Nuovo stop alla diffusione in Italia della pillola abortiva. La Commissione Sanità del Senato (voti a favore del Pdl e della Lega) ha votato un testo in cui si prevede che l’immissione in commercio sia preceduta da un parere del ministero della Salute, che assicura un intervento in tempi strettissimi. Il sottosegretario al Welfare Eugenia Roccella: «Nessun boicottaggio. Viene semplicemente ripristinato l’ordine delle competenze e data la priorità alle indicazioni del governo circa la compatibilità del metodo con la legge italiana, in particolare la 194». «Il parere arriverà entro 24 ore. A quel punto l’Aifa dovrà convocare un nuovo Cda e votare una nuova delibera sulla Ru486. La pillola abortiva – lo ribadisco – potrà essere impiegata in Italia solo a questa condizione: che la donna sia in ospedale per tutta la procedura, che un medico sia accanto a lei, che l’aborto non avvenga a casa o su un tram».
Un passo certamente importante, ma ancora una volta si deve constatare amaramente che “gli interrogativi ruotano intorno alla salvaguardia dell’integrità fisica della donna ed al rispetto di quella legge che da oltre trent’anni legittima l’uccisione volontaria di esseri umani innocenti ed indifesi. L’abominevole delitto descritto dal Catechismo diventa tale solamente quando la donna ne subisce le conseguenze fisiche o morali. Il tentativo di occultamento del male operato dalle lobby abortiste ha probabilmente raggiunto l’obbiettivo fissato: della vittima non v’è più alcuna traccia” (cf. Corrispondenza Romana).
Non smettiamo di difendere la vittima dell’aborto: il BAMBINO !
Le nuove tappe della Ru486 in Italia
Il “no” della Commissione Sanità del Senato all’immissione in commercio della pillola abortiva, arrivato ieri al termine dell’indagine conoscitiva sulla Ru486, azzera di fatto gli ultimi atti dell’Agenzia del farmaco a partire dal 30 luglio scorso, quando il Consiglio d’amministrazione dell’agenzia autorizzò con una delibera ad hoc l’introduzione della pillola nel nostro Paese.
Cosa succede ora?
Non appena verrà formulato il parere del governo sulla compatibilità della legge 194 con l’aborto chimico (entro 24 ore, come assicurano al ministero della Salute), l’Aifa dovrà ricominciare la procedura di autorizzazione della Ru486 proprio dalla delibera di luglio. I tempi del nuovo documento dipendono dall’Aifa, ma un atto in questo senso potrebbe arrivare in tempi brevissimi, anche entro una settimana. A quel punto si dovrà attendere che la nuova delibera – con le disposizioni tecniche per l’uso del farmaco così rinnovate – sia pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. Solo allora l’aborto chimico potrà essere effettuato negli ospedali, nel pieno rispetto della legge 194.
E cosa cambia?
Nella nuova delibera sarà introdotto – questa la novità essenziale che verrà sottolineata proprio dal governo – l’obbligo del ricovero ordinario per le donne che ricorrono alla pillola abortiva. Un punto, quello in questione, che non era abbastanza chiaro nel testo della prima delibera, in cui il ricovero era previsto "fino alla certezza dell’avvenuta interruzione di gravidanza", quindi non fino all’espulsione del feto, che come noto è successiva di almeno tre giorni all’assunzione della Ru.
È coinvolta anche l’Europa?
Il governo potrebbe decidere – come peraltro auspicato dalla stessa commissione Sanità del Senato – di rivolgersi tramite l’Aifa all’Emea (l’agenzia del farmaco europea) per discutere il problema della farmacovigilanza, cioè della sicurezza della Ru486. Nell’indagine conoscitiva sono infatti emersi da più parti dubbi su come vengono elaborati i dati sulla pillola abortiva, e non solo quelli sulla mortalità, ma anche sugli eventi avversi, gli effetti collaterali e l’intero follow up della pillola (in gran parte d’Europa la pillola viene assunta fuori dalle strutture sanitarie). In questo caso l’Emea potrebbe riconsiderare le modalità dell’aborto chimico non solo in Italia, ma anche negli altri Paesi europei in cui la pillola è stata adottata.
