicazioni – necessarie e contingenti, certe ed opinabili – antropologiche, sociali e cosmologiche.

La grammatica del narrare Dio è la grammatica testimoniale che domanda un cambiamento radicale di mentalità nella pratica e nella concezione della vita[52]. Diventa allora necessario liberare la categoria di testimonianza dalla pesante ipoteca moralista che la opprime perché la riduce, per lo più, al tema della coerenza di un soggetto ultimamente autoreferenziale. La testimonianza brilla invece in tutta la sua integrità, come metodo di conoscenza pratica e di comunicazione della verità e come valore primario rispetto ad ogni altra forma di conoscenza e di comunicazione: scientifica, filosofica, teologica, artistica, ecc[53].

In concreto per il cristiano la testimonianza consiste nell’obiettiva sequela di Gesù, carica del coraggio di riconoscerLo di fronte al mondo, come fece Lui stesso chiamato a giudizio da Pilato. Così fecero il vecchio Simeone, Giovanni il Battista, gli apostoli e soprattutto così fece Sua Madre custodendo «ogni cosa nel suo cuore» (cfr. Lc 2, 51) e accogliendoLo, pietà elargita a tutto il genere umano, cadavere tra le sue braccia.

Solo la testimonianza degna di fede com-muove la libertà dell’altro e lo invita efficacemente alla decisione.

Come ha ricordato efficacemente Benedetto XVI, si diventa testimoni quando «attraverso le nostre azioni, parole e modo di essere, un Altro appare e si comunica»; nella testimonianza «la verità dell’amore di Dio raggiunge l’uomo nella storia, invitandolo ad accogliere liberamente questa novità radicale»; in essa «Dio si espone, per così dire, al rischio della libertà dell’uomo» (Sacramentum Caritatis 85).

5. Alla scuola dei martiri

Il percorso compiuto ha voluto in un primo momento, più descrittivo a livello socio-culturale, evidenziare quale sia, nell’età post-secolare, lo spazio della questione di Dio e insieme l’ambiguità con cui essa si pone.

Nel secondo momento si è tentato di delineare le condizioni per il re-incontro tra la domanda religiosa postmoderna e il Dio di Gesù Cristo. Condizioni in cui sono decisivi tanto i contenuti, che il metodo.

I contenuti, che sono stati troppo sinteticamente presentati, sono costituiti dall’intreccio (plesso) antropologico. Ne abbiamo individuati tre:

1. capacità di conoscenza veritativa, desiderio del bene e libertà (esperienza umana nella sua semplicità);

2. soggetto relazionale;

3. l’unità ricostituita per misericordia (unità e perdono) cioè l’esperienza del male e il bisogno di salvezza.

Questa sintesi ha voluto raccogliere sia un’eredità teoretica (antropologia ontologica, non spiritualista) (1), sia un’eredità esistenziale personalista (2), espressioni di una importante tradizione antropologica, rileggendole alla luce dell’esperienza del male e della domanda di salvezza, senza le quali restano religiosamente inerti (se non ostili) (3).

Questa struttura triangolare è connessa ad una chiave di lettura della Persona del Verbo incarnato come Persona salvifica. Tale scelta intende giustificare l’interesse per la sua venuta nel mondo: nella persona storica di Gesù Cristo si trovano veramente unificate e proiettate, nell’escatologia del mondo nuovo/cieli nuovi, tutte le dimensioni antropologiche. Emerge così l’interesse per l’uomo nuovo senza il quale l’interesse per Cristo è nominale e, nello stesso tempo, si evidenzia l’interesse per Cristo senza il quale l’interesse per l’uomo resta ultimamente vuoto.

La questione dell’interesse per, che riprende il tema della con-venientia di Tommaso, è sempre più pedagogicamente attuale ma, a mio giudizio, è sempre meno proposta, per cui si rischia di non vederne né la preziosità, né l’impegno che richiede alla fede.

Il metodo coerente che è stato suggerito è perciò quello della testimonianza intesa come conoscenza pratica e comunicazione della verità.

