«Mi chiamo Rom. Non sono morto. E devo la mia vita alla mia famiglia». A chi lo avvicina per fargli delle domande, Rom Houben risponde così, la mano dell’assistente mossa lentamente dal suo dito. E sua madre, Josephine, 73 anni, sorride con gli occhi pieni di lacrime, tutte le volte. È stata lei a credere nella vita di suo figlio, contro la realtà, contro i medici, contro i referti degli esami sempre uguali: «Signora, sua figlio è come un vegetale, non sente nulla, non pensa nulla. Di suo figlio non è rimasta più traccia». Il responso, quello che il neurologo Steven Laureys ha chiamato eloquentemente il "timbro" dello stato vegetativo, ha marchiato Rom decine di volte nel corso degli anni.
Dalla notte dell’incidente stradale in cui rimase coinvolto, a soli 20 anni, fino alle cliniche più famose del Belgio, ai medici più esperti, nessuno aveva osato sperare. Tranne lei: «Anche se i medici insistevano sul fatto che la sua coscienza fosse "estinta" – spiega Josephine – e che lui fosse del tutto inconsapevole di quello che gli accadeva intorno, io ho sempre rifiutato di accettare la diagnosi. Lo sentivo istintivamente, e anche mio marito. Noi sapevamo, anche se è difficile spiegare come, che Rom era vivo».
E se lo portavano in giro, i coniugi Houben, quel figlio "estinto" per la medicina: di pomeriggio passeggiavano insieme nel parco vicino a casa, a pranzo e a cena lo imboccavano con un cucchiaio, d’estate andavano insieme in vacanza nel sud della Francia. «Abbiamo sempre cercato di dargli una vita il più possibile uguale a quella degli altri figli, gli abbiamo parlato dei nostri problemi quando ce n’erano, lo abbiamo accarezzato e guardato vivere. Anche quando mio marito è morto, nel 1997 – continua Josephine –, sono andata all’ospedale per dirgli quello che era successo. Ricordo che lui chiuse gli occhi, li tenne chiusi. Non pianse, ma io capii lo stesso».
Quando Rom ha avuto la sua tastiera, e ha ricominciato a comunicare con l’esterno, ha chiesto scusa alla madre per non averla potuta aiutare in quel momento difficile: «Non c’ero, mamma». Josephine se l’è stretto al cuore. «Il messaggio che voglio dare ai genitori che si trovano nella mia situazione – dice – è di non mollare, di avere fede».
Dalla notte dell’incidente stradale in cui rimase coinvolto, a soli 20 anni, fino alle cliniche più famose del Belgio, ai medici più esperti, nessuno aveva osato sperare. Tranne lei: «Anche se i medici insistevano sul fatto che la sua coscienza fosse "estinta" – spiega Josephine – e che lui fosse del tutto inconsapevole di quello che gli accadeva intorno, io ho sempre rifiutato di accettare la diagnosi. Lo sentivo istintivamente, e anche mio marito. Noi sapevamo, anche se è difficile spiegare come, che Rom era vivo».
E se lo portavano in giro, i coniugi Houben, quel figlio "estinto" per la medicina: di pomeriggio passeggiavano insieme nel parco vicino a casa, a pranzo e a cena lo imboccavano con un cucchiaio, d’estate andavano insieme in vacanza nel sud della Francia. «Abbiamo sempre cercato di dargli una vita il più possibile uguale a quella degli altri figli, gli abbiamo parlato dei nostri problemi quando ce n’erano, lo abbiamo accarezzato e guardato vivere. Anche quando mio marito è morto, nel 1997 – continua Josephine –, sono andata all’ospedale per dirgli quello che era successo. Ricordo che lui chiuse gli occhi, li tenne chiusi. Non pianse, ma io capii lo stesso».
Quando Rom ha avuto la sua tastiera, e ha ricominciato a comunicare con l’esterno, ha chiesto scusa alla madre per non averla potuta aiutare in quel momento difficile: «Non c’ero, mamma». Josephine se l’è stretto al cuore. «Il messaggio che voglio dare ai genitori che si trovano nella mia situazione – dice – è di non mollare, di avere fede».
Viviana Daloiso
Avvenire
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