DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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La ricerca choc: pensiero anche in stato vegetativo Il paziente può rispondere


E' in stato vegetativo dal 2003 ma 29enne al centro di uno studio del New England Journal of Medicine è riuscito a comunicare con i medici: usate le aree del cervello attivate per le risposte



E' in stato vegetativo dal 2003, a causa di un incidente stradale che lo ha inchiodato al letto per tutti questi anni. Ma il giovane 29enne al centro di uno studio che ha guadagnato le pagine del New England Journal of Medicine si è mostrato capace di "comunicare" con i medici, rispondendo sì o no alle domande che gli venivano poste dai camici bianchi. Come? Accendendo quelle aree cerebrali che si attivano nel nostro cervello quando diamo risposte affermative o negative a un quesito.

La ricerca di Adrian Owen La ricerca, condotta da una squadra di studiosi belgi e britannici capitanati da Adrian Owen, del Medical Research Council di Cambridge, a detta degli scienziati potrebbe rivoluzionare il rapporto con questi pazienti, lasciando, ad esempio, che siano loro stessi a esprimersi circa la possibilità di continuare a vivere in quelle condizioni. "Potranno essere coinvolti - ipotizza lo stesso Owen - nelle decisioni relative al loro destino". Grazie a uno scanner di ultima generazione, gli studiosi hanno "fotografato" l’attività cerebrale del giovane sottoponendogli alcune domande, ad esempio "Tuo padre si chiama Thomas?". Ebbene, nel ragazzo si attivano le stesse aree del cervello che si accendono nelle persone sane.

I risultati dei test "Siamo rimasti attoniti - riconosce Owen sulle pagine del britannico Daily Mail - quando abbiamo visto i risultati dei test, che mostravano chiaramente che l’uomo era in grado di rispondere alle nostre domande. Non solo i risultati dello scanner ci dimostravano che il paziente non era in uno stato vegetativo, ma per la prima volta in tanti anni ci consentivano di vedere che l’uomo riusciva a comunicare col mondo esterno". Lo studioso a capo della ricerca riconosce che la tecnologia usata è molto dispendiosa dal punto di vista economico, ma sottolinea che in futuro potrebbe essere usata per comunicare con questi pazienti circa, ad esempio, la necessità di ricevere antidolorifici o la possibilità di sottoporsi a nuove terapie farmacologiche.


Il Giornale 4 febbario 2010

Ha aiutato la figlia malata a morire, assolta. Sentenza che fa discutere in Inghilterra.

Il giudice ha rimproverato l'accusa: "Che cosa ci fa questa donna in tribunale"dal nostro corrispondente ENRICO FRANCESCHINI


LONDRA - E' una sentenza che potrebbe modificare la legge sul suicidio assistito. Come minimo, è una decisione senza precedenti, uno di quei casi che pongono l'opinione pubblica davanti a un brutale dilemma: cosa avrei fatto, se in quella giuria ci fossi stato io? Kay Gilderdale, una ex infermiera cinquantacinquenne di Stonegate, East Sussex, è stata assolta con formula piena dall'accusa di avere aiutato la figlia Lynn, affetta da un male incurabile, a togliersi la vita. Non solo: dopo che la giuria ha pronunciato il verdetto di "not guilty", non colpevole, il giudice ha apertamente rimproverato in aula la pubblica accusa, sostenendo che la donna non avrebbe dovuto mai essere processata: "Cosa ci fa questa imputata in tribunale?"

Sua figlia Lynn, che soffriva di encefalomielite mialgica da ben 17 anni, aveva più volte detto alla madre che non ce la faceva più a sopportare il suo male. Stamane i giornali pubblicano lettere e pagine dal suo diario in cui la ragazza descrive la sua graduale caduta in un abisso di dolore sempre più atroce. "Voglio morire", aveva ripetuto più volte alla madre, che alla fine l'ha aiutata a realizzare la sua volontà, utilizzando morfina e altri medicinali. L'ex infermiera era rimasta a lungo in preda a un terribile dubbio, incerta se rispettare il desiderio della figlia e porre fine alle sue sofferenze o rifiutarsi per averla comunque vicina. "Ti senti il cuore strappato dal petto", ha detto al processo, "perché l'unica cosa che vorresti è farla stare meglio, farla sopravvivere".

Lynn aveva tentato già una volta il suicidio, senza successo, e aveva dichiarato nella sua scheda medica che non voleva essere rianimata e tenuta in vita artificialmente, nel caso fosse entrata in coma. Tecnicamente, la madre era accusata di tentato omicidio, perché secondo l'accusa non era chiaro se a uccidere la ragazza fossero stati i farmaci presi autonomamente dalla stessa Lynn o quelli che le aveva somministrato la madre. "La sua scelta di morire è stata comunque pienamente consapevole", ha concluso il giudice. Kay ha lasciato il tribunale in lacrime, dopo che parenti, amici e pubblico presente in aula hanno applaudito la sentenza di assoluzione.
Un verdetto opposto a quello emanato pochi giorni fa da un altro tribunale britannico, che ha invece condannato un'altra madre, Frances Inglis, a nove anni di carcere, per avere ucciso con un'overdose di eroina il proprio figlio, anche lui malato terminale, sofferente di gravi lesioni cerebrali. In quel caso, forse perché il figlio era più giovane, forse perché non aveva avuto l'opportunità di esprimere chiaramente la propria volontà di morire, il giudice era stato dell'avviso che l'imputata andasse condannata, sebbene non alla pena massima prevista, che sarebbe stata di quindici anni di carcere. "Nessuno ha il diritto di prendere la legge nelle proprie mani e di mettere fine a una vita umana", aveva dichiarato il magistrato. Ma ora, alla luce della sentenza di assoluzione per Kay Gilderdale, la Gran Bretagna dibatte se sia necessario cambiare appunto la legge che vieta e punisce il suicidio assistito.

© La Repubblica (26 gennaio 2010)

Eluana, Porta Pia, la gnosi e l’Europa. di Angela Pellicciari

Un noto professore di bioetica pubblica un libro con prefazione di Beppino Englaro. E paragona il caso Eluana alla breccia di Porta Pia. Sullo sfondo, ben visibile, l’antica eresia gnostica. Che odia la vita.


[Da «il Timone», n. 85, luglio/agosto 2009]

«Più che di per sé (di persone ne muoiono tante, anche in situazioni ben peggiori), il caso Eluana è importante per il suo significato simbolico. Da questo punto di vista è l’analogo del caso creatosi con la breccia di Porta Pia attraverso cui il 20 settembre 1870 i bersaglieri entrarono nella Roma papalina»: così scrive il professore di bioetica Maurizio Mori in un libro pubblicato di recente con la prefazione di Beppino Englaro.

Cosa c’entra Eluana col Risorgimento? C’entra. E molto. Come nel 1861 trionfano quanti pensano che gli italiani, per essere civili, debbano smettere di essere cattolici, così ora, auspica Mori, è stata aperta una breccia che provocherà il cambiamento della «idea di vita e di morte ricevuta dalla tradizione millenaria [...] per affermarne una nuova da costruire».

Nel Risorgimento trionfa il pensiero liberal-massonico nemico della Rivelazione e del Magistero, come oggi, così afferma il direttore dell’Avvenire Dino Boffo intervistato il 4 marzo sul Foglio da Nicoletta Tihiacos, vince papà Englaro sostenuto nella sua battaglia da «una cupola di indole massonica, che ha messo in campo una solidarietà formidabile, cementata in modo trasversale, capace di superare qualsiasi appartenenza politica, di categoria, di professione».

Cosa accomuna il Risorgimento al caso Englaro? La volontà gnostica di cambiare la realtà (la massoneria è una forma di gnosi). Si definiscono gnostici coloro che ritengono di incarnare l’avanguardia morale ed intellettuale dell’umanità. Gnostico, alla lettera, è colui che conosce, colui che sa. Gli gnostici sono convinti che loro spetti il compito di illuminare gli ignoranti (cioè quasi tutti) sulla direzione di marcia della storia. Certi di essere i migliori, hanno la convinzione che il loro sia un pensiero scientifico, capace di indicare con sicurezza in quale direzione l’umanità debba procedere per marciare spedita verso il progresso. Nemico del limite, che nega per principio, convinto di essene in grado di definire che cosa è bene e che cosa è male, il pensiero gnostico è all’origine delle immani catastrofi che hanno caratterizzato l’epoca moderna. Si va dalla Rivoluzione Francese, che vuole fare nuove tutte le cose ricorrendo al terrore, alla carneficina che Napoleone esporta in tutta Europa. La gnosi non si ferma mai. Non ammette i propri errori. Non ammette che la negazione del limite e della legge naturale portino inevitabilmente con sé la distruzione di tutto ciò che è umano.