La narrazione che Dio fa di Sé e quella che permette a noi di fare su di Lui e a Suo nome, trova così nel martirio cristiano, «col quale il discepolo è reso simile al suo maestro» (LG 42), la sua piena manifestazione.

Il martirio, grazia che Dio concede agli inermi[54] e che nessuno può pretendere, è un gesto insuperabile di unità e di misericordia.

Non è un caso che il Servo di Dio Giovanni Paolo abbia voluto, come uno dei segni emblematici del Grande Giubileo dell’Anno 2000, la commemorazione ecumenica dei testimoni della fede del secolo XX°[55].

Il martirio è la sconfitta di ogni eclissi di Dio, è il Suo ritorno in pienezza attraverso l’offerta della vita da parte dei Suoi figli. Una consegna di sé che vince il male, perfino quello “ingiustificabile”[56], perché ricostruisce l’unità, anche con colui che uccide. Come Gesù prende il nostro male su di Sé perdonandoci in anticipo, così il martire abbraccia in anticipo il suo carnefice in nome del dono di amore di Dio stesso, da tutti riconoscibile almeno come assoluto trascendente (verità).

Restano sempre commoventi, a questo proposito, le parole del testamento spirituale di Padre Christian de Chergé, priore del monastero trappista di Notre-Dame de l’Atlas in Tibhirine, Algeria, da lui scritto ben tre anni prima (in anticipo) di venir trucidato con i suoi monaci: «Venuto il momento, vorrei poter avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di chiedere il perdono di Dio e quello degli uomini miei fratelli, perdonando con tutto il cuore, nello stesso momento, chi mi avesse colpito…

Non vedo infatti, come potrei rallegrarmi del fatto che questo popolo che io amo venisse accusato del mio assassinio. Sarebbe pagare un prezzo troppo alto ciò che verrebbe chiamata, forse, “la grazia del martirio”, il doverla a un Algerino, chiunque sia, soprattutto se egli dicesse di agire in fedeltà a ciò che crede essere l’Islam [...] alla fin fine io sarò stato liberato dalla curiosità più lancinante che mi porto dentro: affondare il mio sguardo in quello del Padre per vedere i suoi figli dell’Islam come lui li vede: tutti illuminati della gloria di Cristo, anche loro frutto della sua passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà di ristabilire la comunione e la somiglianza giocando con le differenze. Di questa mia vita perduta, totalmente mia e totalmente loro, io ringrazio Dio che sembra l’abbia voluta tutta intera proprio per questa gioia, contrariamente a tutto e malgrado tutto. E..

Anche tu, amico dell’ultimo istante, che non saprai quello che starai facendo, sì, anche per te voglio io dire questo grazie, e questo a-Dio, nel cui volto io ti contemplo. E che ci sia dato di incontrarci di nuovo, ladroni colmati di gioia, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, Padre di tutti e due».

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[1] Cfr. A. Del Noce, Il problema dell’ateismo, Il Mulino, Bologna 1964.

[2] P. Sequeri – S. Ubbiali (ed.), Nominare Dio invano? Orizzonti per la teologia filosofica, Glossa, Milano 2009.

[3] T. De Chardin Réflexions sur la probabilité scientifique et les conséquences religieuses d’un ultrahumain (1951), in Oeuvres, Ed. du Seuil, Paris, 1963, t. 7, 289.

[4] Cfr. M. Buber, L’eclissi di Dio: considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia, Comunità, Milano 1961, 136.

[5] «Nelle profondità avviene qualcosa che non ha un nome; già domani potrebbe giungere un cenno dall’alto, al di sopra delle teste degli arconti. L’eclissi della luce di Dio non è l’estinguersi, già domani ciò che si è frapposto potrebbe ritirarsi»: M. Buber, L’eclissi…, op. cit., 136.

[6] Agostino, Sermo 52, 16; Cfr. anche Anselmo, Monologion, LXIV: «Rationabiliter comprehendit [Deum] incomprehensibile esse»; Tommaso, Quaestiones disputatae de veritate, q. 10 a. 11 ad 5: «Intellectus noster etiam in statu viae divinam essentiam aliquo modo cognoscere potest, non ut sciat de ea quid est, sed solum quid non est». Dello stesso Tommaso: «In finem nostrae cognitionis Deum tamquam ignotum cognoscimus».

