Milano. Ci sarà un economista a Copenaghen?
Se ci fosse, probabilmente non
sarebbe a proprio agio, di fronte ai toni
ora apocalittici, ora messianici di questi
giorni. Non sarebbe colpito favorevolmente
dallo spot con la bambina che sogna un
mondo a metà strada tra il pianeta Tatooine
e l’era post atomica di Mad Max. Preferirebbe
le vecchie, noiose, rassicuranti cifre:
i numeri che alimentano i suoi modelli
e che dai suoi modelli sono prodotti.
Quando si parla di clima, gli economisti ci
tengono a precisare che di scienza non si
occupano. Prendono per buone le previsioni
degli scienziati, e nel dubbio fanno i
pessimisti. Non sempre, per la verità: sul
blog Noisefromamerika.org, Aldo Rustichini
(University of Minnesota) ha passato
al setaccio le evidenze sul riscaldamento.
L’ex capo economista dell’Ocse, David
Henderson, ha sostenuto su “World Economics”
che è sbagliato ignorare il dibattito
scientifico, perché si finisce per sottovalutare
le incertezze: un tema sottolineato
anche da Vaclav Klaus, economista più
che politico (“Pianeta blu, non verde”,
IBL Libri). E ieri, sul Messaggero, Alberto
Clò ha invitato a non considerare l’ambiente
una “variabile indipendente”, come
si faceva una volta per i salari.
Queste possono apparire posizioni
estreme. Estreme sono pure le tesi di
George Reisman: poiché il riscaldamento
globale è (al massimo) una colpa collettiva
dell’umanità, va considerato alla stregua
di “un atto della natura” (“Perché l’ambientalismo
fa male all’ambiente”, Rubbettino).
All’opposto, stanno quelli per cui
l’anidride carbonica è un gas satanico. Ma
è nel mezzo che bisogna guardare. La maggior
parte degli studiosi sono convinti che
esista un problema climatico e che si possa
fare qualcosa per affrontarlo. Solo che
il “consenso” guarda con rassegnata disapprovazione
ai negoziati internazionali.
Su una cosa tutti concordano: tagliare le
all’inemissioni
coi vecchi criteri del “command
and control”, come vorrebbe fare in America
l’Environmental Protection Agency,
non è un’opzione, in punto di efficienza.
Quanto al resto, il partito degli economisti
studia tre variabili: i costi del riscaldamento
globale, e i benefici presunti di
un minore riscaldamento; i costi dell’abbattimento
della CO2; gli effetti di equità
ed efficienza. E’ opinione diffusa che la soluzione
migliore, per ridurre le emissioni
senza danneggiare la crescita economica,
sia una carbon tax il cui gettito sia utilizzato
per ridurre altre imposte più distorsive,
in modo da contenere la pressione fiscale
Lo statistico canadese Ross McKitrick
propone di agganciare la carbon tax
alle temperature misurate, in modo da agganciare
il clima reale agli sforzi per salvarlo.
I politici, invece, preferiscono gli
schemi di “cap and trade”, nei quali viene
fissato un tetto alle emissioni, lasciando
alle imprese la possibilità di scambiare
dei permessi e allocare le riduzioni dove
costa di meno. Sistemi più facilmente
orientabili. Il problema del cap and trade
è duplice: da un lato la scarsa trasparenza,
che finisce per drenare risorse dall’economia
reale verso intermediari finanziari
resi necessari da un’architettura tutta politica.
Dall’altro, la volatilità dei prezzi della
CO2 (in Europa, da quasi zero fino a 30
euro e ritorno) disincentiva gli investimenti.
Per questo, fin dal seminale lavoro
di Martin Weitzman del 1974, è accettato
che, in un contesto di incertezza sui costi
marginali, uno strumento di prezzo (la carbon
tax) viene preferito a uno strumento
di quantità (il cap and trade) se la curva
dei costi marginali è relativamente più ripida
di quella dei benefici marginali. E’ il
caso del global warming: limitare le emissioni
costa molto, ma ha un beneficio minimo,
perché il riscaldamento dipende
dallo stock di CO2 accumulato in atmosfera,
non dal flusso annuale. Ugualmente
importante è stabilire gli obiettivi corretti:
fissare l’asticella troppo in basso può essere
insufficiente, ma fissarla troppo in alto
è peggio. William Nordhaus, il “decano”
tra gli economisti del clima, suggerisce di
cominciare con una blanda carbon tax (7dollari per tonnellata di CO2) e farla crescere
gradualmente. Sarebbe così possibile
raggiungere il miglior equilibrio tra i
costi del riscaldamento globale (inevitabili)
e quelli delle politiche per contrastarlo.
Al contrario, politiche troppo ambiziose
– come quella che Nordhaus definisce
“politica Gore” – potrebbero avere impatti
devastanti: il costo netto cumulato potrebbe
arrivare a ventunomila miliardi di
dollari (“A Question of Balance”, Yale
University Press). Viceversa, il “business
as usual” (cioè “non far nulla”) ha un costo
ambientale superiore, ma non di molto, rispetto
all’impatto economico della “politica
ottima”: con la differenza che l’uno è incerto,
l’altra ha costi economici certi nell’immediato
e benefici ambientali incerti
nel futuro. Fare di più non è la stessa cosa
che fare meglio. Del resto, i difensori del
cap and trade privilegiano gli argomenti
politici. Contro la carbon tax, Paul Krugman
ha scritto che “è distruttivo denunciare
un programma che possiamo avere
[il cap and trade]… a favore di qualcosa
che forse non può materializzarsi in tempo
per evitare il disastro”. Una sorta di
elogio della ragion politica a scapito della
purezza intellettuale. Eppure, la maggior
parte degli economisti resta convinta del
contrario, come dimostra l’impressionante
lista raccolta da Greg Mankiw di Harvard
sul suo blog sotto l’ironico ombrello
del “Pigou Club” (dal nome dell’economista
che per primo ha proposto le tasse ambientali
per internalizzare i costi esterni).
E pesa l’ammonimento di Dieter Helm, voce
molto ascoltata a Bruxelles e aperto sostenitore
dell’urgenza di “fare qualcosa”,
che ha avvertito, dall’autorevole pulpito
della Oxford Review of Economic Policy:
il riscaldamento globale “sarà probabilmente
una delle più grandi fonti di rendite
economiche” della storia. Se un economista
fosse a Copenaghen, direbbe queste
cose. Ma non lo ascolterebbe nessuno.
Il Foglio 9 dic. 2009