DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

"Che ne facciamo di Polanski?". Giuliano Ferrara ci aiuta a guardare e a discernere il "mondo pansessualista"

Nel mondo pansessualista muoiono l’eros, la paideia, l’educazione dei cuccioli

Che ne facciamo di Roman Polanski? In trentadue anni, da quel pomeriggio del 1977 in cui la star di Hollywood fece del sesso con una Lolita tredicenne fino al suo arresto recente a Zurigo, molte cose sono cambiate. In meglio? In peggio? Come possiamo usare questo caso, non per giudicare il ricercato della giustizia americana né i suoi giudici, ma più utilmente per capire il tempo postmoderno, che cambia le regole del gioco, le interpretazioni, ed è sempre elusivo di una verità fissa, stabile?

Da un lato siamo diventati in tre decenni sempre più permissivi, in materia di sessualità, di amore, di riproduzione. Il principio educativo prevalente è ormai: ragazzi, ragazze, fate quello che volete, basta che vi proteggiate da due malattie, l’Aids e la gravidanza. Per il resto fate serenamente sesso alla ricerca del piacere orgasmico, fottetevene eventualmente dei figli, date la priorità a quel che credete ma non ai ridicoli valori famigliari, e se sia il caso sposatevi tranquillamente tra maschi o tra femmine, e per i figli c’è tempo, e c’è sempre la possibilità della fecondazione familiarmente detta eterologa, della mamma single, dell’adozione gay, dell’utero in affitto. Un mutuo alla banca del seme non si nega a nessuno, un ovulo si compra, e varie prestazioni sono lì a far servizio per l’amore moderno e per la vita.

Dall’altro lato di questo curioso confine è cresciuto e si è solidificato, fino ad assumere tonalità e risvolti apocalittici, il tabù nero della pedofilia: siamo in una strana epoca in cui il processo di Outreau, in Francia, rivela un tormentoso linciaggio e una lunga ingiusta detenzione per persone innocenti additate al pubblico disprezzo in uno dei tanti casi di malagiustizia da ansia pedofila; a Rignano Flaminio, paesino alle porte di Roma, nasce nel tempo una inquietante caccia alle streghe che mobilita una intera comunità contro gli orchi, chiamati a pagare il fio della loro colpa sulla base di testimonianze poco credibili estratte dalle piccole anime di molti bambini da genitori poco credibili, mentre consiglia e ammaestra uno stuolo di esperti ideologizzati della lotta agli abusi sui minori, una delle tante lotte eticamente sensibili, contro il mostro, l’unico rimasto, della pederastia (ci sono lì le inchieste di Carlo Bonini di Repubblica e di Claudio Cerasa del Foglio).
Insomma: siamo sempre più bambini, facciamo sesso, per dirla con il filosofo francese Fabrice Hadjadj, nella forma di una masturbazione assistita, ma giù le mani dai nostri bambini, peraltro sempre più rari, sempre meno socializzati, tremendamente liberati e tremendamente protetti. Ti può anche capitare di sbaciucchiare tua figlia sulla spiaggia e di finire subito in carcere in Brasile, avventura miserabile e grottesca capitata a un padre italiano in un paese dove la sorte dei bambini di strada è quella che è.

Che ne facciamo di Roman Polanski? Non è un problema giudiziario, almeno per noi che non dobbiamo decidere della sua estradizione. Il quadro è d’altra parte chiaro per quanto possa esserlo, in ordine alla ricerca della verità legale, un processo chiuso con un giudizio di colpevolezza da oltre tre decenni, e che riguarda un reo confesso. All’età di quarantaquattro anni Polanski sedusse una tredicenne di nome Samantha Gailey (oggi sposata Geimer), che lo incantava e attraeva irresistibilmente. Fu il 20 febbraio del 1977. A Hollywood, Mulholland Drive, nella casa libera del suo amico Jack Nicholson. Durante una seduta fotografica teoricamente destinata alle pagine di Vogue America (nota bene: certe cose succedevano prima della odiosa dittatura della tv e in contesti culturalmente “liberati”, anzi liberal).