Dopo il disastro dell’Illuminismo, invece di tornare a Dio si passa ad una nuova forma di idolatria e ci si rifugia nell’intimità del Romanticismo. Tempo qualche decennio e si torna a progettare alla grande lo Stato, definito “etico”: è la volta del Liberalismo. Tanto per fare un esempio, è in nome della scienza che Cavour decreta la morte per legge degli Ordini religiosi. Il progresso incarnato dal liberalismo, spacciato per scientifico, costa agli italiani, ridotti in miseria, un’emigrazione di massa. Nel Novecento arriva l’epoca del totalitarismo, propagandato ancora una volta in nome della scienza. Comunismo e nazismo sono due visioni del mondo che ritengono di essere scientifiche: l’uno crede nel socialismo, definito scientifico, di matrice marxista, l’altro nella scientifica dottrina della razza.

Ridotto il mondo in rovine, la gnosi vira ancora una volta passando dall’idolatria dello Stato a quella dei desideri individuali. E cosi, in nome della scienza, si è arrivati a negare l’evidenza: l’umanità non sarebbe più biologicamente divisa in due sessi, ma culturalmente caratterizzata da cinque generi fra cui i bambini devono imparare ad orientarsi per scegliere quello ad essi più congeniale. E così il Parlamento europeo è stato capace di condannare la Santa Sede ben trenta volte: per violazione dei diritti umani. Quei diritti che gli gnostici ritengono di essere gli unici a conoscere e definire. E così il Preambolo della Carla Europea dei Diritti specifica che compito dell’Unione è: «rafforzare la tutela dei diritti fondamentali alla luce dell’evoluzione della società, del progresso sociale e degli sviluppi scientifici e tecnologici».

Diritti intesi a partire dagli “sviluppi scientifici e tecnologici”! Diritti relativizzati, cangianti da epoca ad epoca, da ideologia ad ideologia, che garantiscono solo quelli che li vanno codificando, beninteso in nome della tecnoscienza. I diritti umani, al contrario, ricorda Papa Ratzinger all’ONU nell’aprile del 2008, «sono basati sulla legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo […] rimuovere i diritti umani da questo contesto significherebbe restringere il loro ambito e cedere ad una concezione relativistica, secondo la quale il significato e l’interpretazione dei diritti potrebbero variare e la loro universalità verrebbe negata in nome di contesti culturali, politici, sociali e persino religiosi differenti».

Tornando ad Eluana e al libro di Mori: questi si ripromette di far trionfare una nuova concezione della vita e della morte. Il bioeticista pensa che sia ora di farla finita con la concezione sacrale della vita umana: «Come Porta Pia è importante non tanto come azione militare quanto come atto simbolico che ha posto fine al potere temporale dei papi e alla concezione sacrale del potere politico, così il caso Eluana apre una breccia che pone fine al potere (medico e religioso) sui corpi delle persone e (soprattutto) alla concezione sacrale della vita umana». Parole forti. Parole che si comprendono forse meglio tenendo presente un altro luogo comune della gnosi: la convinzione che la materia, che i corpi, che la creazione, siano il prodotto di un dio malvagio. L’idea che prima ci si libera del corpo meglio è.

Se si tiene presente il desiderio titanico con tanta lucidità espresso da Mori, se di tiene presente che si vuole affermare una nuova concezione dell’umanità (vale la pena di ripeterlo: si tratta di «cambiare l’idea di vita e di morte ricevuta dalla tradizione millenaria»), si possono anche cogliere gli elementi comuni che unificano tanta parte delle convinzioni maturate negli ultimi decenni. E cioè: la liberalizzazione della droga, la pretesa che il vero problema sia la sovrappopolazione, la convinzione espressa con sempre maggiore frequenza che l’unico animale distruttivo sia l’uomo, la santificazione dei preservativi, l’affermazione dell’aborto come diritto, la promozione della sessualità per definizione slegata dalla capacità riproduttiva. Come interpretare diversamente la notizia riportata dal Corriere della Sera del 16 gennaio 2008 di un «invito informale, qualche sera fa, all’università di Hong Kong, per una cena a buffet, a un patto: che gli studenti fossero tutti gay o lesbiche. Ospite della serata una banca d’affari, il colosso americano Lehman Brothers». Come mai una banca d’affari (l’unica fallita!) promuove l’omosessualità? Come mai invece di pensare a far soldi i manager della Lehman pensano a come indirizzare i comportamenti sessuali degli studenti? Bisogna ammettere che la cultura moderna è impregnata di gnosi. Gnostica è anche la bordata finale: la diretta, aperta, sponsorizzazione della morte. La propaganda per la “buona morte”, la “dolce morte”. Anche questa scientificamente, asetticamente, procurata. Chiunque abbia assistito ad un’agonia, di uomini come di animali, sa che la morte non è né dolce né buona. La vita combatte con tutte le sue forze contro la morte. Perché la morte è l’unica realtà che Dio non ha creato: «la morte è entrata nel mondo per invidia di Satana», scrive la Sapienza. Gesù Cristo si è incarnato per vincere la morte. La morte può, sì, essere vissuta insieme a Cristo santamente, ma è sempre il dramma supremo della vita umana. Il mito della dolce morte è il punto di arrivo della ribellione a Dio “amante della vita”.

La popolazione italiana, nonostante tutto, resiste alla gnosi. Roma tiene saldamente in mano la fiaccola della libertà nella verità. Il Papa rivendica la forza del logos, della ragione dell’uomo, fatto ad immagine e somiglianza di Dio. L’attacco gnostico a Roma e agli italiani sferrato nell’Ottocento dal pensiero liberale ha prodotto ingiustizie colossali ed il dramma dell’emigrazione. Oggi la breccia di Porta Pia rischia, per noi, di essere l’Europa. In nome dell’uguaglianza e della qualità della vita rischiamo di vederci imporre leggi contro la vita ed il diritto naturale.

© il Timone
www.iltimone.org

Massimiliano Amolini, Uomo Vivo, racconta la sua vita - Da oltre diciannove anni su un letto ma... che vita!!!



Quella che vi propongo oggi è la lettura di un bellissimo libro scritto dal sacerdote cattolico Luigi Bresciani e che riguarda la vita del mio amico Massimiliano Amolini.

"Dal coma alla vita - L'uomo vivente è gloria di Dio" è un volume che deve far parte della nostra biblioteca, ma soprattutto il suo contenuto deve far parte della nostra testa e del nostro cuore.

Massimiliano, giovane forte ed esuberante al punto giusto, simpatico tanto ma tanto, un giorno di diciannove anni fa si tuffa nel Lago di Garda e purtroppo si rompe la colonna vertebrale. Passa mesi in stato vegetativo, quello stato vegetativo da cui esce grazie all'amore dei genitori ed in particolare alla vicinanza fisica e affettuosa della mamma (ma non che il babbo sia da meno, credetemi! E' uno spettacolo vederli tutti e due!) per affrontare una nuova vita in cui Maxi non molla e non cede di un millimetro.

E' un travaglio anche la storia della sua fede, che dopo la prova esce rafforzata e consolidata.

Conosco Massimiliano perché mia moglie, nel suo primo anno di insegnamento, lo ebbe come alunno al Centro di Formazione Professionale S.C.A.R. di Tormini di Roè Volciano (BS), a pochi chilometri dal paese dove Massimiliano vive (e non vivacchia!), Carpeneda di Vobarno (BS). Mi ha dato il modo di conoscerlo e le sono molto grato. Poi è diventato amico dei nostri amici.

Questo libro bellissimo di cui consiglio la lettura (è semplice, è chiaro, è immediato, è evidente) è la risposta a chi crede che una vita come quella di Maxi non sia vita. Un'unghia di Massimiliano è molto, molto più viva di noi tutti messi insieme! Massimiliano è un punto di riferimento per tutti, decidono di prendere la penna e la carta in mano per lui fior di cardinali e patriarchi. Smuoverebbe le montagne, se fosse necessario.

