DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Le anime di Milano


di Michele Brambilla
in “La Stampa” dell'8 dicembre 2009

L’arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi, è ormai diventato «un caso». Ben prima che La
Padania, come ha fatto l’altro ieri, ponesse retoricamente una domanda («Cardinale o imam?») la
cui risposta veniva data per scontata. E ben prima dell’attacco sferrato da Calderoli, che su La
Repubblica ha detto che Tettamanzi sta a Milano come un sacerdote mafioso sta alla Sicilia.
Parole durissime, che sono solo l’eco di una polemica avviata da tempo dalla Lega, la quale accusa
l’arcivescovo di Milano di essere sdraiato, in tema di immigrazione, su posizioni «politically
correct». Ma anche una parte non insignificante del mondo cattolico mostra diffidenza verso
Tettamanzi, sospettato di essere troppo «di sinistra»; e più di una volta accusato di parlare più di
politica che di Gesù Cristo.
Quanto c’è di vero in questa diceria? Preliminarmente andrebbe precisato che quando si parla di
Chiesa le categorie «destra» e «sinistra» sono sempre fuori luogo. Il Vangelo sfugge totalmente a
questi schemi. Ma, anche tenendo conto che ciascun sacerdote o vescovo declina poi il messaggio
cristiano secondo una propria sensibilità, è utile andare a verificare su che cosa siano fondate certe
convinzioni. Stiamo agli ultimi fatti. L’attacco de La Padania e di Calderoli parte dal tradizionale
«Discorso alla città» che Tettamanzi ha pronunciato il 4 dicembre. Leggiamo su una cronaca che
l’arcivescovo «ha bacchettato la giunta Moratti e le istituzioni sui temi della moralità e
dell’accoglienza». Il solito attacco al centrodestra, dunque. Da qui il plauso della sinistra e la
reazione durissima della Lega. Ma è vero che Tettamanzi ha «bacchettato» la giunta Moratti? Chi
legge il testo integrale del discorso non trova nulla di tutto questo. C’è sì l’esortazione a essere più
solidali. Ma è rivolta a tutta la città, Chiesa compresa: «È richiesto un grande investimento
educativo da parte di tutti: istituzioni, società civile, comunità cristiana». Secondo esempio.
Calderoli si chiede: «Perché Tettamanzi non è mai intervenuto in difesa del crocifisso? Perché parla
solo dei rom?». Domande che si fissano nell’opinione comune di tutti, destra e sinistra, generando
un giudizio di riprovazione o di approvazione. Ma hanno un senso? Tettamanzi ha parlato in difesa
della presenza dei crocifissi tre volte: il 3 novembre, un’ora dopo la sentenza europea, dettando una
dichiarazione alle agenzie; il 7 novembre con un intervento su Avvenire; e infine proprio nel
contestato «Discorso alla città», e proprio nelle conclusioni: «Conserviamo la presenza del
crocifisso, simbolo cristiano ma anche simbolo profondamente umano».
E ancora: è vero che Tettamanzi parla «più di politica che di Gesù Cristo»? L’omelia pronunciata
ieri, festa del patrono di Milano Sant’Ambrogio, comincia proprio con «l’invito di guardare a
Cristo» ed è tutta una riflessione sul Vangelo; quanto al «Discorso alla città», che pure è da sempre
un discorso civile, si conclude con il paragrafo intitolato «Guardiamo a Cristo». È vero insomma
che è un vescovo «di sinistra»? Se vale questa schematizzazione, non si comprenderebbe come nel
pur breve «Discorso alla città» ci sono sette citazioni di papa Ratzinger, che è considerato «di
destra».
Che cosa insegna dunque il «caso Tettamanzi»? Da una parte, che troppe polemiche sono fondate su
leggende metropolitane. In questo, anche noi giornalisti abbiamo le nostre responsabilità, visto che
spesso ci limitiamo a estrapolare, di un episodio o di un fatto, quel dettaglio che «fa più titolo».
Ma dall’altra parte dimostra una tendenza a semplificare, anzi a distorcere la realtà in modo da farla
rientrare nello schema che più ci fa comodo. Per stare al «caso Tettamanzi», è vero che la Lega
attacca strumentalmente; ma è anche vero, come ha ricordato ieri Formigoni, che c’è pure chi
strumentalmente difende, visto che la «libertà di espressione» rivendicata per la Chiesa quando
parla di immigrazione non è altrettanto rivendicata quando la stessa Chiesa parla, ad esempio, di
aborto, eutanasia e famiglia.
Il «caso Tettamanzi» è dunque emblematico di un Paese che vorrebbe dividere tutti i suoi cittadini
in opposte curve di ultrà; di un Paese che si vorrebbe spaccato in due parti impossibilitate a
dialogare fra loro. La realtà invece è molto più complessa. E proprio ieri il presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano, rievocando la strage di piazza Fontana, ha messo in guardia dalle
esasperazioni polemiche che possono avvelenare la vita politica: «Una lezione che non dobbiamo
mai dimenticare, ci insegna che dobbiamo evitare che in Italia i contrasti e le legittime divergenze
possano sfociare in tensioni tali da minacciare la vita civile».
E sempre ieri, a Milano, sono stati assegnati i tradizionali «Ambrogini d’oro», le civiche
benemerenze. Se si scorrono i nomi dei premiati, si vede - ad esempio - che c’è Belpietro ma c’è
anche, alla memoria, Camilla Cederna; che ci sono i vigili che danno la caccia ai clandestini ma
anche il responsabile di una comunità islamica; banalizzando, ci sono perfino un milanista, Maldini,
e un interista, Bergomi. Si potrà osservare che anche per gli Ambrogini vince il manuale Cencelli.
Può darsi. Ma chi volesse guardare il fenomeno con occhi più profondi scoprirebbe soprattutto che
la città di Milano ha semplicemente preso atto delle sue tante anime diverse. E sono anime che non
di rado convivono nella stessa persona. Anime che, nella vita concreta di tutti i giorni, collaborano
fra loro molto più di quanto vogliano far credere coloro che hanno interesse a dare a tutti etichette
tranchant, e a dipingere l’Italia come un Paese spaccato da un crepaccio invalicabile.