DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

L’INTELLETTO SANTO DELLA WEIL. E’ lei il più grande filosofo del Novecento, fraintesa perché scriveva come in presenza del giudizio di Dio

di Alfonso Berardinelli
Qualche mese fa un giovane critico
letterario, piuttosto polemico con
le mie opinioni sia politiche che culturali
(secondo lui indecifrabili, se
non aberranti), mi ha chiesto in conclusione
qual è, secondo me, il maggiore
filosofo del Novecento. Non ho
dovuto riflettere molto per rispondere:
Simone Weil. Questa risposta, pur
essendo accolta come un’ulteriore
provocazione, sembrava anche offrire
finalmente un chiarimento: perché
certo Simone Weil la si sente nominare,
ma non si sa mai come prenderla,
non rimanda alle culture dominanti
nel Novecento o le respinge, tiene insieme,
non per moderatismo, ma per
radicalismo, politica e religione, etica
e gnoseologia: e quindi, soprattutto,
non viene letta, esige molto dal lettore
e disturba in particolare gli intellettuali
e la loro categoria oggi prevalente,
quella degli universitari. La
Weil non ha confezionato trattati sistematici
usufruendo di fondi di ricerca,
e per questo dai filosofi di professione,
abituati a rimasticare qualunque
autore, spesso senza ragioni sufficienti,
viene ritenuta a torto un pensatore
non sistematico, teoreticamente inadeguato
perché frammentario.
Niente di meno vero. Simone Weil
non ha costruito sistemi, edifici concettuali
dentro cui ripararsi. La sua
produzione è occasionale, profondamente
motivata dagli eventi della sua
vita e da quelli politici degli anni in
cui è vissuta (il ventennio fra le due
guerre mondiali). Ma i suoi articoli e
saggi, i suoi diari e aforismi configurano
un pensiero straordinariamente
coeso e coerente, originale (parola a
lei non gradita!) nella sua cartesiana
lucidità e in una eroica onestà esistenziale.
Stranamente, faziosamente, accusano
la Weil di non professionalità filosofica
coloro che non battono ciglio
davanti a Nietzsche, conformisticamente
lo ritengono, in questi anni, un
filosofo “epocale” (esagerando), salvo
mettere fra parentesi il punto centrale
e la punta contundente di tutto il
pensiero di Nietzsche: il suo proposito
di pensare filosoficamente fuori
della filosofia tradizionale, delle sue
problematiche e del suo linguaggio.
Perché disturba, perché “non frutta”
Simone Weil? La risposta è che
non viene da Hegel né rimanda a
Nietzsche (dichiarò di non sopportarlo);
fa totalmente a meno di Freud anche
quando parla di psicologia, di passioni
e di desideri; non tiene conto né
del “Tractatus” di Wittgenstein né di
“Essere e tempo” di Heidegger; non
ha niente a che fare né con il Surrealismo
né con altre avanguardie. Le sue
riflessioni politiche non escludono l’esperienza
religiosa, il suo impegno politico
non esclude, anzi implica, un’idea
della mente umana che abbia la
capacità di trascendere i dati immediati
dell’esperienza. Il suo ateismo intellettuale
non nega la possibilità di
concepire Dio, se davvero se ne è capaci,
cioè se si è in grado di vivere, di
convivere con una certezza religiosa in
un mondo costruito sull’assenza di Dio
e la cancellazione del sacro.
Il pensiero della Weil si muove tra
Platone e Marx, fra cultura greca (e in
parte orientale) e un cristianesimo
che a volte affascina i cristiani, li chiama
in causa con la figura di Cristo e
con il simbolo della Croce, ma in definitiva
è giudicato un cristianesimo
inaccettabile perché troppo “personale”.
Dato che rifiuta la Chiesa, deve
pur essere un cristianesimo che ha
qualcosa che non va. Si sospetta che
pecchi di superbia intellettuale o di
un eccesso di umiltà malintesa.
Se poi aggiungessi altre cose che
credo, e cioè che la Weil è anche il
maggiore, o migliore, o più onesto teologo
del Novecento, un teologo esistenziale
e anti-dottrinale; che è uno
dei più grandi saggisti allo stato puro,
cioè senza specializzazioni disciplinari,
come pochissimi altri (penso a Karl
Kraus); ed è, con Orwell, uno dei pochi
e veramente utili scrittori politici – allora
la provocazione sembrerebbe intollerabile.