E' anche la risposta a chi vuole far credere che dallo stato vegetativo non si possa uscire. Balla più grossa non esiste.

Io e mia moglie e tutti i nostri amici siamo molto grati a Maxi e alla sua famiglia di onorarci della loro amicizia e di farci dono della loro fede semplice e buona. Vorremmo trasmetterne un po' a tutti, per cui vi parliamo di Massimiliano. E comunque gli vogliamo bene e siamo amici, ed è questo che conta.

Il libro si può chiedere al nostro amico Massimiliano scrivendo a questo indirizzo email:

piccolo.atomo@alice.it

il costo è di € 10,00 cui andrà aggiunta una piccola somma per le spese postali.

A titolo esemplificativo, vi metto le immagini delle belle lettere giunte a Massimiliano dal cardinale Angelo Comastri, arciprete della Basilica di San Pietro, e dal Vescovo della sua diocesi, Brescia.

IL COMBATTIMENTO ESCATOLOGICO. PER LA VITA E LA LIBERTA' (QUELLA VERA)




La Chiesa valdese di Milano apre un re­gistro per i dei testamenti biologici. Ma il cristianesimo non dà il via libera alla morte procurata

L'

iniziativa della Chiesa valdese di Milano di a­prire – da ieri – un re­gistro per la conserva­zione dei testamenti biologici dei cittadini si ripromette di pungolare Parlamento e autorità cittadine, e certamente farà discutere. Nella pro­posta in questione il testamento biologico viene presentata come lo strumento migliore per conse­guire la dignità dell’uomo nelle situazioni estre­me. Sembra pure che sarà accolto nel registro ogni tipo di testamento biologico, anche quelli che con­tenessero esplicite indicazioni eutanasiche.
E’
noto che alcune Chiese protestanti hanno accettato l’idea che l’eutanasia sia una prati­ca moralmente accettabile. Mi riferisco in par­ticolare alla Chiesa riformata olandese, che diede il suo assenso alla legge di depenalizzazione del­l’eutanasia negli anni ’90 del secolo passato. Que­sta stessa Chiesa divenne molto più cauta quando nel 2002 si trattò di passare dalla depenalizzazio­ne alla legalizzazione dell’eutanasia. Molto più cau­ta perché la pratica ha mostrato che il testamento biologico (e il suo contenuto, che è l’eutanasia) non si è rivelato il modo migliore per difendere la dignità dell’uomo, anzi è stato un azzardo che ha prodotto molte eutanasie abusive e contra legem.
Forse tutti dovremmo fare tesoro delle esperienze altrui e ragionare sui modi migliori di proteggersi dalla sofferenza, specialmente quando essa tocca la fase finale della nostra vita. Che tale protezione sia assicurata dal testamento biologico e dalla au­todeterminazione assoluta è una cosa tutta da di­mostrare.
L’

iniziativa di cui discutiamo invece la dà per dimostrata prima di ogni discussione. In que­sto senso l’affermazione di taluni esponenti valdesi che la misericordia di Dio non vuole il pro­lungamento della nostra sofferenza è ovviamente accettabile, ma non comporta assolutamente che si acceleri la morte. Si tratta di trovare le vie migliori per proteggere le persone in modo giusto e degno della società. Proprio la misericordia di Dio non vuole che si trattino le persone come oggetti inu­tili e senza valore, che farebbero bene a togliere il disturbo. Quanto alla questione della libertà per­sonale, è noto che è stato il cristianesimo a dire al mondo che non esiste alcun valore che non possa essere tale se non quando è liberamente assunto. Ma alla base delle forme estreme di testamento biologico c’è una cattiva concezione della libertà, ridotta alla sua dimensione astratta di pura auto­determinazione. In questa logica errata la dignità della persona consisterebbe solo nella sua possi­bilità di autodeterminarsi. È invece noto che la li­bertà comprende anche la relazione, la solidarietà e la possibilità di discutere dei beni su cui dob­biamo prendere una decisione, che non possono essere lasciati all’arbitrio dell’io. Sul piano giuridi­co, va poi ricordata la Convenzione sulla biome­dicina di Oviedo che al suo articolo 9 afferma che le disposizioni dei testamenti biologici debbono
essere orientative e non vincolanti.

Michele Aramini

Avvenire 3 dic. 2009

Il protocollo di Liverpool, cure palliative che nascondono l'eutanasia e abbattono i costi dell’assistenza (insieme ai malati terminali)

E in Italia sinistre e finiani chiedono un biotestamento più “britannico”