[7] Cfr. S. Quinzio, Introduzione a M. Buber, L’eclissi di Dio: considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia, Mondadori, Milano 1990.

[8] Tra le molte opere sull’argomento: F. Botturi, Le tappe della secolarizzazione, in AA. VV., La chiesa del concilio, Milano 1985, 153-164; F. Botturi, Secolarizzazione e nichilismo, in Vita e Pensiero 1 (1997) 22-32; F. Botturi, Desiderio e Verità. Per una antropologia cristiana nell’età secolarizzata, Massimo, Milano 1985. R. Rémond, La secolarizzazione. Religione e società nell’Europa contemporanea, Laterza, Bari 2003.; G. Lorizio, Rivelazione cristiana Modernità Post-modernità, San Paolo, Cinisello Balsamo 1999: sulla nostalgia degli Dei, 52-56.

[9] H. Waldenfels, Il fenomeno del cristianesimo. Una religione mondiale nel mondo delle religioni, Queriniana, Brescia 1995, 13-20.

[10] C. Taylor, L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009.

[11] C. Taylor, op. cit., 14. Sul significato della religione nell’epoca moderna secondo il filosofo e sociologo canadese si veda anche il suo Ch. Taylor, La modernità della religione, a cura di P. Costa, Meltemi, Roma 2004. Per una presentazione della sua posizione vedi G. Brena, La modernità della Religione, in La Civiltà Cattolica 2004 III 381-393 e A. Russo, Abitare il pluriverso. L’ultima sfida alle religioni, in Rassegna di Teologia 45 (2004) 833-854.

[12] Cf. G. Mucci, Dio non è ancora morto. Discussioni recenti, in La Civiltà Cattolica 2002 I 576-585; G. Mucci G., La modernità come esperienza di frantumazione, in La Civiltà Cattolica 2003 II 125-133; Interessante è a questo proposito R. Spaemann, La diceria immortale. La questione di Dio o l’inganno della modernità, Cantagalli, Siena 2008: in modo spesso ironico, in continuo confronto con l’affermazione nietzscheana della morte di Dio il testo pone la questione di Dio come una diceria che appunto non si riesce a far tacere nel nostro tempo.; S. Abbruzzese, Il posto del sacro, in Renzo Gubert (a cura di) La via italiana alla postmodernità. Verso una nuova architettura dei valori, Franco Angeli, Milano 2000, 397-455. Singificativo è il rilievo del dato religioso nei new media: A. Spadaro, Dio nella «rete». Forme del religioso in internet a Civiltà Cattolica 2001 III 15-27; L. Byrne, God in the cyberspace, in The Way XL (2000)3, 244-252. Cfr. anche R. Gill, The Myth of the Empty Church, SPCK, Londra 1993: Micklethwait, J. – Wooldridge, A., God Is Back: How the Global Revival of Faith Is Changing the World, Pequin Press 2009; L. R. Iannaccone, Introduction to the Economics of Religions, in Journal of Economic Literature, vol. XXXVI (settembre 1998), 1465-1496.

[13] H. Cox, La città secolare, Vallecchi, Firenze 1968, 241, dove è riportato l’interrogativo posto da Dietrich Bonhöffer in una lettera del 1944: «Stiamo andando verso un tempo assolutamente senza religione… come potremmo parlare di Dio in maniera secolare?» È noto il cambiamento radicale di rotta dell’autore del celebre best-seller: Fire From Heaven, The Rise of Pentecostal Spirituality and the Reshaping of Religion in the Twenty-First Century, Addison-Wesley, Reading Massachusset 1994. Per il grande peso di Bonhöffer sulla secolarizzazione come avvento di un “mondo mondano” si veda A. Gallas, Ánthropos téleios. L’itinerario di Bonhöffer nel conflitto tra cristianesimo e modernità, Queriniana, Brescia 1995.