Anche perché, mettendo
insieme e sommando tutte queste cose,
risulterebbe scandalosa la perdurante
distrazione con cui viene trattato
dagli intellettuali l’insieme dei suoi
scritti.
Intendiamoci, il fatto che la Weil resti
un autore per pochi, se non è un
bene, soprattutto non è un male. Anzi
è del tutto naturale: è una delle poche
cose naturali ed equilibrate che accadono
in quella fiera delle falsificazioni
e delle sproporzioni che è la nostra
cultura. Ci sono autori di valore ingiustamente
ignorati, alcuni di grande
successo ma scadenti, altri giustamente
famosi ma in realtà non letti. La
Weil, almeno, sembra ancora essere
letta solo da chi è disposto a capirla, e
questa credo che sia la prima cosa che
un autore dovrebbe augurarsi.
Ho detto che la Weil è un grande
saggista: questo significa che non è facile,
forse è impossibile riassumere il
suo pensiero, non separabile dalla
forma di scrittura che di volta in volta
lo esprime. Non riesco a pensare a
nessun altro saggista che, come lei, abbia
avuto una così divorante passione
di farsi capire, una vera fobia di risultare
ambigua, di essere fraintesa. Potrei
dire, senza enfasi, che scrivere
per lei era una forma della preghiera,
nel senso che scriveva come in presenza
del giudizio di Dio. E questo lo
si sente, ovviamente, nei suoi scritti
più religiosi, ma anche quando scrive
articoli sull’ascesa del nazismo in Germania
e sul fallimento della politica
operaia dei partiti socialdemocratico
e comunista. Per usare una formula
weiliana, non si tratta di “dire la verità”,
che non è un oggetto definibile e
preesistente al discorso, ma di parlare
e scrivere “in spirito di verità”, cioè
avendo la verità come scopo.
Detto questo, più che riassumere,
farò un breve elenco di temi, illustrato
con qualche citazione. Al primo posto
metterei proprio il tema della verità.
Tema morale, intellettuale, politico,
religioso. Verità, per la Weil, vuol
dire anzitutto incarnare nella vita il
bisogno di verità, che non è limitato al
pensiero e alla parola. Nella “Prima
radice” leggiamo: “Il bisogno di verità
è il più sacro di tutti. Eppure non se
ne parla mai. La lettura fa spavento,
quando ci si sia resi conto della quantità
e dell’enormità di menzogne materiali,
diffuse senza vergogna anche
nei libri degli autori più amati. E così
leggiamo come se si bevesse acqua di
un pozzo sospetto”. Il giornalismo in
queste pagine diventa l’argomento
centrale, e la conclusione attiene già
alla politica: “Non è possibile soddisfare
l’esigenza di verità di un popolo
se a tal fine non si riesce a trovare uomini
che amino la verità”.
Fondamentale per quegli anni e decenni
(1920-1940), nonché per l’intero
secolo e per il culto in generale della
Storia, è la critica che la Weil rivolge
a Marx e al marxismo, alle idee di rivoluzione
e di progresso, alla socialdemocrazia
e ai partiti comunisti della
Terza Internazionale, dipendenti da
Mosca. Tutto il lungo saggio “Riflessioni
sulle cause della libertà e dell’oppressione”
(scritto nel 1934) è dedicato
a questo. Scelgo poche righe: “Del
‘socialismo scientifico’ si è fatto un
dogma, esattamente come è avvenuto
per tutti i risultati conseguiti dalla
scienza moderna (…). Marx supponeva,
senza peraltro provarlo, che ogni
specie di lotta per il potere sparirà il
giorno in cui il socialismo verrà realizzato
in tutti i paesi industrializzati; l’unica
sventura è che, come aveva riconosciuto
Marx stesso, la rivoluzione
non si può fare contemporaneamente
dappertutto; e quando la si fa in un
paese, essa non sopprime, anzi accentua
la necessità per questo paese di
sfruttare e opprimere le masse lavoratrici,
perché teme di essere più debole
delle altre nazioni. Di questo la storia
della rivoluzione russa costituisce
un’illustrazione dolorosa (…) la totale
subordinazione dell’operaio all’impresa
e a coloro che la dirigono poggia
sulla struttura della fabbrica e non sul
regime della proprietà (…) ‘la degradante
divisione del lavoro in lavoro
manuale e lavoro intellettuale’ [Marx]
è il fondamento stesso della nostra
cultura, che è una cultura di specialisti
(…) Lo stesso ‘socialismo scientifico’
è rimasto monopolio di alcuni e gli
‘intellettuali’ purtroppo hanno nel
movimento operaio gli stessi privilegi
che nella società borghese”. Aggiungo
una postilla: “Ma altre forme della
macchina utensile hanno prodotto, soprattutto
prima della guerra, forse il
tipo più bello di lavoratore cosciente
che sia apparso nella storia, cioè l’operaio
qualificato”.