di Rodolfo Casadei

Ha quasi 81 anni, si chiama Hazel Fenton e doveva essere morta dieci mesi fa, quando i medici del Conquest Hospital di Hastings le hanno negato per dodici giorni di seguito l’alimentazione artificiale e sospeso la terapia antibiotica, certi che alla signora, ricoverata per una polmonite acuta, restavano pochi giorni da vivere. La forte fibra e l’insistenza della figlia l’hanno salvata: le cure sono state riprese e la donna oggi vive, il Times ha raccontato la sua storia. Un destino differente è toccato alla sorella della signora Marie Mcmanus Muir, londinese: ricoverata in una casa di cura a causa della sclerosi multipla di cui soffriva da anni, dopo alcuni mesi di declino fisico è stata privata di cibo e acqua e sottoposta a infusione permanente di morfina nonostante la contrarietà della sorella; dopo una settimana è deceduta. A metà strada fra i due il caso del 95enne Eric Troake, ricoverato al Frimley Park Hospital nel Surrey dopo un ictus. La figlia, Rosemary Munkenbeck, ha denunciato sui giornali che a suo padre è stata interrotta per cinque giorni la somministrazione di tutti i fluidi, medicinali e per idratazione; è sua convinzione che sia stato fatto con l’intenzione di accelerarne la dipartita. «Abbiamo fatto le nostre rimostranze e questo a loro non piace», ha detto la figlia. «Dicono che mia sorella ed io siamo crudeli perché ci aggrappiamo alla vita di nostro padre. Ma quest’uomo ha diritto a vivere: non ha una malattia in fase terminale, ha solo patito un ictus. Vogliamo proteggerlo. Abbiamo la sensazione che abbiano deciso fin dall’inizio di “scartarlo” perché ha 95 anni».
In Inghilterra i casi veri o presunti, tentati o riusciti di eutanasia come i tre sopra citati vanno sotto un nome e una sigla che per alcuni incarnano l’eccellenza della sanità pubblica britannica, per molti altri rivelano la congenita inclinazione delle autorità per la neo-lingua orwelliana: Lcp, Liverpool Care Pathway, ovvero Percorso di cura di Liverpool. Si tratta di un modello di assistenza che indica le cure che un paziente dovrebbe ricevere negli ultimi giorni di vita per soffrire il meno possibile. È stato creato dal Marie Curie Palliative Care Institute di Liverpool, che lo definisce (traduzione letterale) «un percorso di cura integrata utilizzato al capezzale per incrementare un’elevata qualità del morente nelle ultime ore e giorni di vita». Dal 2004 è raccomandato dal National Institute for Health and Clinical Excellence (Nice), l’authority nazionale per la qualità dell’assistenza sanitaria. Infatti è stato adottato da 300 ospedali, 130 ospizi e 560 case di cura. Descritto in poche parole, l’Lcp consiste nel sospendere la somministrazione intravena di alimentazione e medicinali al paziente e sostituirla con un’infusione permanente di morfina. Per i parenti di molti ricoverati anziani e non solo anziani l’Lcp è una sorta di sentenza di morte pronunciata da medici e infermieri che non hanno più voglia di occuparsi del loro caro o che sono stati incaricati di realizzare risparmi sulle spese sanitarie. Patricia Cooksley, una lettrice del Daily Telegraph ex infermiera che ha visto morire uno zio 81enne malato di cancro dopo 11 giorni di disidratazione e somministrazione continua di morfina, in una lettera al quotidiano l’ha definita “licenza di uccidere”.
Finché a lamentarsi erano singoli cittadini, la cosa è passata sempre in cavalleria. Ma all’inizio del settembre scorso a incendiare il dibattito ci ha pensato un gruppetto di esperti comprendente docenti universitari di geriatria, consulenti di medicina palliativa e anestesisti che ha scritto al Daily Telegraph una lettera collettiva per denunciare diagnosi di morte imminente errate ed eccessiva fretta da parte di strutture ospedaliere e case di cura nel sospingere i pazienti a compiere passi senza ritorno sul Percorso di Liverpool. «Un approccio modulistico alla gestione della morte sta provocando una crisi nazionale nell’assistenza», scrivono i firmatari dell’appello. «Se si barrano tutte le caselle giuste del Liverpool Care Pathway, il risultato inevitabile del trattamento è la morte. Un’ondata di scontento si sta diffondendo fra gli amici e i familiari che osservano come siano negati fluidi e cibo ai pazienti. Vengono applicati microinfusori per la somministrazione continua di sedazione terminale, senza preoccuparsi del fatto che la diagnosi potrebbe essere errata». Stavolta le reazioni ci sono state. Un portavoce del ministero della Sanità ha precisato: «L’Lpc è uno strumento istituzionale e raccomandato che fornisce agli operatori un protocollo basato su dati di fatto per aiutarli a fornire assistenza di alta qualità alle persone che sono alla fine della loro vita. Stiamo investendo 286 milioni di sterline per il biennio 2010/11 per sostenere l’implementazione della End of Life Care Strategy, per migliorare l’assistenza di fine vita a tutti i pazienti adulti».
Morire col minor disagio possibile
Secondo Sharon Cusack, un’operatrice familiare con l’Lpc, esso «raccomanda che il riconoscimento che una persona sta per morire non sia la decisione di una persona, ma dell’intera équipe responsabile dell’assistenza al paziente e della famiglia. Se ci sono obiezioni, l’Lpc non dovrebbe essere imposto. Le condizioni del paziente devono essere monitorate continuamente. Se si percepisce che le sue condizioni sono migliorate, i trattamenti precedenti devono essere reintrodotti. L’Lcp non è uno strumento per l’eutanasia, ma per aiutare le persone a morire con dignità». Concetti simili a quelli espressi dal portavoce del Frimley Park Hospital dopo le proteste della signora Munkenbeck: «A volte trattare attivamente un paziente che sta morendo può prolungare senza necessità le sue sofferenze. La decisione di sospendere un trattamento è presa solo dopo attenta considerazione da parte di un team multidisciplinare di clinici, consultando la famiglia e, quando è possibile, il paziente. Prendersi cura di lui può implicare l’applicazione del Liverpool Care Pathway. Questo protocollo permette ai pazienti di affrontare il morire con il minor disagio e con la maggiore dignità possibili, nel mentre che ricevono appropriata assistenza personalizzata».
Belle parole, ma molti parenti di malati indirizzati sull’Lcp dalle équipe di ospedali e ricoveri smentiscono vigorosamente che le cose vadano in questo modo. A ciò si aggiunge il fatto che nessuno fino a questo momento ha potuto confutare un dato che i firmatari dell’appello apparso sul Daily Telegraph hanno evidenziato, e cioè che nel biennio 2007/08 il 16,5 per cento di tutti i decessi nel Regno Unito è avvenuto dopo sedazione terminale: una percentuale doppia di quella registrata in paesi come Belgio e Olanda, dove esistono legislazioni che autorizzano l’eutanasia. «Mia madre sarebbe stata lasciata morire di fame e di disidratazione. È davvero un sotterfugio per l’eutanasia legalizzata degli anziani all’interno dell’Nhs (il servizio sanitario nazionale britannico, ndr)», protesta la figlia della signora Hazel Fenton, cui un giovane medico subito dopo il ricovero della madre avrebbe detto che costei sarebbe stata avviata all’Lcp, mentre un’infermiera le avrebbe chiesto «Che cosa vuole fare col corpo di sua madre?». «La decisione di sospendere alimentazione e fluidi a mio fratello, che al momento era perfettamente lucido, e di somministrargli morfina con un microinfusore ha compromesso la funzionalità renale e causato una dolorosa infezione dei reni con febbre alta», scrive un lettore del Daily Telegraph che si firma Alex.
«Mia sorella ed io siamo rimasti scandalizzati per le condizioni in cui mio fratello è stato ridotto a causa delle inadeguate spiegazioni date a lui e a sua moglie intorno alle cure palliative. Non essendo i suoi parenti più stretti, siamo stati esclusi dalle discussioni sul suo trattamento. Circa sei mesi prima avevamo accudito un altro fratello che è morto di cancro in Francia. Il trattamento nei suoi e nei nostri confronti è stato illuminato e umano. Costui è morto con dignità, assistito con gentilezza e superbe cure mediche, l’altro ha sopportato tre settimane di dolore e stress terribili a causa di quello che adesso abbiamo capito essere il Liverpool Care Pathway». «Mio suocero è stato “assassinato” dall’Nhs», scrive un certo Peter. «L’Lpc è stato istigato da un giovane dottore e le flebo di diamorfina e midazolam erano già state iniziate al momento in cui è stata consultata la famiglia. Da notare che nelle stesse note del dottore è stato registrato che mio suocero non presentava dolore né stress psicologico; l’unico scopo delle flebo non poteva essere che quello di accelerare il suo decesso». «La settimana scorsa a mio padre è stato applicato l’Lpc», scrive una certa Katie. «Era entrato in ospedale per le fratture di una caduta, ha sviluppato una polmonite ed è stato portato in rianimazione. Quando si è ripreso i medici gli hanno tolto la ventilazione e lo hanno riportato in reparto. Una volta lì hanno immediatamente deciso di applicare l’Lpc, gli hanno sospeso tutti i fluidi, alimentazione e medicinali. Il protocollo non è stato discusso con noi della famiglia prima di essere avviato. Dopo due giorni papà è morto». Ci sono casi che ricordano quello della signora Hazel Fenton. «A mia zia, che ha 75 anni, è stato diagnosticato un tumore allo stomaco dopo mesi di dolori», scrive Laura R. «È stata mandata a casa accompagnata da due infermiere che dovevano istruire mia cugina a rendere “confortevoli” i suoi ultimi giorni: niente cibo e acqua, ma solo la medicazione che avevano portato per lei. Mia cugina le ha cacciate di casa e quelle andandosene le hanno detto: “Non vivrà più di una settimana”. Sono passati quattro mesi!». Dietro a tutto questo pare stagliarsi una politica di riduzione dei costi della sanità, ispirata dal Nice, l’authority citata all’inizio. Lo scorso agosto l’istituto ha emesso una direttiva nella quale si spiega che i pazienti non devono attendersi che l’Nhs salvi la loro vita se ciò costa troppo.
Risorse limitate, cure “razionalizzate”
Leggere per credere: «Quando le risorse per la sanità sono limitate, applicare la norma del “dovere di salvataggio” (cercare di salvare una persona precisa la cui vita è in pericolo) può significare che altre persone non potranno avere il trattamento o l’assistenza di cui hanno bisogno. Il Nice riconosce che quando prende decisioni dovrebbe considerare le necessità dei pazienti presenti e futuri dell’Nhs, che sono anonimi e non dispongono necessariamente di persone che difendano la loro causa». La base formale per discriminare gli anziani rispetto ai giovani nell’erogazione di cure è gettata, così come per usare l’Lcp come la grande scopa con cui fare piazza pulita dei pazienti che costano troppo. D’altra parte il Nice in questi anni ha definito il limite di spesa pubblica sanitaria al quale ogni paziente avrebbe diritto sulla base dei Qaly, “quality adjusted life years”, cioè l’aspettativa di anni di vita in buona salute. Attualmente il Nice indica un tetto di 25-30 mila sterline di spesa sanitaria per anno di vita in buona salute presumibilmente guadagnato col trattamento. Ovvio che per i malati gravi e anziani, che di anni in buona salute ne possono guadagnare ben pochi, non restino che le briciole. Questa politica è criticata anche dai produttori di tecnologia medica in quanto scoraggerebbe l’innovazione, ma soprattutto dai pazienti, che si sentono sempre più sacrificati alle esigenze del bilancio sanitario. Altro che la regina: Dio salvi i poveri malati inglesi.

La vita nuova di Blanca. La bimba venduta dal padre per dieci litri di vino che ha trovato un abbraccio in mezzo al deserto

di Aldo Trento
Tratto da Tempi del 26 novembre 2009

Blanca oggi è una ragazza di ventidue anni. È arrivata alla clinica Divina Providencia non perché malata fisicamente, ma per stare vicina a Don Lucio, suo attuale compagno di vita e malato terminale di cancro.

