DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

«Tommy, il mio angelo da lassù veglia anche sul suo papà in coma» Paola Onofri e la sua odissea illuminata dalla fede

LUCIA BELLASPIGA
T
ra i suoi migliori amici oggi ci sono tanti carabinieri, poliziotti e poliziot­te, qualche magistrato, persino l’eli­cotterista che per un mese intero sorvolò invano la zona... Gli stessi che quasi quat­tro anni fa, quando il piccolo Tommy sparì nel nulla la sera del 2 marzo 2006, strappa­to dal suo seggiolone durante la cena, la mi­sero sotto torchio, fecero di tutto per farla ca­dere in trappola, se la fecero 'amica' per carpire una sua confessione. «Erano con­vinti fossi stata io, anche perché da poco e­rano successi i fatti di Cogne... Ora invece a­mici lo sono davve­ro, non mi lasciano sola, ogni notte pas­sa una pattuglia o di carabinieri o di po­lizia, così, per darmi sicurezza». Paola O­nofri oggi vive nella stessa casa di allora, isolata in mezzo a u­na campagna in cui - diresti - non può accadere nulla, tra campi arati a perdi­ta d’occhio e qualche lontana cascina qua e là: il posto più tranquillo del mondo. Gli oc­chi gelidi di quattro telecamere fissate ai muri di casa scrutano la stradina deserta e un cartello avverte, 'area videosorvegliata'. Ma è tardi, ormai.
«Eravamo seduti a questo stesso tavolo per la cena – racconta la mamma di Tommy – io lì, mio marito Paolo di fronte, Sebastiano qua e Tommy accanto a me. Lo imboccavo e stavo per dargli il Tegretol, un farmaco an­tiepilettico, ma non feci in tempo: andò via la luce, Paolo aprì l’ingresso per scendere in cantina e rimbalzò all’interno, spinto indie­tro da due individui con il volto coperto. Nel buio fummo tutti e tre legati e costretti a ter­ra, così io non vidi che mi portavano via
Tommy. Lo capii dal grido di Paolo e di Se­bastiano, che aveva solo otto anni ma vole­va difendere il fratellino». La prima a liberarsi fu proprio Paola, che corse fuori nella notte gridando il nome di Tommy, poi, come per oscura premonizione, bisbigliò disperata nel buio della campagna rimasta in silenzio: «Fi­glio mio, ci rivedremo altrove».
Si saprà solo un mese dopo che si era trat­tato di un maldestro tentativo di sequestro lampo messo in atto da Mario Alessi e Sal­vatore Raimondi – due manovali che in quei giorni lavoravano nella casa degli Onofri –, con la complicità di Antonella Conserva, compagna dell’Alessi. Dilettanti del crimi­ne, incapaci anche di delinquere, credeva­no che Paolo Ono­fri, direttore di un ufficio postale, po­tesse prelevare dal­le casse della Posta i soldi del riscatto: chiusero il piccoli­no in uno zaino e scapparono su uno scooter, ma subito dopo, spaventati dalle luci blu di una volante e dal pianto del bimbo, lo ucci­sero a colpi di scarponi e nascosero il suo corpo sotto sterco e paglia.
«Gli inquirenti sospettavano di noi e li capi­sco, perché tutto in quel rapimento era a­nomalo – ricorda Paola in questo Natale, mentre addobba due alberi, uno per Seba­stiano e uno tutto per Tommy –: i rapitori non ci avevano sottratto i cellulari, inoltre mi avevano legata così male che io mi ero libe­rata subito, e avevano comprato una Sim Card per noi in modo da poterci contattare di nascosto ma poi se l’erano dimenticata a casa... Gli investigatori sventrarono divani e materassi, imbrattarono di luminol tutta ca­sa per cercare tracce di sangue, il seggiolo­ne, il lettino di Tommy e la mia borsetta so­no tuttora sequestrati chissà dove – alza le
spalle e sorride –. Un mese dopo al telegiornale sentimmo che lo ave­vano trovato, morto. A condurli al corpicino era stato l’Alessi. Mio ma­rito corse fuori impazzito gridando 'No, no!', io caddi svenuta».
Avrebbe potuto odiare. Odiare i gior­nalisti che l’avevano assediata, i po­liziotti che aspettavano solo un suo passo falso, l’ispettore Fontana «che si fingeva confidente per farmi par­lare e che oggi mi vuole un gran be­ne
», sorride di nuovo sgranando i due occhi azzurrissimi uguali a quelli di Tommy; e so­prattutto gli assassini, invece non lo ha mai fatto: «Io non so bene che cosa significhi o­diare, non so che cosa si provi, credo co­munque che si stia molto male, e che non serva a nulla se non a soffrire di più. Non ho ancora trovato la forza per perdonare, ma credo che sia già una bella cosa riuscire a non provare odio per chi ha fatto questo a un bambino come Tommy».