Nel 1937 in un articolo “Sulle contraddizioni
del marxismo” la Weil
parla di un “inconsapevole conformismo”
di Marx di fronte alle “superstizioni
più infondate della sua epoca,
cioè il culto della produzione, il culto
della grande industria, la credenza
cieca nel progresso”. E aggiunge che il
movimento operaio dovrebbe “attingere,
non dico delle dottrine, ma una
fonte di ispirazione in ciò che Marx e
i marxisti hanno combattuto e così follemente
disprezzato: Proudhon, le forme
di organizzazione operaia del 1848,
la tradizione sindacale rivoluzionaria,
lo spirito anarchico” (“Incontri libertari”,
a cura di Maurizio Zani,
Eléuthera).
In un articolo del 1933 sul “Riformismo
tedesco” leggiamo: “Si può affermare
che in Germania l’organizzazione
operaia ha dato nell’ambito della
legalità capitalista la migliore espressione
di sé. I risultati non sono disprezzabili”.
Ma “in questo modo gli
operai si sono incatenati all’apparato
dello Stato”. E quindi le cose cambiano,
i vantaggi conquistati vengono meno
“se la borghesia tedesca fa ricorso
al fascismo” per superare la sua crisi.
Mentre “la politica del partito comunista
tedesco (…) consiste in una propaganda
puramente verbale; si predica
la rivoluzione a della gente che non
chiede se questa è desiderabile, bensì
se è possibile”.
Infine, il testo che riassume la riflessione
politica e morale della Weil
è “La prima radice” (dicembre 1942-
aprile 1943), la cui prima parte è intitolata
“Le esigenze dell’anima”. Invece
che di diritti si parla di “obblighi”
o doveri nei confronti dell’essere
umano. Mi limito a ricordare l’elenco
di questi “bisogni vitali” da rispettare:
l’ordine, la libertà, l’ubbidienza, la responsabilità,
l’uguaglianza, la gerarchia,
l’onore, la punizione, la libertà
di opinione, la sicurezza, il rischio, la
proprietà privata, la proprietà collettiva,
la verità.
Si capisce bene quanto poco fondata,
se non in qualche caso disonesta,
sia stata, a sinistra e a destra, la scelta
di distinguere e separare una Weil politica,
marxista e rivoluzionaria da una
Weil moralista, religiosa, mistica e cristiana,
per valorizzare un aspetto e liquidare
l’altro. Bisogna ripetere invece
che nel pensiero weiliano sono stati
sottoposti a una critica serrata, propriamente
razionalistica e antidogmatica,
tanto il marxismo che il cristianesimo,
in quanto edifici dottrinali adottati
e sostenuti da organizzazioni partitiche
o ecclesiastiche tenute insieme
da un corpo di chierici o di politici
professionali. In saggi relativamente
brevi ma fondamentali come “La persona
e il sacro” (1942-43) e “Nota sulla
soppressione dei partiti politici” (1943,
entrambi in “Écrits de Londres”, Gallimard)
è chiaro che la separazione tra
morale, politica e ispirazione religiosa
è impossibile, sarebbe un vero abuso
interpretativo. Proviamo a leggere:
“C’è nell’intimo di ogni essere umano,
dalla prima infanzia fino alla tomba e
nonostante tutta l’esperienza dei crimini
commessi, sofferti e osservati,
qualcosa che si aspetta invincibilmente
che gli si faccia del bene e non del
male. E’ questo, prima di tutto, ciò che
è sacro in ogni essere umano” (“La
persona e il sacro”).
