DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Fantavirus. L’influenza A ha fatto molti meno danni di quella stagionale e quasi nessuno si è vaccinato

No, dico, 23 milioni di dosi di vaccino
acquistate già da quando la loro
produzione non era ancora alle viste,
delibere di spesa che hanno travolto
procedure, standard e controlli, medici
sottoposti a una gogna pubblica affinché
non cadessero nel vecchio vizio di
chiamare tutti alla vaccinazione evitando
loro di vaccinarsi, mobilitazione
generale scientifico-culturale per
tranquillizzare circa le virtù immuni da
difetti non solo del vaccino in questione
ma dei vaccini in generale, trasmissioni e
spot pubblicitari, insomma niente di
niente lasciato al caso: bisogna dare atto
al viceministro alla salute Fazio di
essersi speso, e molto, sul fronte della
resistenza umana e governativa
all’influenza suina A/N1H1. E i risultati?
Neppure a parlarne. Un flop di
dimensioni pantagrueliche. Mezzo
milione di vaccinati al momento, quando
la punta di maggiore diffusività
dell’influenza è bell’e passata. Vale a
dire niente. Se si fosse dovuta respingere
l’influenza a suon di vaccino anti
A/N1H1, e se l’influenza in questione
fosse stata anche soltanto pari a una
normale influenza stagionale, ora
saremmo qui a valutare un disastro di
formidabili proporzioni. Mi spiego. Si
può dire con assoluta certezza, a questo
punto, dopo sette mesi di influenza suina,
e dopo che quest’ultima è entrata in fase
recessiva, che mai – dicasi mai – si è vista
un’influenza di un così basso, quasi
inesistente, livello di letalità. Su oltre tre
milioni di influenzati i morti sono stati
95, con un tasso di letalità pari a tre morti
ogni centomila influenzati. Vale la pena
segnalare che, essendo pari a due morti
ogni mille ammalati il tasso di letalità di
una comune influenza stagionale, a
parità di letalità i morti avrebbero
dovuto essere oltre seimilacento, circa
settanta volte quelli che si sono
effettivamente verificati. Non basta: i
casi di morti in cui la causa prevalente è
stata l’influenza A si contano sulle dita di
una mano, avendo in tutti gli altri casi la
suddetta influenza agito soltanto da
causa intermedia o finale di morti dovute
a tutt’altre e ben altrimenti decisive
cause. Dunque l’influenza A ha agito su
una popolazione del tutto priva di
resistenze immunitarie e non vaccinata,
quale quella italiana, ma è passata
lasciando segni minimi. Non è una
riflessione, è una constatazione. Se ne
deduce, mi pare ovvio, che il vaccino non
ha comportato né comporterà pressoché
alcun beneficio sostanziale. A voler
essere cattivi, si potrebbe perfino
supporre che negli ottimi risultati, in
termini di resistenza all’influenza suina,
possa perfino entrarci il “non vaccino”
piuttosto che il “vaccino”. Ma andiamo
avanti. Perché c’è qualcosa da dire pure
del numero degli infettati dal virus
A/N1H1. Leggo, dal bollettino della
sorveglianza virologica, che durante
l’ultima settimana dai laboratori
afferenti alla rete Influnet di cui si
avvale il ministero “sono stati raccolti e
analizzati 2.550 campioni, di cui 1.955
sono risultati positivi al virus
influenzale. In particolare, 1.933 sono
risultati appartenenti al ceppo A/H1N1”.
Ergo, 622 campioni su 2.550, pari a un
campione su quattro, non sono risultati
positivi al suddetto virus. Ma una
circolare del ministero della Salute del
14 ottobre scorso, avente per oggetto la
“Sorveglianza della nuova influenza
A/N1H1”, afferma che, pur essendo
passati dalla fine di luglio ad una
“sorveglianza sindromica”, si ribadisce
“la necessità di una conferma di
laboratorio in tutti quei casi che
presentassero un quadro clinico
impegnativo tale da richiedere il
ricovero ospedaliero”. Chiarendo che
“gli accertamenti di laboratorio sul virus
pandemico sono limitati, al momento, ai
casi gravi”. Insomma: non risulta positivo
al virus A/N1H1 un caso su quattro – non
già di tutti gli influenzati o di un
campione casuale degli influenzati –
bensì dei soli casi gravi e talmente
impegnativi da richiedere un ricovero
ospedaliero. Ma se non risultano positivi
al virus ben venticinque su cento di
questi casi così impegnativi, a quanto
ammonterà mai, allora, la proporzione di
non positivi negli ordinari casi
d’influenza diagnosticati come tali
soltanto in via “sindromica” da medici e
pediatri di base e che si sono risolti con
un paio di giorni di febbre e mal di gola?
Vogliamo fare il cinquanta per cento, e
magari perfino di più? E, del resto, la
grande variabilità regionale
dell’incidenza dell’influenza – che va dal
minimo della Toscana (5,5 casi per mille)
al massimo delle Marche (37 casi su
mille: vedi caso due regioni confinanti –
sembra testimoniare appunto di una
influenza diagnosticata senza risparmio
e alquanto all’ingrosso. Insomma, non è
affatto irrealistico pensare, di fronte a
queste cifre, che l’allarme influenza
suina abbia fatto aggio sulla reale
diffusione di questa influenza inducendo
a diagnosticare casi d’influenza anche
dove non c’era alcunché da
diagnosticare, tanto per tenersi sul
sicuro. Conclusione finale: riescono i
lettori a immaginarsi, se sono tanto
ballerine e ingannevoli le cifre
dell’epidemia in un paese come il nostro,
con un sistema di medici sentinella e una
rete di laboratori d’alto livello, quali
possono essere i margini di errore e
approssimazione delle cifre globali
dell’A/N1H1 nel mondo? Francamente,
io no. Ma una cosa è certa più del sole
che sorge ogni mattina: tutte quelle cifre
sono gonfiate alla grande.

Roberto Volpi
Il Foglio 3 dic. 2009