DI A LBERTO S IMONI
I l voto di domani sera sembra quasi una formalità. Il Senato ieri ha superato un altro ostacolo procedurale (il secondo, oggi toccherà al terzo e ultimo) sulla strada della riforma della sanità. Democratici compatti nel «sì», repubblicani pronti a sfruttare ogni piega del regolamento per ritardare l’approvazione della riforma. Domani sera (anche se i democratici vorrebbero forzare le tappe e arrivare al voto definitivo oggi), i democratici potranno festeggiare l’approvazione della riforma. E Obama ha detto che aspetterà quel «sì» prima di partire per le vacanze alle Hawaii. Alla certezza del passo storico del Senato, si somma però in queste ore l’incertezza dell’esito della battaglia finale. L’iter della riforma della sanità, una priorità per l’Amministrazione Obama che vuole estendere a 30 milioni di statunitensi la copertura assicurativa medica, è tutt’altro che concluso. Bisognerà armonizzare i due testi, quello licenziato dal- la Camera il 7 novembre e quello che la vigilia di Natale avrà semaforo verde dal Senato. La conferenza dei negoziatori si troverà all’inizio del nuovo anno per lavorare sui due testi. Obama vorrebbe firmare la riforma prima della fine di gennaio quando terrà il Discorso sullo stato dell’Unione. Ma gli scogli sono diversi. E i veti incrociati difficili da superare. Nancy Pelosi e Harry Reid, leader democratici alla Camera e Senato, hanno spazi di manovra ristrettissimi. Reid ha dovuto fare concessioni pesanti per imbarcare i riluttanti Ben Nelson e Joe Lieberman. Nel maxi emendamento da 383 pagine (approvato ieri) è stata eliminata ogni idea di «public option» così come è stato salvaguardato il linguaggio che impedisce l’erogazione di sussidi pubblici per le assicurazioni che contengono rimborsi per l’aborto. I liberal, pur di approvare la riforma, hanno ingoiato il boccone amaro. Ma i loro colleghi alla Camera non sono disposti a rinunciare all’intervento federale nel mercato assicurativo privato (l’opzione pubblica) e a togliere ogni vincolo per l’aborto. Già poche ore dopo l’approvazione dell’emendamento- Stupak che vietava ogni forma di sostegno pubblico all’interruzione di gravidanza, il forte plotone liberal alla Camera promise battaglia: «Non passerà nella versione definitiva il divieto all’aborto» era il refrain. I gruppi di interesse come Planned Parenthood da una parte e i gruppi pro-life, sostenuti dalla Chiesa, dall’altra si stanno già mobilitando. Se «public option» e aborto sono i due temi sotto i riflettori, l’altra grande differenza fra i testi al Senato e alla Camera riguarda i costi e come pagare la riforma. La bozza della Camera tassa i redditi più alti; il Senato invece impone imposte ai piani assicurativi più costosi. E ha cassato ogni idea di porre balzelli sui redditi sopra i 250mila dollari. Il Senato invece impone tasse sul reddito agli americani più benestanti iscritti al Medicare (l’assistenza per gli over-65). Vi sono poi altre sensibili differenza su questioni minori, come l’entità delle multe per le aziende che non offrono la copertura assicurativa ai dipendenti.
A complicare lo scenario e a ridurre ulteriormente gli spazi di manovra di Reid e Pelosi sono fra l’altro le maggioranza esigue con cui i democratici hanno approvato i rispettivi testi. Reid non può permettersi nessuna defezione. La Pelosi ha un margine ben poco superiore. E soprattutto è alla Camera che la lotta fra liberal e anti-abortisti è più accesa. Problema in più per la Pelosi potrebbe arrivare da Parker Griffith, il deputato democratico moderato dell’Alabama che ieri ha annunciato che diventerà repubblicano. Al netto significa un altro voto in fuga.
Domani il «sì» del Senato alla riforma. Ma gli occhi sono puntati su gennaio quando i rappresentanti dei rami del Congresso dovranno armonizzare due testi che hanno troppe differenze
Avvenire