Questo comportamento processualmente accertato era ed è contrario alla legge, e Polanski dovrebbe scontare, dopo una lunga fuga nella vecchiaia (ora ha settantasei anni), la sua pena detentiva. Sì, è un grande artista, d’accordo, ma per la legge, per il diritto eguale (senza eccezioni per gli intellettuali), tutto è in ordine, in attesa di estradizione, e il caso è definitivamente giudicato, chiuso. Nemmeno è un dilemma morale da discutere o da decidere, l’affaire Polanski, almeno non nel senso in cui si parla correntemente di etica pubblica, di standard e criteri di comportamento socialmente accettabili: il sesso degli adulti con i minori, anche consenzienti, è considerato quasi universalmente immorale tanto quanto è illegale. Tuttavia diritto e morale, come abbiamo già accennato, sono procedure, narrazioni e concetti relativizzati dal tempo. Offuscati dal tempo che scorre. Opacizzati. In certi casi addirittura rovesciati. E questa è solo la prima sorpresa culturale che si incontra a partire dal 26 settembre scorso, giorno dell’arresto in Svizzera del grande regista polacco.

“Una distorsione portata dal tempo”. Suona così il titolo di un onesto pezzo del New York Times, firmato da Michael Ciply, pubblicato qualche giorno fa (il 12 ottobre) dall’International Herald Tribune e dedicato alla vicenda che ci interessa. Forse il giornale, che venera la comunità dei talenti d’America e d’Europa, voleva inconsciamente disincastrare Polanski, ma il risultato indiretto è che ha inguaiato, in un certo senso, Woody Allen. L’articolo comincia infatti con una citazione maliziosa dalla celebre commedia romantica “Manhattan”, uno dei grandi hit di Woody, uscita nel 1979 (appena due anni dopo la faccenda di Mulholland Drive). Mariel Hemingway è una teen ager, una minore, che ha una storia d’amore e di sesso con lo scrittore televisivo impersonato da Allen, e alla fine del film gli dice festosa, esattamente come potrebbe avergli detto molti anni dopo sua moglie Soon-Yi Previn, già figlia adottiva in coabitazione con l’artista e la precedente moglie Mia Farrow, sedotta e impalmata qualche anno fa dal grande comico newyorkese: “Ehi, pensa un po’, l’altro giorno ho compiuto diciotto anni: ora sono in regola, ma sono ancora una bambina”.

“Whatever works” è invece l’ultimo film di Woody Allen a deliziare le platee spontaneamente e dolcemente nichiliste della East Coast americana e delle grandi città europee. Whatever works significa: basta che funzioni ovvero l’efficienza e la piacevolezza sono l’unico criterio di ciò che fai di te stesso e del tuo rapporto con gli altri. Il sesso e le differenze di età nell’amore fisico hanno naturalmente grande parte nella commedia, un vecchio testo riadattato, battute che fanno ridere, polemica sarcastica, una punta ossessiva, contro la religione, Dio, il fanatismo bigotto, la ricerca di un significato della vita, la disciplina etica: tutte scemenze, goditela come puoi e non rompere le palle agli altri, liberati e libera, d’altra parte non bisogna forse écraser l’infâme, come predicava Voltaire?

Niente di così straordinariamente originale, come si vede, ma è di nuovo un buon successo misantropico, e ben dissimulato, una nuova love & sex story che scalda i cuori e i cervelli pulsanti del diffuso establishment culturale, controculturale e sottoculturale nato negli anni Sessanta, insomma quelli che nel mondo contemporaneo esercitano il potere immoralista, secolarizzato, transumanista e tardoilluminista. Un nichilismo amatoriale, beato, immerso nella chiacchiera, a completa disposizione dei disincantati. Woody è fedele ai suoi ideali di gioventù, il che è in un certo senso sempre encomiabile, ma i tempi invece sono cambiati. Il suo film forse non si potrebbe proiettare senza conseguenze sgradevoli a Rignano Flaminio o a Outreau, e chissà, si chiede il New York Times, se oggi si troverebbe qualcuno disposto a produrlo, quel bijoux romantico d’antan, fondato su una relazione sessuale non molto dissimile da quella intrattenuta, almeno per quel primo pomeriggio a Mulholland Drive, da Roman Polanski e dalla Gailey.