La loro storia è quella di due vite disperate, e in queste ultime settimane è diventata drammatica ma al tempo stesso si è colmata di pace. Assieme al compagno Lucio, molto più anziano di lei, Blanca ha avuto due bambini. Da due settimane hanno deciso di sposarsi qui, nella clinica. Il motivo: «Padre, desideriamo stare in pace con il Signore. Padre, voglio morire in pace e lasciare alla mia donna la certezza di morire in grazia di Dio».

Nel paradiso che è la clinica, questo è un ritornello ripetuto da molti pazienti terminali: «Vogliamo sposarci in Chiesa per morire in grazia di Dio». Una prova chiara del fatto che non esiste un amore, una relazione autentica e di conseguenza capace di dare la pace, l’allegria al cuore, che non sia anche relazione con l’Infinito. Sono pazienti analfabeti, che vengono dalla strada, vite spese per lo più seguendo l’istinto di sopravvivenza. Che però, quando hanno incontrato lo sguardo di qualcuno, con la piena coscienza che “Io sono Tu che mi fai”, come per osmosi hanno percepito che solo nella relazione con l’Infinito l’uomo incontra la vera pace.

Del resto, cos’è l’amore umano se non un grido dell’eterno, un segno dell’Infinito che l’uomo cerca? Ciò che affermava Cesare Pavese, che «anche nei piaceri più a buon mercato ciò che l’uomo cerca è l’eterno», qui tra i nostri infermi terminali è un’evidenza che si impone. Don Lucio incontrò Blanca in un momento disperato della vita di lei. Fin da piccola era stata oggetto di qualsiasi violenza sessuale da parte del padre. La “madre”, come molte donne paraguaiane, ridotta a oggetto, viveva come ipnotizzata e impotente anche solo a reagire verbalmente davanti alla bestia che era suo marito. Un giorno un vicino a cui piaceva la ragazza si avvicinò alla “famiglia” offrendosi di comprarla. Al “padre” non sembrò vero, e per soddisfare il suo alcolismo la vendette per dieci litri di vino.

Da quel momento per Blanca si spalancarono le porte dell’inferno. Visse con un’altra bestia per qualche anno, vittima di ogni tipo di violenza e oltraggi, avendo da lui anche dei figli. Però una notte, disperata per la tortura cui era sottoposta, approfittando dell’ubriachezza dell’uomo, riuscì a fuggire portandosi via le sue creature. Camminarono per alcuni giorni nel cosiddetto inferno verde: il Chaco paraguaiano, un deserto pieno di cactus, serpenti e belve feroci. Stanchi, affamati e assetati cercavano un rifugio. È così che Blanca e i suoi figli sono giunti all’umile casa di Don Lucio, che aveva quarant’anni più di lei. L’uomo, molto povero e molto solo, la accolse con affetto in casa sua. La verità è che nell’inferno del mondo, e anche nelle circostanze più avverse, Dio ci mette sempre davanti una perla preziosa: qualcuno col cuore di carne, segno e rifugio per i disperati.

La Divina Providencia
Don Lucio subito la protesse, le diede una casa e l’affetto, quell’affetto umano che nasce da una ragione che nonostante tutto vive aperta al Mistero, sostenuta da un’umile religiosità contadina, frutto della prima evangelizzazione. La vita di Blanca e dei suoi figli cambiò. Gli anni della violenza rimasero alle sue spalle. Un volto finalmente umano le aveva restituito la speranza e il desiderio di vivere, di lottare. Si affidò totalmente a questa nuova opportunità, dedicandosi al nuovo compagno e ai suoi figli. Nel bel mezzo del Chaco, un deserto terribile che soltanto le rare volte che piove diventa verde e per questo è chiamato inferno verde, una novità umana, la comunità di una famiglia naturale che non aveva mai visto una chiesa, un prete, però aveva la coscienza originale che l’essere umano per sua natura è relazione con Tupa, il nome con il quale i paraguaiani definiscono Dio, il Mistero (“Tu” in guaranì ha lo stesso significato di “stupore, meraviglia”; “pa” vuol dire: chi ha fatto questa cosa bella?).

Purtroppo la convivenza durò solo pochi anni, perché repentinamente Don Lucio si ammalò di cancro. Per alcuni mesi sopportarono la disgrazia, però il dolore crescente e la povertà vinsero la resistenza di entrambi, e dopo aver peregrinato inutilmente per diversi centri ospedalieri arrivarono alla nostra clinica.

Per loro fu come giungere in un hotel a cinque stelle, essere accolti con il grande calore umano del quale entrambi avevano bisogno, dopo anni di solitudine e mancanza di compagnia umana. Blanca rimase giorno e notte accanto a Don Lucio e cominciò a conoscere Cristo.

Fu per entrambi l’occasione di scoprire una vita nuova, e in poco tempo chiesero di ricevere i sacramenti, coscienti che in questo modo la loro relazione non si sarebbe mai interrotta, nemmeno di fronte alla morte.

«Non ti abbandoneremo»
Dopo questo momento il cammino di Lucio arrivò alla sua tappa finale, e in pochi giorni morì. Il dolore di Blanca fu grande, perdeva quello che era stato il suo appoggio, l’àncora di salvezza della sua vita. Chi non la conosceva o non aveva conosciuto la sua storia non riusciva a comprendere il motivo di tanto dolore. Una volta ancora si era trovata sola con due creature in un mondo che da sempre le era stato nemico, egoista, cieco e sordo al suo dolore. Io la guardavo abbracciandola, e l’unica cosa che riuscii a dirle fu: «Non ti preoccupare, Blanca, noi non ti abbandoneremo. Cercheremo una casa per te e per i tuoi figli, in modo che possano continuare a vivere con dignità».

Durante i lunghi giorni che aveva passato al fianco del suo compagno, a chi le domandava, sorpreso dalla differenza di età, il perché di un affetto così grande, Blanca rispondeva: «Lui è stato l’unico che mi ha amato senza chiedere niente in cambio, quando persino i miei genitori mi hanno venduto per dieci litri di vino».

Davvero: solo l’incontro con un’umanità nuova carica di gratuità permette a qualsiasi essere umano – non importa cos’ha passato – di scoprire che uno non è mai esclusivamente frutto dei suoi antecedenti, del suo passato, ma relazione con l’Infinito. E quando scopre quest’ontologia del suo essere, la libertà torna ad essere il respiro pieno di speranza della vita. Nemmeno il fatto di essere stata venduta per dieci litri di vino ha potuto impedire a Blanca di formare un giudizio, e di poter dire adesso “io”, con la certezza di appartenere a un Mistero più grande di quella vita di miserie che si porta dietro. Mentre da un lato le femministe frustrate rivendicano il “diritto” all’aborto, mentre il maschio pretende di vedere riconosciuto il suo “diritto” all’omosessualità, ed entrambi pretendono anche il “diritto” di adottare figli, dall’altra parte una ragazza, nel pieno secolo XXI, viene venduta dai suoi genitori. Mentre da un lato la scienza, col suo smisurato orgoglio, vuole dominare la vita decidendo quali siano le sue origini e il suo destino finale, e mentre l’uomo, novello Prometeo, vuole sfidare il cielo, qui in questa piccola aiuola che ci rende tanto, tanto feroci, come scriveva Dante Alighieri, una ragazza di quindici anni viene venduta dai suoi genitori per dieci litri di vino.

Quanto più è esaltata l’idolatria dei diritti umani, tanto meno è riconosciuto il valore della persona umana. E questo vale per tutti gli ambiti della vita quotidiana. Pensiamo, ad esempio, a ciò che accade coi malati e i deboli nel nostro sistema sanitario, con i bambini nelle case e nelle strade, con tutti quei figli di Dio che non essendo utili allo Stato sociale sono “niente” per la società! E perché, in pieno XXI secolo, mentre l’uomo si illude di conquistare l’universo, qui su questa terra la maggior parte delle persone è ancora ridotta in schiavitù?

Una aiuola di libertà
Scriveva molti decenni fa lo scrittore russo Fëdor Dostoevskij: «Se Dio non esiste, tutto è possibile». Vale a dire, come diceva sant’Ambrogio: «Osserva quanti hanno abbandonato Dio, di quanti ami sono schiavi».