Tutta Italia in quei giorni si fermò per quel bimbo bellissimo e innocente che aveva so­lo un anno e mezzo e aveva imparato appe­na tre parole: mamma, papà e mommo, la medicina. I funerali furono di Stato e un’ala di folla lunga cinquanta chilometri lo ac­compagnò al piccolo cimitero di montagna. Da allora la casa di Paola non è riuscita a contenere gli angioletti inviati da tutta Ita­lia, le casse di lettere, i quadri, le preghiere e poesie che ancora le arrivano da centinaia di sconosciuti, tanto che ha chiesto in pre­stito un magazzino in cui conservarli. «Tut­ti ci lasciamo sempre incantare dalla sua bel­lezza, ma è la sua anima grande a doverci stupire – afferma sicura –. Il mio Tommy, un esserino tanto piccolo, ha saputo fare cose immense, a partire dalla grande fede che ha rafforzato in me. Io da quattro anni in qua ho imparato a vedere la vita nella sua verità, ho capito che è un bene prezioso e stupen­do ma che ce ne rendiamo conto solo quan­do una tragedia ce la porta via. Io prego tan­to,
prego insieme al mio angioletto e questo oggi mi spinge a vivere meglio di un tempo, a essere più umana, anche più ottimista. Non sarò mai abbastanza grata a Tommy per ciò che mi ha fatto capire e per essermi accanto ogni istante...».
I suoi ritmi continuano come un tempo, di­visa ancora tra il lavoro all’ufficio postale e i suoi doveri di mamma, accanto a Seba­stiano. «Spesso – spiega – mi chiedono co­me possa essere tanto serena, nessuno mi sentirà mai dire che Tommy non c’è, lui è qui con me, mi manca solo di abbracciarlo, toccarlo, ma parlo con lui... Non oso mai chiedergli sciocchezze o cose materiali, gli affido invece il dolore di tanta gente che si rivolge a me per avere aiuto. Gli dico sem­pre 'se puoi', non pretendo, ma le sue pre­ghiere arrivano in alto più presto delle mie e spesso lui ottiene. Quando vado in crisi, perché non sono di ferro, Tommy mi dice 'guarda che io sono qua e non ti mollo, mamma'».
C’è un altro bambino per cui Paola Onofri ha pianto e pregato, «si chiama Giuseppe e aveva solo sei anni quando in questa casa giocava con Tommy. L’ho rivisto nel proces­so all’Alessi e alla compagna, i suoi genito­ri. Costretto a deporre, raccontò che gli adulti gli avevano mentito: 'Mamma e papà mi a­vevano detto che andavano dal medico, in­vece erano a uccidere il mio amico Tomma­so'. Mi si strinse il cuore». Come le si strin­se, ma di speranza, tre mesi fa, al processo
di secondo grado, «quando l’Alessi, alzando un indice verso il cielo, ha gridato alla ex compagna 'abbiamo fatto una cosa im­monda, per noi il Paradiso non c’è'. In quel momento in cuor mio ho detto grazie a Tommy: la via del pentimento è ancora lun­ga, ma io prego perché avvenga, so che un sacerdote e una suora lo seguono e potreb­bero aiutarlo». Il 'miracolo' – invece – un altro, lo ha chie­sto spesso nell’ultimo anno a Tommy: «L’ho pregato di aiutare il suo papà, che è in stato vegetativo dall’agosto del 2008, quando il dolore gli ha crepato il cuore. Poi ho smes­so perché ho capito». Ha capito che «solo Dio sa qual è la verità, noi quando gli chie­diamo qualcosa ragioniamo con la nostra logica limitata. Secondo un’ottica umana u­na vita come quella di Paolo sembra non a­vere più un senso, ma che diritto abbiamo di giudicarla indegna? All’inizio i neurologi mi hanno spiegato che il suo cervello non e­siste più, che Paolo non sente nulla, eppure l’altro giorno, quando al telefono gli ho pas­sato Sebastiano che gli ha detto 'ciao, papi', sul suo viso si è stampata l’espressione del pianto. E quando sono tornata da lui dopo dieci giorni di influenza, era come se cer­casse di parlarmi. Io non chiederei mai un accanimento terapeutico, ma nemmeno di togliergli la vita, l’ho detto anche a un con­vegno in cui mi hanno invitata a parlare sul caso di Eluana, presente il medico di Welby. Anche Paolo, come Eluana, non è attaccato ad alcuna spina, la sua vita è autonoma. E ha molto da insegnare». Ad esempio che «noi ci azzuffiamo per avere sempre di più e in­vece basta così poco per vivere dignitosa­mente – sorride e alza le spalle –: ora a Pao­lo bastano una maglietta e un pannolone». Tutte cose che conosce da quando il suo bambino le è stato strappato nel più feroce dei modi, «perché il vero senso della vita lo scopri nella disgrazia, mentre sarebbe così facile pensarci prima e curarsi delle cose che valgono quando si è ancora in tempo».
Tra le tante lettere di Natale ne sceglie una. Chi l’ha scritta ha inviato in regalo una bici da bambino, comprata con una colletta. So­no stati i detenuti di un carcere: «Vai, Seba­stiano, corri tu anche per noi».