Avvenire 27 Novembre 2009
Il cinismo di chi non vuole capire
di Francesco Ognibene
Il colpo di scena è arrivato proprio all’ultimo minuto. La partita per il via libera alla pillola abortiva negli ospedali italiani s’è riaperta proprio quando pareva ormai prossimo alla conclusione l’inesorabile iter burocratico del "mutuo riconoscimento" per un farmaco già adottato in altri Paesi dell’Unione europea.
La cieca macchina dei timbri apposti da organismi tecnici in calce all’autorizzazione di un medicinale col quale s’introduce in Italia nientemeno che un nuovo modo di abortire pareva impossibile da arrestare, in barba a una legge dello Stato. Ma il Parlamento ha finalmente reagito mostrando di volersi riappropriare della sua funzione di rappresentanza della volontà popolare. E ha deciso di vederci chiaro, con una determinazione che l’ha condotto – ieri – a rimettere in discussione ciò che molti davano per acquisito.
È arrivata così l’ineccepibile decisione di chiedere al governo una parola chiara sulla discutibilissima compatibilità della Ru486 con ciò che dispone la 194: una legge che, come tutti sanno, mai ci è piaciuta, ma che quantomeno detta alcune regole minime per evitare di aggiungere allo scempio dell’embrione lo sfregio sulla donna già ferita da una scelta drammatica come l’interruzione di una gravidanza. Perché la Ru486 non è l’«aborto dolce» o «meno invasivo», come vagheggia chi vorrebbe sbancare ogni forma di tutela della vita (caposaldo della Costituzione) in nome di una libertà "liquida". L’aborto chimico – in realtà – è una procedura lunga e dolorosa, un metodo brutale per mettere fine con le proprie mani a quella vita che germoglia nel grembo, fino all’umiliazione di fare tutto da sé e di vedere (in oltre la metà dei casi) quel poco che resta di una vita che poteva essere.
Un dolore indicibile, ricacciato nell’angolo buio del bagno di casa, nella migliore delle ipotesi. La clandestinità riabilitata. È questo che dovremmo veder introdotto anche in Italia (e poco importa che altrove sia già così), col placet di uno Stato neutrale? O non è bene reagire e ragionare finché c’è possibilità, per esigere civilmente che ci si accorga della «banalità del male» quando ricompare in nuove, edulcorate forme dalle sentine della storia, per allungare la sua ombra sulla vita umana più fragile?
A questo orrore il Senato ha responsabilmente detto no, reggendo un formidabile e convergente urto politico, mediatico e culturale. La maggioranza della Commissione Sanità ha dunque chiesto che venga rispettata alla lettera la legge là dove dispone il ricovero ordinario sino al completamento dell’aborto, senza ricorrere a stratagemmi come il day hospital o le dimissioni "volontarie" (magari incoraggiate da disinvolti ginecologi o fautori di un’ideologica deregulation). Chi nelle manifestazioni tardo-femministe strilla all’intoccabilità della 194 abbia almeno il buon gusto di non pretenderne ora un’applicazione a intermittenza, e un sostanziale scardinamento.
Di fronte a un intervento dell’istituzione democratica che s’ingegna per garantire la salute fisica e psicologica delle donne, insidiata da un nuovo "farmaco" che porta morte, diventa sempre più incomprensibile il fuoco di sbarramento opposto da parlamentari che hanno parlato di decisione «cinica» e «insensata», di «forzatura politica», addirittura di «gioco scandaloso». In questo coro di lamentazioni pregiudiziali non s’è udito il coraggio moderno e libero di affrontare la sostanza della questione: la pillola abortiva è davvero un bene per le donne, o è solo un sistema illusoriamente sbrigativo per chiudere la "pratica" aborto senza disturbare, fingendo che sia una vicenda sanitaria come tante? Il modo in cui lo si vorrebbe estendere in tutta Italia (una pillola e via, tutte a casa, per non appesantire i costi della sanità) sa tanto di ostinazione ideologica, con un sovrappiù di invettive agli "oscurantisti" che si oppongono.
Una vita che palpita e il corpo delle donne usati per affermare un’assoluta e incontrollata libertà di aborto. Lo chiamano diritto, ma è questo il vero cinismo.