[14] Cfr. L. Berzano, Religiosità del nuovo areopago. Credenze e forme religiose nell’epoca postsecolare, Franco Angeli, Milano 1994. Sugli effetti della “desecolarizzazione” della società e il nuovo spazio per l’esperienza religiosa: cf. P.L. Berger (ed.), The desecularisation of the World: resurgent Religion and World Politics, Eerdmans Pubblishing Co, Grand Rapids 1999.

[15] R. Spaemann, Società post-secolare, in Belardinelli-Allodi-Gattamorta, Verso una società post-secolare?, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009, 94.

[16] Sono le tesi dell’opera di J. Casanova, Public Religions in the Modern World, The University of Chicago Press, Chicago-London 1994; tr. it. Oltre la secolarizzazione. Le religioni alla riconquista della sfera pubblica, Il Mulino, Bologna 2000.

[17] Cfr. P. Heelas – D. Martin – P. Morris (ed.), Religion, Modernity and Postmodernity, Blackwell, Oxford, Malden 1998. L.R. Kurtz, Le religioni nell’era della globalizzazione. Una prospettiva sociologica, Il Mulino, Bologna 2000. La nuova esperienza del sacro appare così più disponibile all’uomo e ai suoi bisogni: F. Garcia Barzan, Aspectos inusuales de lo sagrado, Editorial Trotta, Madrid 2000; D. Selijak, Le retour du sacré dans les débats publics sur l’environnement. Les utilisations séculières et religieuses de la “transcendance”, in P. Gaudette (ed.), Mutations culturelles et transcendance, Laval Théologique et Philosophique, Québec 2000, 117-131. M. Gallizioli, Sentieri nel sacro. Antichi e nuovi attraversamenti tra l’umano e il divino, Cittadella editrice, Assisi 2004.

[18] G. Vattimo, Addio alla verità, Meltemi, Roma 2009.

[19] Cfr. G. Angelini, Assenza e ricerca di Dio nel nostro tempo, Centro Ambrosiano, Milano 1997; Id. (a cura di), La religione postmoderna, Atti del Convegno di studi svoltosi presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale (Milano, 25-26 febbraio 2003), Glossa, Milano 2003. Sull’argomento vedi in generale: A.W.J. Houtepen, Dio, una domanda aperta. Pensare Dio nell’era della dimenticanza di Dio, Queriniana, Brescia 2001; J. Sudbrack, La nuova religiosità. Una sfida per i cristiani. Queriniana, Brescia 1988; H. Haering (ed.), Gottesglaube in einer multiculturellen und saekularisierten Gesellschaft. LIT, Muenster 2004: in particolare J. Van der Ven, Is God returning? 29-53; L. Oviedo Torro, Un sigiloso retorno de lo sagrado, in Razon y fe 251 (2005) 497-512; H. Waldenfels (ed.), Religion: Entstehung – Funktion – Wesen, Karl Albert, Freiburg Muenchen, 2003. In particolare il saggio di Waldenfels stesso intitolato: Rueckkehr der Religion: Eine Einfuehrung, (pp. 7-25), M. Lutz-Bachmann, Religion nach der Religionskritik (pp. 149-173); G. Mucci, Riflettere sul revival religioso, in La Civiltà Cattolica 2009 I 544-549; C. Dotolo, Un cristianesimo possibile. Tra postmodernità e ricerca religiosa, Queriniana, Brescia 2007, 122-158.

[20] Cfr. D. Tracy, Il ritorno di Dio nella teologia contemporanea, in «Concilium» (1994) 60-73 e J.B. Metz, Gotteskrise. Versuche zur “geistigen Situation der Zeit”, in Metz – Grinzel u.a., Diagnose zur Zeit, Düsseldorf 1994, 76-92; Verheutigung der Gottesfrage, numero monografico di Lebendiges Zeugnis 4 (2004).

[21] Cfr. F. W. Graf, Die Wiederkehr der Götter: Religion in der modernen Kultur, Beck, Munchen 2004.

