DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Il “parroco”Tettamanzi e le due chiese di Milano secondo il prof. Prodi

diocesi
di Carlo e persino di Carlo Maria. Non
solo per la sua dimensione territoriale,
non solo per le sue oltre mille parrocchie,
è da sempre una delle più importanti della
chiesa cattolica. La sua secolare prerogrativa
di autonomia, la distinzione “inter
pares”, il peso specifico attribuito agli interventi
degli arcivescovi di Milano affondano
nella storia. Religiosa e civile, antica
e recente. Ricca anche negli ultimi decenni
di figure di arcivescovi-uomini pubblici
che hanno segnato il rapporto tra la chiesa
e la scena pubblica e, anche se in modo
sempre mediato, la vita politica. Basti pensare
a Giovanni Battista Montini, il secondo
cardinale di Milano dopo Pio XI (e terzo
lombardo) a diventare Papa nel corso
del ’900. L’ultimo ad avere plasmato con un
tratto ambrosiano la fisionomia della chiesa
universale. Dopo di lui anche Carlo Maria
Martini è stato – ed è ancora, da “emerito”
molto presenzialista – una figura ecclesiale
di grande rilevanza pubblica, nonché
bandiera costantemente e polemicamente
contrapposta al Papa di Roma. Il
“Papa rosso” non sarebbe stato tale, se fosse
stato seduto su un’altra e meno prestigiosa
cattedra. Anche se, come ebbe a ricordare
il cardinale “ambrosiano” di Bologna
Giacomo Biffi, con Martini si interruppe
una tradizione teologico-ecclesialepastorale
ambrosiana che durava da un
secolo. Oggi dunque, fatta la tara allo stile,
sentire il leghista cattolico Roberto Calderoli
affermare, del primo arcivescovo di
Milano a provenire dal clero diocesano
dai tempi di Giovanni Colombo, che “Tettamanzi
con il suo territorio non c’entra
proprio nulla. Sarebbe come mettere un
prete mafioso in Sicilia” suona strano. Ma
è anche il segnale delle sensibilità profondamente
diverse che oggi si agitano dentro
la diocesi lombarda, nel suo “popolo”.
Per comprendere che cosa possa essere
accaduto tra la chiesa ambrosiana e la sua
specificità, giriamo l’interrogativo allo storico
Paolo Prodi, professore emerito di
Storia moderna a Bologna, che ha dedicato
molta parte della sua ricerca scientifica
proprio a indagare le strutture del potere
religioso e del potere politico, e i loro rapporti
intrecciati, nella storia dell’occidente.
“Ci vuole la massima cautela a non usare
coordinate politiche in tutto questo”,
spiega subito al telefono. Allo stesso tempo,
“è indubbio che la
chiesa ambrosiana abbia
nella sua storia una
specificità ecclesiale e
civile che arriva fino a
oggi. Si tratta innanzitutto
di una forte penetrazione
della presenza pastorale,
che dal cardinale
Borromeo arriva fino alla
chiesa del Manzoni, se vogliamo,
e del cardinal Ferrari.
Ciò unito a un’autonomia
che affonda le radici
ovviamente nel rito ambrosiano:
non dimentichiamo che
all’epoca della riforma tridentina
è Carlo Borromeo a difendere
con forza la liturgia
ambrosiana”. A parte la
ricchezza del rito, dove affondano
le radici di questa specificità?
“Direi soprattutto nell’essersi
strutturata, nei secoli, in quella
che chiamerei una ‘chiesa di popolo’ se
non suonasse retorico. Vale a dire una
chiesa cementata sulla rete delle parrocchie.
Questa base nei secoli successivi è
diventata attenzione sociale, caritativa,
creando un legame fortissimo tra
popolo e clero”. C’è un’aspetto che
secondo Prodi evoca tutto questo:
“E’ il carattere di ‘territorialità’ che
sancisce l’autonomia della chiesa di Milano,
e che proprio san Carlo difende
nel suo programma attuativo della
riforma, ribadendo indipendenza
rispetto al centralismo del governo
romano. In altre diocesi accade
molto meno”.
Per venire ai tempi recenti, si
può dire che questa capacità di rilevanza
pubblica si manifesta con
forza con il cardinale Montini?
“Bisogna avere cautela su certe
semplificazioni. Ma è vero che è
stato il ‘cardinale degli operai’,
di una ripresa della tradizione
sociale, anche se non
va enfatizzato il suo ruolo
nella nascita del centrosinistra:
da questo punto di vista fu molto
più ‘politico’ Lercaro. Ma è vero che a
Milano fu interprete di un mutamento e
che poi, con la ‘Populorum progressio’ e
altro, ha inserito nella chiesa universale
una chiara impronta ambrosiana”. E oggi,
dopo il periodo di Martini, “il ruolo di Tettamanzi
sia innanzitutto un riallacciare
quella tradizione ambrosiana, pastorale e
sociale. Io lo conosco poco, ma mi pare che
lo faccia in modo efficace. Non è un intellettuale
come lo erano Montini e Martini,
non è un leader naturale, mi sembra soprattutto
pastore un ‘grande parroco’ ambrosiano”.
Da qui, forse, una minore brillantezza
pubblica. Ma secondo Prodi bisogna guardare
più in modo storico, e più in profondità:
“Negli ultimi quarant’anni a Milano
c’è stata soprattutto un’esperienza come
quella di Comunione e liberazione, come
del resto altrove sono cresciuti altri movimenti.
Si tratta, soprattutto rispetto alla
specificità ambrosiana, dell’emergere di
una chiesa che potremmo dire definita da
una ‘extraterritorialità’. Certo, don Giussani
è ovviamente un sacerdote profondamente
ambrosiano, eppure quello che si è
sviluppato è una dicotomia di fatto con la
chiesa locale, la parrocchia, la diocesi. Lo
dico, così come credo che la cosa più importante
avvenuta nella chiesa negli ultimi
vent’anni sia il conferimento all’Opus
Dei di una sorta di status di ‘diocesi non
territoriale”. Oggi insomma quella che a
molti appare una debolezza di ruolo pubblico
del successore di Ambrogio e della
sua diocesi-stato, è secondo Prodi frutto di
una dicotomia, come se ci fossero due
chiese, due sensibilità. “E’ un fenomeno
che esiste ovunque, ma in una realtà così
strutturata si vede di più”. Questione di
lungo periodo, più che di personalità episcopale,
dunque: “Vedo piuttosto un’analogia
con gli ordini mendicanti nel medioevo.
La chiesa attraverso questi movimenti
seppe indirizzare il bisogno di riforma.
La soluzione fu creare un clero regolare,
accanto a quello diocesano, secolare.
Fu il modo di riportare nell’istituzione gli
elementi di rottura. Ma non a caso Borromeo
fondò gli Oblati di San Carlo: un ordine
regolare, che però dipendeva direttamente
dal vescovo. Credo che la chiesa di
Milano debba oggi ricomporre ancora questa
unità”.

Maurizio Crippa

Il Foglio 9 dic. 2009