Affermazioni come questa non si
potrebbero assegnare a nessuna sfera
delimitata e separata: siamo nella psicologia,
nell’etica, nella religione o
nella politica? Qui tutto è connesso,
ed è a queste pietre angolari del pensiero
che Simone Weil si rivolge per
fondare i suoi ragionamenti.
Dall’inizio degli anni Ottanta, con
l’edizione Adelphi dei “Quaderni”,
quattro volumi a cura di Giancarlo
Gaeta usciti fra il 1982 e il 1993, si è periodicamente
riproposta una lettura
di Simone Weil attraverso convegni,
antologie, monografie: se ne sono occupati
Gabriella Fiori (autrice di una
biografia uscita da Garzanti nel 1981),
Domenico Canciani, Roberto Esposito
(nel volume “Categorie dell’impolitico”,
il Mulino 1988), Adriano Marchetti,
Guglielmo Forni, Pier Cesare Bori
(presenti in uno dei quaderni mensili
di “Testimonianze”, intitolato “Le passioni
di Simone Weil. Politica, cultura,
religione”, 1994). Va notato comunque
che il pensiero weiliano non è mai entrato
davvero nel dibattito filosofico e
politico, né in Italia né in altri paesi,
come invece autori molto più astratti,
equivoci e sfuggenti, per esempio gli
studiatissimi e citatissimi Martin Heidegger
e Carl Schmitt. La sinistra ha
di gran lunga preferito autori come
questi, compromessi più o meno direttamente
con il nazismo, a Simone
Weil, che avrebbe permesso di riflettere
a fondo sull’intera vicenda della
sinistra europea in un’ottica diversa
rispetto a quella che oscilla ossessivamente
fra confuse riproposte rivoluzionarie,
speranze progressiste e riscoperte
del pensiero liberale. Parlo
della sinistra. Ma neppure la destra
ha mai osato servirsi seriamente della
riflessione della Weil nel suo insieme,
che evidentemente non attira chi
abbia intenzione di servirsene in funzione
propagandistica.
In tutto il periodo in cui si formò e
agì una Nuova Sinistra a livello internazionale,
tra la fine degli anni Cinquanta
e l’inizio degli anni Ottanta,
della Weil non si parlò. Fu quella, credo,
forse la più grave fra le occasioni
mancate. La Nuova Sinistra di allora
non aveva più come punto di riferimento
l’Unione Sovietica, cosa avvenuta
anche dopo il 1945 e fino allo
scontro che oppose Sartre e Camus in
seguito alla pubblicazione dell’“Homme
revolté”. Ma la Nuova Sinistra nacque
anzitutto come riscoperta del vero
Marx “scientifico” e antihegeliano
e del marxismo rivoluzionario degli
anni Venti: Lukács di “Storia e coscienza
di classe” e Karl Korsch di
“Marxismo e filosofia”. La critica all’Unione
Sovietica lasciò intatto l’impianto
marxista e anzi lo rilanciò e lo
radicalizzò, mettendo da parte anche
revisioni e integrazioni preziose come
quelle di Gramsci e dei Francofortesi.
Per anni dominò l’idea di un’attualità
e urgenza della rivoluzione: questo
sembrò il primo imperativo e fece nascere
rapidamente un’ortodossia neoleninista
che dimenticò di chiedersi
se un’ipotesi rivoluzionaria fosse possibile
e realistica in Europa, negli Stati
Uniti e perfino in America Latina.
Sembravano innominabili gli scrittori
politici degli anni Trenta, le cui esperienze
cruciali erano state la grande
crisi del Ventinove, i fascismi, la guerra
civile spagnola e lo stalinismo. La
Nuova Sinistra nacque ignorando di
proposito che c’era, doveva esserci un
rapporto fra critica allo stalinismo e
critica al marxismo.