[22] Cfr. G. Davie, Religion in Britain since 1945. Believing without Belonging, Blackwell, Oxford 1994: il testo si sofferma a descrivere una delle caratteristiche di certo ritorno della relazione con Dio che tuttavia sembrerebbe penalizzare le istituzioni classiche della religione: credere e non appartenere. Sulla nuova idea di spiritualità sganciata dalla religione cf. G. Giordan, Tra religione e spiritualità. Il rapporto con il sacro nell’epoca del pluralismo, Franco Angeli, Milano 2006; P. Heelas-L. Woodhead, The Spiritual Revolution, Why Religion is Giving Way to Spirituality?, Oxford 2005.

[23] V. Possenti, Religione e vita civile. Il cristianesimo nel postmoderno, Armando Editore, 2001.

[24] Cfr. Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa, IX Simposio dei Vescovi Europei, Religione: fatto privato e realtà pubblica. La chiesa nella società pluralistica, a cura di A. Giordano, EDB, Bologna 1997.

[25] Rapporto sulla laicità. Il testo della Commissione francese Stasi, Prefazione di S. Romano e postfazione di E. Bianchi, Libri Scheiwiller, Milano 2004. Sulla base di questo Rapporto è nata la legge sulla proibizione dei simboli religiosi appariscenti in ambito scolastico. Per un approfondimento del tema si veda: G. Kepel, La rivincita di Dio. Cristiani ebrei musulmani alla riconquista del mondo, Rizzoli, Milano 1991; R. Rorty, Religion in the public Square: A Reconsideration, in Jour. of. Rel. Ethics 31 (2003) 141-149; J. Casanova, Oltre la secolarizzazione, op. cit.; P. De Charentenay, Le religioni nel cuore delle nostre società, in La Civiltà Cattolica 2008 IV 159-167.

[26] P. Jenkins, La terza Chiesa. Il cristianesimo nel XXI secolo, Fazi, Roma 2004.

[27] Cfr. Benedetto XVI, Discorso al Convegno della Chiesa Italiana, 19 ottobre 2006.

[28] Cfr. H.U. Von Balthasar, Teodrammatica IV, Jaca Book, Milano 1996 e S. Bulgakov, L’agnello di Dio. Il mistero del verbo incarnato, Città Nuova, Roma 1990.

[29] Qui occorre denunciare un uso improprio, non teologico e non rispettoso del dato scritturistico, della kenosi di Dio all’interno del cosiddetto “pensiero debole”. Si perde in tal modo l’unità dei misteri cristiani e si giustifica, mediante la kenosi (separata dalla risurrezione), la rinuncia alla considerazione della verità e della trascendenza di Dio e al suo essere personale.

[30] Sul tema del silenzio di Dio era intervenuto significativamente Giovanni Paolo II l’11 dicembre 2002 durante una Udienza del mercoledì, ripresa poi in Dio in silenzio? (Editoriale), in La Civiltà Cattolica 2003 I 211-220: l’editoriale cerca di chiarire il senso delle parole del Papa, che vogliono essere non un grido di disperazione, ma un messaggio di speranza e un invito a convertirsi a Dio. Infatti, se Dio appare “in silenzio”, è perché l’uomo non ascolta la sua parola e, anche se sembra che Egli abbandoni gli uomini, in realtà è perché essi per primi lo abbandonano.

[31] P. F. Lagerkvist, «Uno sconosciuto è il mio amico», in Poesie, Guaraldi-Nuova Compagnia Editrice, Rimini-Forlì 1991, 111. AA.VV., Nostalgia e desiderio di Dio, Glossa, Milano 2006.

[32] P. Sequeri, Una svolta affettiva per la metafisica, in P. Sequeri – S. Ubbiali (ed), op. cit., 85-116; B. Schellenberger, Von Unsagbaren reden: wie lässt sich heute Gott zu Sprache bringen?, Geist und Leben 79 (2006) 81-88; A. Kreiner, Das wahre Antlitz Gottes – Oder was wir meinen, wenn wir Gott sagen, Herder Freiburg – Basel Wien, 2006.

[33] E. Jüngel, Verità metaforica, in P. Ricoeur-E. Jüngel, Dire Dio. Per un’ermeneutica del linguaggio religioso (a cura di G. Grampa), Queriniana, Brescia 1978, 169.