La schiavitù non è mai stata così diffusa nel mondo come lo è oggi. La nostra amica, venduta per dieci litri di vino, e per di più dai suoi stessi genitori, è un’evidenza drammatica. Una ragazza vale quanto valgono dieci litri di vino. È esattamente quello che succede con l’aborto o con l’eutanasia: la vita umana non vale niente. Ma dentro queste tenebre il Mistero dell’Incarnazione, che vive nella carità della nostra comunità, continua ad essere una certezza, la grande vittoria sulla cultura cieca e orgogliosa del niente. Visitando la clinica San Riccardo Pampuri si impara che mentre la schiavitù è padrona del mondo, esiste una piccola aiuola verde di libertà, la libertà di morire col sorriso sulle labbra. È il miracolo dell’Incarnazione e Resurrezione di Cristo, che vive nella Chiesa e, concretamente, in questa compagnia.

La mamma: «Mai persa la speranza»

«Mi chiamo Rom. Non sono morto. E devo la mia vita alla mia famiglia». A chi lo avvicina per fargli delle domande, Rom Houben risponde così, la mano dell’assistente mossa lentamente dal suo dito. E sua madre, Josephine, 73 anni, sorride con gli occhi pieni di lacrime, tutte le volte. È stata lei a credere nella vita di suo figlio, contro la realtà, contro i medici, contro i referti degli esami sempre uguali: «Signora, sua figlio è come un vegetale, non sente nulla, non pensa nulla. Di suo figlio non è rimasta più traccia». Il responso, quello che il neurologo Steven Laureys ha chiamato eloquentemente il "timbro" dello stato vegetativo, ha marchiato Rom decine di volte nel corso degli anni.

Dalla notte dell’incidente stradale in cui rimase coinvolto, a soli 20 anni, fino alle cliniche più famose del Belgio, ai medici più esperti, nessuno aveva osato sperare. Tranne lei: «Anche se i medici insistevano sul fatto che la sua coscienza fosse "estinta" – spiega Josephine – e che lui fosse del tutto inconsapevole di quello che gli accadeva intorno, io ho sempre rifiutato di accettare la diagnosi. Lo sentivo istintivamente, e anche mio marito. Noi sapevamo, anche se è difficile spiegare come, che Rom era vivo».

E se lo portavano in giro, i coniugi Houben, quel figlio "estinto" per la medicina: di pomeriggio passeggiavano insieme nel parco vicino a casa, a pranzo e a cena lo imboccavano con un cucchiaio, d’estate andavano insieme in vacanza nel sud della Francia. «Abbiamo sempre cercato di dargli una vita il più possibile uguale a quella degli altri figli, gli abbiamo parlato dei nostri problemi quando ce n’erano, lo abbiamo accarezzato e guardato vivere. Anche quando mio marito è morto, nel 1997 – continua Josephine –, sono andata all’ospedale per dirgli quello che era successo. Ricordo che lui chiuse gli occhi, li tenne chiusi. Non pianse, ma io capii lo stesso».

Quando Rom ha avuto la sua tastiera, e ha ricominciato a comunicare con l’esterno, ha chiesto scusa alla madre per non averla potuta aiutare in quel momento difficile: «Non c’ero, mamma». Josephine se l’è stretto al cuore. «Il messaggio che voglio dare ai genitori che si trovano nella mia situazione – dice – è di non mollare, di avere fede».

Viviana Daloiso

Avvenire

L’umiltà di tornare al capezzale di malati etichettati come persi

Ventitré anni fa, dopo un incidente, i medici gli avevano diagnosticato uno stato vegetativo persistente. Tre anni fa Rom Houben, belga, è stato esaminato da un neurologo di fama internazionale. Con le tecniche di risonanza magnetica funzionale il professor Laureys dell’Università di Liegi ha accertato che l’uomo aveva attività cerebrale: un caso particolare di "sindrome locked-in", è la diagnosi, lo stato di chi dopo un trauma è paralizzato e "chiuso dentro" di sé. Oggi Houben riesce a comunicare indicando le lettere su una tastiera, e può leggere. Racconta come un incubo i ventitré anni di silenzio. Quando per i medici la sua attività cerebrale era "estinta".

La storia non è un miracolo, né il caso di un uomo straordinariamente risvegliato dal limbo della incoscienza. È la storia di una diagnosi sbagliata. Ventitré anni fa non c’erano gli strumenti di oggi. Simili errori non erano impossibili. Secondo quanto afferma Laureys nel suo più recente lavoro scientifico, tuttora «il tasso di diagnosi errate di stato vegetativo rimane alto: i segnali che distinguono gli stati vegetativi dagli stati di minima coscienza non sono così netti».
Non così netti, come dal bianco al nero. Non così semplici, che non ci sia ancora da studiare.

La vicenda del ragazzo invecchiato in un silenzio da monade, e il suo esserne tornato, insegna qualcosa. Intanto, che ciò che vent’anni fa sembrava certezza scientifica oggi potrebbe essere superato da nuove tecniche, che leggono ciò che non si vedeva. Forse, tra cinquant’anni, si saprà ancora di più sul cervello umano. Che è macchina straordinariamente complessa; troppo, per definirla irreversibilmente con diagnosi che rapidamente invecchiano.

Il sommo della ragionevolezza di fronte a tanta complessità sarebbe forse l’ammettere di conoscere ancora poco. Non pretendere di sapere "tutto", né dare per scontato che ogni uomo immobile da anni in un letto sia perduto. Sapere almeno che occorre cercare ancora.

In fondo, questa storia prima che di scienza sofisticata è una storia di umiltà: l’umiltà di un medico di tornare al capezzale di un paziente assente da vent’anni, dato per spacciato. E di tentare ancora. Per venti giorni Laureys e i suoi assistenti hanno verificato semplicemente i riflessi oculari di Houben, ne hanno preso nota su un diario. Prima ancora delle macchine più sofisticate, la pazienza dei medici.

Ed è la storia questa, anche, della tenacia di una donna. La madre, che per ventitré anni è rimasta accanto a quel letto. Un tempo lunghissimo. Quanti avrebbero ceduto, quanti si sarebbero umanamente rassegnati. Magari invocando una fine. Quella donna no. Capace, davvero, di sperare contro ogni speranza. E quel figlio intanto, carcerato nel suo personale abisso. Lavato, imboccato, immobile. Eppure cosciente. Di una coscienza invisibile ai medici. Che crollavano il capo, certi del loro sapere: «È un vegetale».

Un errore di diagnosi, una sentenza incollata come un’etichetta, e mai più verificata. Possibile, quando dei medici sono troppo sicuri di aver capito tutto. Fosse un insegnamento per quanti hanno a che fare con i limbi di pazienti assenti. Se, di fronte al mistero della coscienza e dell’indecifrato "hardware" che ne è sede, si alzasse un dubbio: occorre essere umili, di fronte alla vita di un uomo. Di fronte a ciò che è molto grande, somma ragionevolezza l’ammettere di non sapere abbastanza.

(Intanto, quell’ex ragazzo quarantenne ora legge, e discorre con gli amici. Parrà incredibile ai cultori di una "dignità della vita" predefinita secondo rigorosi canoni, ma si dice "contento". Sfuggito a un incubo, ancora paralizzato, e – scandaloso – "contento". Semplicemente contento di essere vivo, e amato).

Marina Corradi

«Stati vegetativi: il 41% delle diagnosi sono errate»

Nuovi strumenti, ricerche che capovolgono concetti acquisiti, esperimenti con risposte inattese: sulla frontiera più avanzata della medicina sta cambiando quasi tutto. Ecco l'intervista rilasciata dal neurologo blega, pioniere mondiale nel campo degli stati vegetativi, ad «Avvenire» lo scorso settembre.

Il neurolo Seven Laureys
Diagnosi errate. Convinzioni obsolete. Strumenti ed esami inadeguati. Sugli stati vegetativi – e più in generale sui pazienti sopravvissuti a gravi traumi cerebrali, come sono anche quelli in stato di minima coscienza – la scienza si trova oggi a un bivio: ammettere gli errori del passato, resi evidenti dai passi avanti compiuti in questo campo come in altri; oppure fare orecchie da mercante, pena l'impossibilità di rispondere alle sempre più impellenti domande sul cervello umano, ma anche sulle necessità di curare i pazienti vittime di danni cerebrali proprio come gli altri. Steven Laureys, neurologo belga che in questo campo è fra i pionieri a livello mondiale, sta spingendo l'acceleratore nella prima direzione.