Avvenire 27 Novembre 2009
RU 486: c’è ancora molto da fare
di Renzo Puccetti*
ROMA, domenica, 29 novembre 2009 (ZENIT.org).- La commissione sanità del Senato della Repubblica ha concluso la propria indagine conoscitiva sulla pillola abortiva RU 486, approvando a maggioranza un documento estremamente stimolante per la ricchezza di spunti che offre alla riflessione bioetica.[1]
In via preliminare si può affrontare il tema dell’opportunità di una discussione politica riguardo alla questione di un farmaco abortivo (etimologicamente il termine farmaco riconosce la duplice accezione di lenimento e di veleno; dal momento che la gravidanza, desiderata o meno, non costituisce di per sé un elemento patologico, per qualsiasi prodotto abortivo è difficile individuarne la valenza curativa).
Vi sono quanti sostengono che la decisione sull’aborto chimico sia di mera spettanza medico-scientifica. Nel caso italiano questa prospettiva individua nell’approvazione del prodotto da parte del CdA dell’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco), e prima ancora da parte del suo comitato tecnico-scientifico, il punto di svolta oltre il quale ogni ulteriore discussione rappresenta un’indebita intromissione nella relazione sanitaria tra donna e medico.
In termini generali possiamo facilmente comprendere come tale impostazione sia estremamente debole. La bioetica ha tra le sue radici principali la evidenza che la conoscenza tecnologica è divenuta così potente nella sua capacità manipolatoria della vita umana, da rendersi necessario sottrarre l’esclusiva gestione delle decisioni all’ambito tecnico-scientifico.
A tal proposito si possono citare le parole della commissione che interruppe il Tuskegee Syphilis Study: «La società non può più permettere che l’equilibrio tra i diritti individuali e il progresso scientifico venga determinato unicamente dalla comunità scientifica».
L’aborto costituisce un intervento che, laddove legalizzato o depenalizzato, per la particolarità e rilevanza pubblica dei beni in gioco, viene comunque sempre normato in modo specifico attraverso leggi e regolamenti. Nel nostro paese la legge 194 definisce i criteri di non punibilità dell’aborto, ma non vi sono leggi che regolano in maniera distinta il taglio cesario, l’estrazione dentaria, o la polipectomia endoscopica.
L’indagine del parlamento italiano non può essere indicata come una bizzarra intromissione politica rinvenibile solo nel nostro paese, se non dimostrando scarsa conoscenza della questione. Le “relazioni pericolose” tra politica ed RU 486 costellano la storia del prodotto sin dagli esordi.
Come dimenticare le pressioni esercitate dal ministro della sanità francese Claude Evin sull’azienda Roussel Uclaf che aveva deciso di ritirare dal mercato la RU 486? Come tralasciare l’attivo coinvolgimento del presidente degli Stati Uniti Bill Clinton nell’esortare l’azienda francese produttrice della pillola abortiva ad estenderne il commercio sul territorio americano?
Come omettere la commissione d’indagine parlamentare presieduta dal deputato Mark Sauder che negli USA ha prodotto un rapporto assai critico nei confronti dell’operato dell’ente americano per la sorveglianza dei farmaci? Ed il serrato dibattito nel parlamento australiano? E il concomitante impegno politico di alcuni medici coinvolti nella promozione della RU 486 nel nostro paese?
Alla luce di queste considerazioni l’interessamento dell’organo di rappresentanza del popolo italiano nell’affare RU 486 è da ritenersi non solo lecito, ma addirittura doveroso. È pertanto ridicolo accusare d’incompetenza una commissione parlamentare che al suo interno racchiude numerose e qualificate competenze, per di più presieduta dall’onorevole Di Virgilio, medico, già primario di ginecologia ed ostetricia, difficilmente accusabile di non possedere i requisiti per comprendere certi elementi di matrice tecnico-sanitaria.
Come peraltro già evidenziato attraverso un’ampia revisione scientifica dal Gruppo di Studio per l’Aborto Medico (GISAM), la commissione non ha potuto che prendere atto della presenza di elementi di criticità all’interno della procedura abortiva farmacologica con diversi articoli della legge 194.
