DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

È il clima il nuovo oppio dei popoli

Una nuova superstizione pare pronta a capitalizzare come mai nessuna sulla credulità del mondo. Il riscaldamento globale
di Alberto Mingardi
Tratto da Il Riformista del 9 dicembre 2009
Tramite il sito dell'Istituto Bruno Leoni

Nel suo grande libro sul potere, Guglielmo Ferrero nota che “la religione può essere un elemento potente di propaganda. Il governo si è laicizzato solo in una piccola parte dell’umanità e appena da qualche generazione. Dappertutto ha sempre cercato di fare avallare dalla divinità i suoi titoli sempre sospetti e contestabili”. Persino il cristianesimo, la più egalitaria delle religioni, per “tanti secoli ha fatto suonare le campane in onore e gloria degli imperatori, re, principi, dogi, duchi”.

Per quanto forti e radicate possano essere le mitologie politiche della modernità (il “governo del popolo, dal popolo, per il popolo”), il diritto divino dei Parlamenti è uno sbiadito simulacro del diritto divino dei Re. O almeno lo era fino ad oggi, visto che finalmente una nuova superstizione pare pronta a capitalizzare come mai nessuna sulla credulità del mondo. Il riscaldamento globale.

La scena per la conferenza di Copenhagen è stata ben preparata. La cura che ci si è messa è la stessa dei grandi allestimenti di Leni Riefenstahl, stavolta il regista è il tedesco di Stoccarda Ronald Emmerich, rispettabile signore che ha sbancato i botteghini con “The Day After Tomorrow” e “2012”. C’è un’iconografia del riscaldamento globale, rappresentata al meglio da “Please help the world”, lo spottone ONU che ha aperto la conferenza di Copenhagen. Una bambina si risveglia in un mondo “devastato” dall'effetto serra, un po’ deserto squassato dai terremoti e un po’ mare procelloso: diciamo a metà fra Arrakis e Caladan, i due pianeti usciti dalla fantasia di Frank Herbert. Sono immagini che fanno da sfondo alla campagna “Raise your voice”, fai sentire la tua voce, pensata per mandare ai governi i messaggi del popolo della rete. Fotogrammi che potremmo aver visto cento volte, negli ultimi anni. Si toccano le corde della paura, si gioca con gli effetti speciali, si scattano le istantanee di una catastrofe artefatta. Perché? Per creare paura, per dare un senso d’urgenza, per sostenere un afflato di missione. La Madonna climatica piange le lacrime del nostro sangue.

L’obiettivo è chiaro. Escludere il global warming da qualsiasi discussione razionale, sottrarlo ad ogni analisi costi-benefici. La salvezza non ha prezzo.

Si dirà: qual è l’alternativa? Sappiamo che la parola chiave dell’evoluzione è “adattamento”. Ecco, è la stessa eventualità dell’adattamento, della nostra capacità di far fronte a situazioni mutate, che è esclusa dal “dibattito” di questi giorni, che dire dibattito proprio non si può.

Sfogliare i giornali di ieri era impressionante. A parte Corrado Clini intervistato dal "Corriere della sera", non c’erano stecche nel coro. Il confronto fra costi e benefici attesi è disprezzato, svilito, evitato: roba da ragiunatt. Nicholas Stern raddoppia i numeri dell’IPCC, parlando di un aumento di cinque gradi in cent’anni: e nonostante la sua “Stern Review” sia stata fatta a pezzettini dalla comunità degli studi, i grandi giornali fanno a gara a chi ne intercetta le opinioni. Gli imprenditori sgranano il rosario dello “sviluppo sostenibile” - cantilena che prelude ad un'abbondante irrorazione di pubblici sussidi. Dilagano le conversioni: il capo della delegazione africana a Copenhagen, il premier etiope Zenawi, distilla sulla “Stampa” riflessioni apparentemente ponderate, in cui indica tutto il suo continente come “prima” vittima del global warming, per giunta senza “aver praticamente contribuito al danno”. Ha ragione per i motivi sbagliati: l’esito più probabile del vertice di Copenhagen è una serie di misure, a cominciare dai dazi europei sulle merci prodotte con notevoli emissioni di CO2, che costituiranno una tassa assassina sullo sviluppo dei Paesi più poveri. Ridurre le emissioni in economie che faticosamente stanno raggiungendo la rivoluzione industriale significa aumentare in modo spropositato i costi delle imprese, rallentare il treno dello sviluppo, strangolare nella culla la possibilità di uscire dalla povertà.

Quel che è più paradossale, la versione dominante si accredita come donchisciottesca, sopravvissuta a fatica alle pressioni delle “lobby dell’energia”. I manifestanti che si preparano con meticolosa spregiudicatezza a menar le mani in suo nome, ennesimo caso di folla che urla contro il “sistema” per rivendicare con passione il suo diritto a non dissentire dal “sistema”, pensano di essere fortunosamente sopravvissuti alla trebbiatrice delle multinazionali. Se non fosse che ci sono tanti e tali interessi d’altro segno: dalle merchant bank che pensano con voluttà agli arbitraggi del “cap and trade” alla lobby delle rinnovabili.

Ma più ancora degli interessi qui conta qualcosa d’altro. Perché il bisogno profondo di improntare decisioni di governo a quella che è, né più né meno, una fede, è solo un altro sintomo della devastante crisi di classe dirigente che attanaglia l’occidente. A fine Ottocento Gustave Le Bon, lo psicologo delle folle, spiegava che “il socialismo attuale è più uno stato d’animo che una dottrina. Ciò che lo rende pericoloso non sono i cambiamenti, del resto minuscoli, prodotti nell’animo popolare, bensì le modificazioni profonde imposte alla mentalità della classe dirigente. La borghesia d’oggi non è più sicura dei suoi diritti; non è sicura di nulla e non sa difendere niente”. Innanzi ai nuovi predicatori, proprio quelli che dovrebbero incarnare la parte più riflessiva ed informata dell’opinione pubblica occidentale si genuflettono in buon ordine. E’ il clima, il nuovo oppio dei popoli.