Ma se oggi destineremmo al nulla e all’oblio perpetuo un romance pedofilo scritto e interpretato da Woody Allen e accolto invece entusiasticamente e sentimentalmente trent’anni fa, non dovremmo riconsiderare alla luce di questo cambiamento la condanna radicale della personalità di Polanski che accompagna, salvo l’enclave solidale della rive gauche internazionale, il suo arresto e la prospettiva dell’estradizione? Non che il suo comportamento sia mai stato giustificato nemmeno allora, lo ripetiamo, ma la sua vittima tredicenne fu indagata nella sua storia personale e sessuale, per accertare fino a che punto la sua denuncia reggesse la prova dell’autenticità, in forme oggi inimmaginabili; e la condanna del reo confesso di sesso illegale con minori, come dice il district attorney della contea di Los Angeles, Stephen L. Cooley, fu molto leggera, molto, molto leggera, molto più leggera di qualsiasi condanna che possa essere espressa oggi in sentenza. Relativisti di tutto il mondo, svegliatevi: se non esistano verità morali accertate e definite, allora anche le furie da casa delle streghe nel castello postmoderno devono ridursi alla misura del tempo che è passato, e rifarsi, in tema di pedofilia, alle attenuanti generiche e specifiche della morale pubblica dell’epoca del delitto. Ma la domanda sul che farsene di Roman Polanski riguarda anche un’altra questione, sempre sottilmente connessa alla cultura relativista in cui si formano le presenti generazioni, ma diversamente definibile. Che fine ha fatto la paideia?

Cito da Wikipedia, per fare presto:
“La paideia era il modello educativo in vigore nell’Atene classica e prevedeva che l’istruzione dei giovani si articolasse secondo due rami paralleli: la paideia fisica, comprendente la cura del corpo e il suo rafforzamento, e la paideia psichica, volta a garantire una socializzazione armonica dell’individuo nella polis, ossia all’interiorizzazione di quei valori universali che costituivano l’ethos del popolo.
Lo spirito di cittadinanza e di appartenenza costituivano infatti un elemento fondamentale alla base dell’ordinamento politico-giuridico delle città greche. L’identità dell’individuo era pressoché inglobata da quell’insieme di norme e valori che costituivano l’identità del popolo stesso, tanto che più che di processo educativo o di socializzazione si potrebbe parlare di processo di uniformazione all’ethos politico.
L’elemento fisico dell’educazione dei giovani ateniesi si basava in una prima fase su un rigoroso addestramento ginnico, in base all’idea che un corpo sano favorisce un pensiero sano e viceversa; successivamente si aggiungeva quello bellico, essendo la guerra una fra le attività considerate più nobili e virili dell’uomo greco; per arrivare infine al completamento dell’istruzione rappresentato dalla formazione politica, vero centro della cittadinanza ateniese, e apice verso il quale era indirizzato l’intero processo educativo.
E’ proprio questa paideia psichica che interessava maggiormente a Platone, ed è infatti su questa che fonderà le basi del suo progetto di rinnovamento (ma al tempo stesso anche conservazione) dell’uomo greco.
Il modello della paideia venne ripreso dai Romani, e secondo vari studiosi ha influenzato in maniera determinante non solo il modo di pensare degli antichi greci, ma anche in genere dell’Occidente europeo.
‘La forza educativa proveniente dal mondo greco ha caratterizzato l’Occidente a partire dai Romani; è poi più volte rinata con continue trasformazioni col sorgere di nuove culture, dapprima con il cristianesimo, poi con l’umanesimo e il rinascimento’.
(Giovanni Reale)”.
Fine della citazione.
La mia tesi non è originale ma forse può suonare non infelicemente banale e scandalosa se applicata al caso Polanski e in genere al modo morboso, intrattabile, di affrontare la questione della pedofilia, spesso contro ogni più elementare norma di diritto, fuori da ogni temperanza, in una caotica messe di accuse verosimili o false e di emozioni psicologiche o ideologiche radicalizzate.