L’indicazione che l’intera procedura abortiva si svolga all’interno delle strutture sanitarie individuate nella legge espressa nel documento approvato dalla commissione parlamentare deriva dalla preoccupazione che anche nel nostro paese si possano verificare casi tragici come quello di Rebecca Tell Berg, morta a 16 anni per emorragia secondaria ad aborto chimico gestito a domicilio, evitando inoltre che gli aborti avvengano in autobus, come è stato descritto nella letteratura scientifica.
La proposta della commissione senatoriale di un’analisi più approfondita della letteratura medica riguardo al profilo di sicurezza ed efficacia della procedura abortiva farmacologica nasce dalla consapevolezza che la legge italiana prevede il ricorso alle “tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza"; si tratta di qualità spesso attribuite alla pillola abortiva senza il necessario, metodologicamente rigoroso, supporto scientifico.
La supposta minore dolorabilità associata alla metodica di aborto chimico trova disconferma dall’intero corpo delle sperimentazioni cliniche, compresa quella appena pubblicata di Health Technology Assessment.
Non deve inoltre sfuggire la preoccupazione espressa dal prof. Casavola, presidente del Comitato Nazionale per la Bioetica, delle “ricadute nell'immaginario collettivo di ogni prodotto del progresso scientifico, potrebbe apparire più invogliante l'assunzione di una pillola rispetto alla complessità derivante dalla metodica dell'aborto chirurgico”.
Si tratta di una valutazione già empiricamente in parte esplorata dallo studio GISAM già ricordato. Adesso la palla è nelle mani dell’esecutivo. Qui preme identificare almeno altri due punti che sono da puntualizzare in maniera ulteriore.
Il primo riguarda una prassi tutt’altro che astratta, essendo stata adottata in Toscana dove, seppure il protocollo regionale preveda il ricovero ordinario di tre giorni per le donne che abortiscono con la RU 486, di fatto la quasi totalità abortisce anche fuori dalla struttura ospedaliera attraverso il ricorso alle dimissioni volontarie.
Si tratta di un comportamento che, per la sua vastità, per la coincidenza con le risultanze di un’estesa indagine giornalistica e per la dissonanza rispetto agli studi che indicano una preferenza delle donne a completare l’aborto in ospedale, non può non suscitare viva preoccupazione.
È da ritenere che una prospettiva tecnica di soluzione sia individuabile nel documento GISAM che la società Medico Scientifica Interdisciplinare Promed Galileo ha provveduto ad inviare anche agli organi competenti dell’esecutivo.
Sarebbe infatti paradossale che in nome della salute della donna si dovesse assistere a comportamenti su larga scala difficilmente inquadrabili come espressione di tutela della salute delle stesse donne che per giunta, proprio a causa dell’assunzione di responsabilità derivante dalla dimissione volontaria, non potrebbero neppure adire ai percorsi di tutela risarcitoria per eventuali danni alla salute derivanti da un accudimento sanitario insufficiente.
Il secondo aspetto che merita una riflessione ulteriore è quello dell’obiezione di coscienza. Rispetto a quello chirurgico il processo di aborto chimico è enormemente dilatato nel tempo. La inevitabile turnazione del personale sanitario non può andare a ledere il diritto del personale obiettore ad essere esonerato “dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l'interruzione della gravidanza”.
Dal momento che col metodo farmacologico non esistono criteri standardizzati per definire l’avvenuta interruzione della gravidanza, devono essere date adeguate garanzie al medico obiettore il cui intervento non fosse “indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo” attraverso una codifica dei compiti e delle responsabilità nell’assistenza sanitaria delle donne che abortiscono col metodo chimico di cui il ministero deve farsi promotore e garante.
Data la complessità e la delicatezza di tali questioni è da temere che le modalità che il ministero del welfare ha adottato per dare seguito alle raccomandazioni della commissione d’indagine parlamentare[2] siano così vaghe da risultare insufficienti ad assicurare gli obiettivi annunciati.
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* Il dott. Renzo Puccetti è specialista in Medicina Interna e segretario del Comitato "Scienza & Vita" di Pisa-Livorno.
[1] Cfr. http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=16&id=446340 (accesso del 28-11-2009).
[2] Cfr. http://www.ilbisturi.it/story_5453.html (accesso del 29-11-2009)