[34] Ibid.

[35] Adversus haereses IV, 20, 1.

[36] H. U. von Balthasar, Teologica 2, Jaca Book, Milano 20022, 71.

[37] Il riferimento è al tema della evidenza oggettiva della forma della rivelazione e alla sua singolarità, che permane nella storia attraverso la Chiesa: cfr. H.U. von Balthasar, Gloria. Un’estetica teologica. I: La percezione della forma, Milano 1971 (terza parte).

[38] H. U. von Balthasar, Teologica 2, Jaca Book, Milano 20022, 71.

[39] «Ho Logos pachynetai (o brachyne­tai)». Cfr Origene d’Alessandria, Peri Arcon, I, 2, 8; San Francesco d’Assisi, Regola non bollata, IX; Bonaventura da Bagnoregio, Breviloquium; Nicolò di Cusa, Excitationibus lib. III (Parigi 1514), fol 41 et al.

[40] Benedetto XVI, Omelia Natale 2006.

[41] Significative le riflessioni filosofiche di Romano Guardini a commento di Rm 1,19-21 nel saggio L’occhio e la conoscenza religiosa, in Scritti filosofici, II, Milano 1964, 141-153, in particolare p. 152s: «Le radici dell’occhio sono nel cuore; nella intimissima presa di posizione verso le altre persone come verso la totalità dell’esistenza: una decisione che passa attraverso il centro personale dell’uomo. In ultimo l’occhio vede dal cuore… La creaturalità può essere veduta nelle cose del mondo. Dal modo come esse esistono si rende chiara l’operazione creatrice».

[42] K. Wojtyla, Persona e atto, a cura di G. Reale e T. Styczeń, Rusconi, Sant’Arcangelo di Romagna 1999, 45. Cfr. A. Scola, L’esperienza elementare. La vena profonda del magistero di Giovanni Paolo II, Marietti 1820, Genova-Milano 2003.

[43] H. U. von Balthasar, Teodrammatica 3, Jaca Book, Milano 1982, 25-53.

[44] A. Scola, L’amore e le neuroscienze, Prolusione all’inaugurazione dell’anno accademico 2009-2010 del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per gli Studi su Matrimonio e Famiglia, pro manuscripto.

[45] A. Scola, Il Mistero nuziale, vol. 1. Uomo-donna, Lateran University Press, Roma 2005, 31-90.

[46] F. Botturi, La generazione del Bene, Gratuità ed esperienza morale, Vita e Pensiero, Milano 2009, 163-194.

[47] Cfr. P. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, Rusconi, Milano 19982.

[48] Cfr. La sfida educativa, a cura del Comitato per il progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana, Prefazione di Camillo Ruini, Laterza, Bari 2009, 11.

[49] Cfr. su questo Benedetto XVI, Dove era Dio? Il discorso di Auschwitz. Con contributi di Arthur A. Cohen, Wladyslaw Bartoszewski, Johann Baptist Metz, Queriniana, Brescia 2007.

[50] H. U. von Balthasar, Teodrammatica 3, 26.

[51] Ibid., 25.

[52] S. Massimo il Confessore: «Io penso che abbia l’intelletto di Cristo chi pensa secondo Lui e pensa Lui attraverso tutte le cose», Centurie, Gribaudi 1988.

[53] Cfr. G. Angelini, Prima istruzione del tema, in G. Angelini – S. Ubbiali (ed.), La testimonianza cristiana e testimonianza di Gesù alla verità, Glossa, Milano 2009, 3-20; P. Martinelli, La testimonianza. Verità di Dio e libertà, Paoline, 2002; P. Sequeri, Coscienza credente e mediazione della testimonianza. Saggio introduttivo, in M. Neri, La testimonianza in Hans Urs von Balthasar. Evento originario di Dio e mediazione storica della fede, Dehoniane, Bologna 2001, 7-20.

[54] Prefazio dei martiri.

[55] 7 maggio 2000.

[56] J. Nabert, Saggio sul male, Edizione Scientifiche Italiane, Napoli 2001, 3-37.