La tesi è la seguente. Non c’è più una relazione educativa effettiva degli adulti con i fanciulli e le fanciulle, né in famiglia né, tantomeno, nella scuola. Nello scambio tra le generazioni, parole come amore e amicizia non hanno più alcun senso. Un grande pedagogo cattolico, don Luigi Giussani, che a metà dei Cinquanta fondò il movimento ciellino, parlava di “rischio educativo”. Il filosofo straussiano Allan Bloom, il “Ravelstein” di Saul Bellow, autore di memorabili saggi sulla crisi dell’educazione e della cultura contemporanea, la metteva così: “Scienza e moralismo hanno ridotto l’eros a sesso. Individualismo ed egualitarismo hanno trasformato le relazioni romantiche in materia contrattuale da negoziare. La scienza sociale avalutativa ha indotto a considerare normale ogni tipo di comportamento sessuale, inducendo noia. Nelle ore di educazione sessuale i ragazzi imparano come si usa un condom, ma non come fare i conti con le speranze e i rischi dell’intimità. Non sappiamo più come si faccia a parlare e a pensare intorno al pericolo e alla promessa contenuti nelle idee di attrazione e di fedeltà” (Love & Friendship, Simon & Schuster, 1993). E lo psicoanalista e antropologo James Hillman, che ho già citato in altro contesto, avvertiva che ogni rapporto di patronage, ogni tutela o curiosità intergenerazionale tendono a essere letti con un meccanismo riduzionista, come rapporto genitale, come interesse sessuale (Il codice dell’anima, Adelphi, nuova edizione paperback 2009).

La scuola pubblica e i principi educativi correnti irrigidiscono fino a cancellarli, al di là di ogni ragionevole dubbio, il rapporto autoritativo e la maieutica dell’insegnamento. Il nostro modello educativo sottrae nel massimo grado possibile ogni forma di energia, di eros, di vero e rischioso esercizio dell’autorità, all’insegnamento, a quello che Strauss definiva l’allevamento dei cuccioli della nostra specie, che in nome di principi giudeo-cristiani, greci, romani ed umanistici dovrebbero ricevere e dare qualcosa di decisivo, appunto nel rischio dell’amore e della filìa, dell’amicizia, nell’incontro delle generazioni in vista della conoscenza, del sapere e della formazione politica. L’unica istituzione che lo conservi almeno in parte, questo principio, è la chiesa cattolica; e infatti il suo clero, nell’America protestante e postmoderna, è martirizzato, al di là dei casi accertati e sanzionabili, dalle furiose campagne di denuncia e dalle corrispondenti richieste di risarcimento che irrigidiscono ulteriormente, fino alla completa criminalizzazione del modello seminariale monosessuale, l’ultimo scampolo di una educazione occidentale tramandataci attraverso il medioevo dall’età classica poi cristianizzata.

Che cosa vuoi dire, amico? Che bisogna impedire l’estradizione di Polanski? Che in nome del modello educativo scomparso deve essere lecito attrarre e farsi attrarre per un pomeriggio di sesso da una tredicenne seduttiva di impronta nabokoviana? Chi manifestasse nel suo intimo l’intenzione di rivolgermi queste domande deve a questo punto sapere che ha perso tempo a leggere il mio qualunque invito a pensare un caso alla luce di un problema, e un problema alla luce di un caso.

Giuliano Ferrara