Professore, recentemente ha fatto molto parlare un suo studio sui pazienti in stato vegetativo pubblicato sulla rivista «Bmc Neurology». In cosa consiste?
Insieme alla mia équipe di Liegi e ad alcuni ricercatori americani, abbiamo esaminato le cartelle cliniche di oltre cento pazienti considerati in stato vegetativo. Poi abbiamo ri-effettuato tutti gli esami su quei pazienti, utilizzando come riferimento la «Revised Coma Recovery Scale» (Crs-R), una serie di test comportamentali elaborati nel 2002 negli Usa e basati su criteri che possono essere usati per distinguere fra stati vegetativi e stati di minima coscienza: la risposta a stimoli uditivi, le attività motorie residuali, il movimento degli occhi...

E cosa avete scoperto?
Che nel 41% dei casi – cioè quasi la metà! – le diagnosi effettuate erano sbagliate.

Cosa significa?
Che qualcosa non va, ovviamente. O meglio sarebbe dire: che la scienza, in questo caso, non ha dato le informazioni giuste. Se effettuando la nostra diagnosi su questi pazienti in base alla Crs-R siamo giunti a una conclusione differente, questo significa che i medici non avevano utilizzato i nostri stessi criteri.

Generalizzando, potremmo dire che oggi un paziente in stato vegetativo a Roma non sarebbe considerato in stato vegetativo a Bruxelles o Liegi, dove lei lavora?
Esattamente, e questo non deve più accadere. Anche perché nei casi limite come quello di Eluana Englaro, di cui siete stati testimoni recentemente in Italia, la scienza ha un compito ben preciso: quello di dare informazioni il più possibile obiettive. Non sta a me, cioè all'uomo di scienza, dire come queste informazioni vadano utilizzate dalle famiglie di questi pazienti, dalla sanità pubblica, o dal diritto. A me, tuttavia, spetta dare le informazioni necessarie affinché queste decisioni siano il più possibile corrette. Se quelle informazioni non sono corrette, prendere quelle decisioni è pericoloso.

Che fare, allora, affinché la comunità scientifica riconosca un linguaggio comune in questo campo?
Concretamente, sono moltissime le cose già fatte. Personalmente, ad esempio, mi sono impegnato nella traduzione della Crs-R in diverse lingue, col risultato che i criteri utilizzati nel nostro centro sono oggi gli stessi impiegati in tutti gli ospedali del Belgio, in molti degli Stati Uniti, della Francia, in alcuni italiani. Poi è necessario incontrarsi, allargare il dibattito, creare gruppi multinazionali di ricerca: anche in questo campo si è già fatto molto, e mi riferisco in particolare al progetto europeo «Decoder», volto a diffondere l'impiego di interfacce cervello-computer, dispositivi innovativi capaci di rilevare i segnali generati dall'attività cerebrale di pazienti in stato vegetativo, e interpretarli. Simili strumenti sono già utilizzati in Germania, Austria, Francia, Olanda e anche in Italia. Qui si apre una questione più concreta.

Quale?
Quella dei macchinari, degli strumenti. In questo caso mi risulta immediato fare l'esempio di Galileo, che non avrebbe potuto scoprire tante cose sull'universo senza guardarlo attraverso la lente del suo cannocchiale. Così noi neurologi dobbiamo guardare i nostri pazienti attraverso "lenti" sempre più affidabili e moderne. È il caso della risonanza magnetica funzionale, che tramite immagini ci permette di evidenziare la risposta emodinamica correlata all'attività neuronale del cervello o del midollo spinale: con questo strumento Adrian Owen, a Cambridge, ha mostrato come un paziente in stato vegetativo sappia giocare una partita di tennis "mentale".

Fin qui la diagnosi. Quali, invece, le speranze nella cura di questi pazienti, la cosiddetta "prognosi"?
Le due cose sono profondamente intrecciate. Mi piace dire che la diagnosi è un buon inizio: solo se è corretta ci permette di capire anche come prenderci cura di un paziente. È evidente, poi, che ogni paziente in stato vegetativo è una caso a sé stante, ma è proprio dalla correttezza della diagnosi che potremo garantire al paziente e alla sua famiglia una prognosi altrettanto corretta.

Che definizione darebbe di stato vegetativo?
La coscienza ha due componenti principali: la veglia e la consapevolezza (di sé e degli altri). Lo stato vegetativo è caratterizzato dalla presenza della prima senza la seconda.

Quindi, scientificamente parlando, è scorretto dire che questi pazienti non sono coscienti?
La coscienza è un concetto sfaccettato. Nel caso dei pazienti in stato vegetativo non manca la coscienza, ma l'associazione tra le sue componenti. Purtroppo spesso si verificano due fraintendimenti in questo senso: i familiari e anche alcuni medici credono che se il paziente muove gli occhi o emette dei suoni – come in alcuni casi accade – sia completamente cosciente, o, all'opposto, che se non si muove e non emette alcun suono sia del tutto privo di coscienza. Di qui l'importanza della corretta diagnosi: questa è la vera sfida che la scienza deve vincere. E al più presto.

Copyright 2009 © Avvenire

Testamento biologico? Creduto in coma per 23 anni "Capivo e cercavo di urlare"

Un belga rimasto paralizzato in un incidente. Il medico che lo ha aiutato:
"I pazienti spesso bollati erroneamente come incoscienti"


LONDRA - Per ventitré anni è stato considerato in coma, in realtà era vigile: ma Ron Houben, rimasto paralizzato in un incidente stradale quando aveva 23 anni, non riusciva a dire che capiva ogni cosa di quel che gli accadeva attorno. "Sognavo di alzarmi", ha raccontato Houben, oggi 46enne e in grado di comunicare grazie a un pc e ad una particolare testiera che gli consente di rapportarsi al mondo esterno. Secondo i medici era in un persistente stato vegetativo. "Urlavo ma non riuscivo a sentire la mia voce", è la sua testimonianza.

Dopo l'incidente, i medici di Zolder, in Belgio, utilizzarono i test in uso nella comunità scientifica prima di concludere che la sua coscienza era "estinta". Ma tre anni fa, nuovi scanner ultra-sofisticati hanno dimostrato che il suo cervello ancora funziona normalmente. Houben, la cui inquietante vicenda è stata raccontata dalla stampa britannica, ha descritto quel momento come la sua "seconda nascita". Il suo caso è venuta alla luce perché il neurologo che lo ha "salvato", Steven Laureys, l'ha raccontato in un articolo di una rivista scientifica. "Per tutto quel tempo ho letteralmente sognato una vita migliore.

"Frustrazione" è un termine troppo limitativo per descrivere quel che sentivo". Secondo Laureys, potrebbero esserci altri casi simili nel mondo; e la vicenda è destinata a risollevare il dibattito sul diritto a morire di chi è in coma. I medici a Zolder utilizzarono la Scala di Glascow, la stessa utilizzata internazionalmente, che valuta vista, parola e risposte motorie. Ma solo quando il caso fu riesaminato dai medici dell'Università di Liegi si scoprì che l'uomo aveva perso il controllo del corpo, ma era ancora perfettamente consapevole di quel che accadesse. "Voglio leggere - spiega adesso - dialogare con i miei amici, godermi la vita ora che la gente sa che non sono morto".

Secondo gli studi di Laureys, i pazienti in stato vegetativo spesso sono vittime di diagnosi sbagliate. "Chi viene bollato come "in stato incosciente" difficilmente riesce a sbarazzarsi di questo marchio. Solo in Germania", racconta il neurolgo dell'Università di Liegi, "ogni anno circa 100.000 persone soffrono di lesioni cerebrali traumatiche gravi. E tra le 3.000 e le 5.000 persone all'anno rimangono intrappolate in uno stadio intermedio, vivono senza mai tornare indietro.

(24 novembre 2009) La Repubblica



Mons. Sgreccia (bishop’s life). Videointervista di Paolo Rodari

Ecco la quinta intervista per “Vatican Stye“, il programma che conduco su Redtv ogni mercoledì pomeriggio (ore 18.30). L’intervista è a monsignor Elio Sgreccia, presidente emerito della Pontificia Accademia per la Vita. Teologo, docente di bioetica (grazie a lui sono sorti il primo centro e la prima cattedra italiana di bioetica), parla della sua missione a fianco di Giovanni Paolo II e poi di Benedetto XVI, le battaglie per la vita, contro l’aborto, la posizione della chiesa nella tragica vicenda di Eluana Englaro e molto altro ancora.