Franco Fortini, che pure aveva scoperto
presto Simone Weil, ed ebbe il
merito di tradurre per le edizioni di
Comunità testi tutt’altro che marginali
come “L’ombra e la grazia” (nel
1951), “La condizione operaia” (1952) e
“La prima radice” (1954), non propose
però apertamente il pensiero della
Weil come correttivo o antidoto a quel
“ritorno a Marx” su cui si fondava la
ricerca di “Quaderni rossi”. Un po’ come
i giovani nichilisti russi dell’Ottocento
guardarono con sufficienza o disprezzo
il gran signore cosmopolita e
liberal-socialista Aleksandr Herzen,
così i giovani marxisti antiumanisti o
nichilisti degli anni Sessanta italiani
potevano ridere di Orwell e della
Weil. Nessuno vide allora quanta lucidità
teorica e competenza politica c’era
nel saggio “Oppressione e libertà”
che genialmente Simone Weil scrisse
a venticinque anni.
Fu così che le traduzioni di Fortini
si interruppero troppo presto, non
diedero luogo a nuove traduzioni, né
tantomeno a una considerazione approfondita
del già tradotto. “La prima
radice” era uscita senza un’introduzione
del traduttore ed è negativamente
significativo che in uno dei due
libri di saggi più importanti di Fortini,
“Verifica dei poteri”, uscito nel
1965, il nome della Weil non compaia
mai. Si pensò in quegli anni che tutte
le esperienze degli anni Venti fossero
riproponibili e tutte le esperienze degli
anni Trenta fossero definitivamente
superate. Venne isolata, per esempio
da Elémire Zolla, la Weil mistica e
lo stesso Calasso, più tardi, editore benemerito
di Nietzsche, vide nella Weil
piuttosto un pensatore metafisico, e
non sociale e politico, rendendo poco
comprensibile la sua intera vicenda
umana.
Grande lettrice della Weil, soprattutto
dei “Quaderni”, fu Elsa Morante.
Disse che quella lettura aveva cambiato
la sua vita. E in effetti provocò
una svolta nella sua opera. Chi legge i
saggi di “Pro o contro la bomba atomica”,
i poemi del “Mondo salvato dai
ragazzini” e il romanzo “La Storia”
può avvertire e rintracciare dovunque
la presenza della Weil, pensiero e persona,
che viene definita “l’intelligenza
della santità”. Ma per dire in proposito
qualcosa di più c’è bisogno di
interpretazioni critiche, perché la Morante
su quell’esperienza di lettura
non ha scritto nulla. Per quanto ne so,
il solo studio che affronti il problema
è di Concetta D’Angeli: “La pietà di
Omero: Elsa Morante e Simone Weil
davanti alla storia” (in “Leggere Elsa
Morante”, Carocci 2003). Si trova qui
un’interpretazione della formula morantiana
“l’intelligenza della santità”,
da intendersi come intelligenza del
mondo che può venire solo da una
santità risolta soprattutto in capacità
di capire, in intelletto.
Torniamo con questo alla verità, vocazione
centrale della Weil. In una lettera
da Marsiglia del 15 maggio 1942 a
padre Perrin, che è un vero e proprio
saggio sintetico di autobiografia interiore,
la Weil scrisse tra l’altro alcuni
passi che possiamo leggere come epigrafi
definitive per tutta la sua opera:
“Dopo mesi di tenebre interiori, ebbi
d’improvviso e per sempre la certezza
che qualsiasi essere umano, anche se
le sue facoltà naturali sono pressoché
nulle, penetra in questo regno della
verità riservato al genio, purché desideri
la verità e faccia un continuo
sforzo d’attenzione per raggiungerla:
in questo modo diventa egli pure un
genio, anche se per mancanza di talento
non può apparire tale esteriormente
(…) Il concetto di verità comprendeva
per me anche la bellezza, la
virtù e ogni sorta di bene”. E ancora:
“La funzione propria dell’intelligenza
esige una libertà totale, che implica il
diritto di negare tutto, senza nulla dominare.
Dovunque essa usurpa un comando,
si verifica un eccesso di individualismo.
Dovunque si senta a disagio,
c’è una collettività oppressiva” (in
“Attesa di Dio”, Rusconi 1972).

Il Foglio 10 dicembre 2009