«Io non so bene che cosa significhi odiare, non so che cosa si provi, credo comunque si stia molto male, e che non serva a nulla se non a soffrire di più Non ho ancora trovato la forza per perdonare, ma credo che sia già una bella cosa riuscire a non provare odio»
Il tragico sequestro che tre anni fa nel Parmense sconvolse l’Italia ha segnato l’esistenza di una famiglia «All’inizio sospettavano di noi, oggi quegli investigatori sono diventati amici miei e di mio figlio Sebastiano»



«ADORATA MAMMA, VIVO NELL’ETERNITÀ»
È giunta anonima, ma scritta a nome di Tommy, la lettera più cara a Paola: «Adorata mamma, non piangere per me, ora vivo nell’eternità, felice, dove vi attendo per essere con voi felice eternamente – legge, seduta nella cucina da cui le portarono via il suo piccolo –. Il mio passaggio repentino sulla terra ha avuto un grande scopo, che ora a te è quasi impossibile da comprendere, e talvolta si giudica Dio perché permette che i piccoli fiori vengano strappati alla vita e uomini crudeli possano vivere nel mondo: sempre la lotta fra il bene e il male... Ricordati, mamma, che una sola preghiera può salvare un’anima e anche le anime di coloro che mi hanno tolto la vita.Vi chiedo l’impossibile per ora, ma col tempo, un tempo che fugge a passi da gigante, forse ci riuscirete. Cercate di non maledire e di pregare per loro. Dio non vuole perdere nessuno...». Parole che all’inizio Paola ha fatto fatica ad accettare, ma che di giorno in giorno le sono «sempre più chiare», spiega ora che ha anche incontrato l’autore della lettera, un anziano francescano, padre Lorenzo, oggi sua guida spirituale, cui Tommy l’ha 'dettata'. «Come vedi, mamma, e anche tu papà, vi parlo con un linguaggio che è quasi pazzia agli occhi umani, quel linguaggio di Gesù che ama all’infinito ogni uomo che passa sulla terra... Coraggio, miei cari. Ero un bimbo innocente con la sapienza dei bimbi, ora sono un angelo, un piccolo martire, un figlio di Dio che vorrebbe che tutti si salvassero. Un bacio a te, mia adorata mamma». (
L.B.)




UN’ASSOCIAZIONE ORA FA DEL BENE NEL SUO NOME «Secondo una logica umana, la vita di Paolo, ora in stato vegetativo, sembra non avere alcun senso. Invece ha davvero molto da insegnare»


«Percepisco uno stipendio inferiore a 2.000 euro al mese e mia moglie, impiegata presso l’ufficio postale, poco più di 1.000 euro. Le mie condizioni non sono tali da lasciar supporre che chi mi ha sequestrato il bambino possa chiedere un riscatto...». Così deponeva Paolo Onofri la sera del 2 marzo 2006: fin dal primo momento apparivano misteriose le motivazioni e le dinamiche del gesto. Poco prima delle 20 due uomini col volto coperto, uno dal casco e l’altro dal passamontagna, avevano tolto la luce e fatto irruzione in casa, mentre la famiglia cenava. Legati i coniugi Onofri e il piccolo Sebastiano (8 anni), avevano portato via soltanto Tommy, 17 mesi, facendo perdere le tracce. Si trattava di Mario Alessi, muratore che da qualche giorno eseguiva lavori nella casa degli Onofri, e del collega Salvatore Raimondi. Terza complice la compagna dell’Alessi, Antonella Conserva. Le ricerche del piccolo sono durate un mese, ma senza risultati, mentre tutta Italia piombava nello sconcerto, prendendo a cuore la vicenda del bimbo, che tra l’altro necessitava urgentemente di farmaci nel caso di crisi epilettiche. Sarà l’Alessi stesso il primo aprile 2006 a spegnere le ultime speranze, ammettendo la morte di Tommy e conducendo gli inquirenti nel punto in cui era stato abbandonato, a pochi chilometri da casa: il bimbo era stato ucciso subito dopo il rapimento, perché piangeva. I tre scontano in carcere la pena cui sono stati condannati: ergastolo all’Alessi, 30 anni alla Conserva, 20 a Raimondi. Dal dolore della famiglia Onofri è nata un’associazione che si occupa di importanti opere di solidarietà nel nome di Tommy (). ( L.B.)

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