Clicca qui per visualizzare ed ascoltare l'intervista.



http://www.paolorodari.com

Il cristianesimo e la Chiesa all'origine dell'alleviamento del dolore. Cicely Saunders e la nascita delle cure palliative


Forse non tutti sanno che alla radice dell'amorevole cura dei malati terminali, all'alba delle cure palliative vi è la figura di una donna, medico, cristiana, cattolica, che tutto ha fatto per amore di Cristo. Così scopriamo che, al contrario di quanto si dice e stra-dice, la Chiesa cattolica non è quel mostro che ha fatto del dolore una sorta di instrumentum regni con cui soggiogare la labile mente dei popoli durante i secoli. Senza scomodare i Padri, il Magistero e la Tradizione, e la Sacra Scrittura ovviamente, basta leggere la vicenda di Cicely Saunders per riconoscere le tracce di un Popolo - la Chiesa - che ha fatto dell'amore la sua sola ragione di vivere, imprimendo così alla storia un corso irreversibile con il sapore inconfondibile della pietà.
E' spesso accaduto che da un'intuizione cristiana tradotta in opere immortali, il nemico abbia tratto ispirazione per opere di morte. Ci dicono nulla le parole libertè egualitè fraternitè, tragicamente immerse nel sangue della Vandea e di migliaia di teste mozzate? Ecco, l'eutanasia, letteralmente dolce morte, non è forse figlia illegittima di quella pietà cristiana che ha steso, durante i secoli, un manto di dolcezza vera e misericordiosa su ogni dolore e su ogni morte?
La storia di questa donna meravigliosa, intrisa di Grazia e passione per l'uomo, è un segno vivissimo di come oggi la verità sia taciuta ed ignorata perchè la menzogna appaia con le vesti della verità. "Ma alla Sapienza è stata resa giustizia da tutti i suoi figli" (Luca 7:35).

A.I.


Cicely Saunders e la nascita delle cure palliative




di Francesco Agnoli

Il Governo ha approvato la legge sulle cure palliative. In dirittura d’arrivo c’è, forse, tra tante polemiche, anche la legge sul testamento biologico. Le due questioni, a dire la verità, si collegano bene, benché ciò non sia sufficientemente sottolineato.
La nostra tradizione è quella che ha dato origine all’istituzione dell’ospedale. E’ quella che ha insegnato all’umanità uno sguardo nuovo sulla sofferenza, sulla carne che patisce, come quella di Cristo nell’orto degli ulivi, durante la flagellazione e sulla croce. All’origine dei primi ospedali troviamo persone intente a lenire il dolore dei sofferenti: Elena, madre di Costantino, fondatrice di uno xenodochio a Costantinopoli; l’imperatrice Pulcheria, che si adoperò per costruire ospedali e ospizi per i pellegrini; Fabiola, penitente della stirpe dei Fabi, a cui san Girolamo attribuisce la fondazione del primo nosocomio in Roma verso al fine del IV secolo…Insomma tante donne caritatevoli, come la Veronica e le donne dei Vangeli.

All’origine delle cure palliative moderne troviamo un’altra donna, a noi contemporanea: Cicely Saunders. A Lei è dedicato un aureo libretto che in questi tempi potrebbe essere prezioso: “Vegliate con me” (EDB), con la prefazione di tre medici esperti in cure palliative. La Saunders è considerata universalmente la fondatrice dell’hospice moderno, il luogo in cui si praticano, appunto, le cure palliative, cioè “cure attive e globali che hanno per obiettivo il miglioramento della qualità di vita quando aumentare o salvaguardare la sua quantità non è più possibile o attuabile, e si propongono di intervenire sulle dimensioni fisiche, psicologiche, sociali e spirituali della sofferenza”; il luogo in cui vengono accolti coloro che sono affetti da una “patologia cronica e inguaribile”, da accompagnare verso la morte, quando è la vita a chiedere un perchè. Cicely Saunders nasce a Londra nel 1918, diventa infermiera durante la seconda guerra mondiale, e poi assistente sociale ed infine medico. La sua storia è quella di una donna che incontra il dolore, il proprio, a causa della separazione dei suoi genitori, e insieme anche quello dei suoi pazienti, in particolare di due polacchi, David Tasma ed Antoni Michniewicz. Da David Cicely riceve un lascito di 500 sterline e quasi un invito a intraprendere una strada difficile, ma esaltante. Da Antoni, “ex prigioniero di guerra polacco e cattolico fervente”, la spinta ideale per affrontare una vita accanto all’umanità più derelitta ed “inutile”.
L’incontro con lui avviene presso il St. Joseph hospice di Hackney, un ospizio gestito da suore della Carità irlandesi che lo hanno fondato nel 1905 per malati cronici, anziani indigenti e terminali. Proprio qui “si realizzò la svolta farmacologia che avrebbe permesso di cambiare il volto dell’assistenza ai morenti: con tatto, conquistandosi la totale fiducia delle suore, Cicely Saunders introdusse l’uso della somministrazione di morfina orale ogni quattro ore per il trattamento del dolore ottenendo un’entusiastica collaborazione da parte delle religiose” e ponendo le “basi della nostra moderna terapia del dolore e delle cure palliative”. Sino alla fondazione del primo hospice vero e proprio, il St. Christopher, nel 1967. Ma Cicely sa molto bene che il dolore fisico è solo una parte nel dolore di un uomo a cui è negata la speranza di guarire fisicamente; v’è anche un altro dolore, assai più inteso, spirituale, che diventa domanda sul perché di ciò che accade. E la domanda si fa a Qualcun altro: “può diventare preghiera oppure bestemmia”.

Può dunque bastare lenire il dolore fisico, se non si accompagna il paziente integralmente, nella totalità delle sue esigenze? No, perché per Cicely il paziente terminale deve anzitutto continuare a vivere la relazione, come elemento costitutivo della sua natura: relazione coi suoi cari, con chi lo assiste, con Dio. Siamo molto lontani dalla prospettiva eutanasica, per cui alla fine il malato rimane solo col proprio dolore, di fronte all’abisso dell’ignoto e della solitudine. “Dobbiamo ricordare, scriveva, che apparteniamo a una ben più grande comunione della Chiesa globale, all’intera comunione dei Santi, e, invero, all’intera comunità degli uomini”, e dobbiamo avere la “consapevolezza della presenza di Cristo sia nei pazienti che in coloro che li vegliano”. “Vegliate con me” è appunto la richiesta di Cristo sofferente nell’orto degli ulivi; il grido di chi patisce e cerca un aiuto: “la risposta cristiana al mistero della morte e della sofferenza non è una spiegazione, scrive Cicely, ma una presenza”. In un discorso pubblico sulla fede in Cristo che ha animato la sua vita, Cicely cercherà di spiegarla ricorrendo alla Bibbia ed al “Signore degli anelli”, del suo compatriota J. R. R.Tolkien. Ha sempre in testa, chiaramente, i suoi malati, alcuni dei quali, nel tempo del loro lento e inesorabile spegnersi, hanno trovato una fede granitica, la capacità di sperare, ed anche quella di arrendersi. La vita, afferma dunque Cicely, è come il viaggio di Abramo e di Mosè, che “non sapendo come e dove stavano andando divennero padri di tutti noi”. E’ come il cammino di Frodo, che obbedisce ad “una chiamata che comprende poco”, accompagnato dall’amore fedele dell’amico Sam, e che spera sino alla fine, contro ogni speranza, almeno di ‘restare in piedi dopo aver superato tutte le prove’ (Ef. 6, 13): scoprirà “che la via divina di liberazione giunge inaspettatamente e alla fine tutti risultano avere un compito”.

Il Foglio, 15 ottobre 2009



Ostinati alla meta

"Cure palliative e terapia del dolore, in­fatti non hanno a che fare con la dignità delle persone ed è proprio la sensazione di perdere questa dignità che persuade molti a chiedere di essere aiutati ad andarsene, possibilmente in modo quieto e indolore" (Carlo Flamigni, medico)