DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Perché si può criticare "l'imam" Tettamanzi senza malizia. Due editoriali di Giuliano Ferrara

A Milano la fede autorizzata dal clero (e da Cacciari) si spiritualizza ogni anno di più

Ambrogio è imparagonabile, si sa, non per niente è santo e dottore della chiesa. Ma una questione ambrosiana esiste, e pesa nel mondo cattolico come un segno di contraddizione, un segno che avrà anche i suoi significati positivi, non c’è da dubitarne, ma non manca di lati negativi, fiacchi, ipocriti, insipidi, tiepidi. Se fosse possibile criticare la curia milanese e i suoi recenti titolari, senza malizia e senza vedersi attribuire malanimo, ragioneremmo così. Partendo, per esempio, dal fatto storico che Ambrogio era un santo statista, un facitore di civiltà e rito e territorialità felice, come i suoi successori della Riforma cattolica cinquecentesca, e così occupava con estrema autorevolezza uno spazio pubblico di cui la chiesa, divenuta religione di stato nella sua era, non aveva paura.

Quella bella ma fragile persona che è Dionigi Tettamanzi, invece, in una con testimoni altrettanto autorevoli, per esempio il cardinal Martini, per esempio il priore di Bose Enzo Bianchi, dello spazio pubblico della religione diffida. Non importa che gli ultimi due papi si siano consacrati anima e corpo alla riaffermazione della libertà di culto e di pensiero e di prassi cristiana; a Milano la fede autorizzata dal clero (e da Massimo Cacciari) si spiritualizza ogni anno di più, la materialità anche civile della presenza religiosa, così corposamente e sapidamente evocata nelle splendide memorie del cardinale Giacomo Biffi, uno straordinario parroco lombardo e un grandissimo italiano, si dissolve in prediche solidaristiche, sociologiche, pauperistiche, povere di visibilità cristiana e ricche di suggestioni tipiche dell’establishment politico cattolico-democratico, ma senza più il genio religioso e politico dei Lazzati.

Così Tettamanzi è e resta quello del convegno di Verona, che cita contro Ruini e Benedetto XVI Ignazio d’Antiochia per affermare il bello di un cristianesimo che preferibilmente ha pudore nel dire sé stesso, e infatti il sagrato del Duomo di Milano è ospite solitario e muto delle bottiglie d’acqua per Eluana Englaro, ma tribuna possente e recettiva per le preghiere islamiche di protesta religiosa e politica. Bianchi addirittura vuole tenere il Crocefisso nel cassetto, perché appeso a un muro gli sembra un’arma brandita dai finti devoti che vogliono disfare Cristo e agitarlo come clava nel nome di una religione civile. L’ideologia liberale ambrosiana avrebbe radici serie e profonde, specie nel grande apostolato moderno di un Montini, poi Paolo VI, che fece della contraddizione e della complessità, da arcivescovo della città e poi da Papa, una ricchezza teologica ed umana da coltivare di fronte alla grande deriva della seconda metà del secolo scorso. Ma anche lui, come Ambrogio, sebbene nel pieno della secolarizzazione e della rottura dell’antico patto costantiniano della cristianità, agiva, diceva e significava qualcosa, non si limitava a ostentare il pudore di una cultura sociale spesso debole, banale.



Ancora sull’imam Tettamanzi

Le accuse fobiche, il bisogno di rassicurazione, l’anima della diocesi


Dionigi Tettamanzi è stato sommerso
da una tale dovizia di abbracci,
dopo l’attacco della Padania, da essere
costretto a ricordare, con buon senso
dell’umorismo che fa a pugni con
certa compunta bolsaggine dei suoi
difensori, di non essere “ancora” un
martire. In un clima più disteso, forse,
ci si potrebbe domandare come mai
l’appellativo “imam” – che può essere
considerato insultante dagli islamofobi
– dovrebbe essere recepito nello
stesso modo da chi, invece, predica
l’esigenza del dialogo e dell’accoglienza
nei confronti degli immigrati
di fede musulmana. Il cardinale arcivescovo
di Milano si sente padre e guida
spirituale di tutti i residenti nella
sua diocesi, anche di quelli non cristiani,
e proprio questo gli viene rimproverato
da chi in questo atteggiamento
coglie un abbandono o addirittura
un disprezzo per le tradizioni
identitarie e popolari.
Si tratta, peraltro, di un problema
ricorrente per la cattedra ambrosiana,
lambita fin dal medio evo da eresie
pauperistiche o dall’apparentemente
opposta supponenza intellettualistica
di derivazione giansenista.
La religiosità popolare radicata nella
tradizione è stata anche combattuta
per i rischi di inquinamento superstizioso
dai teologi dell’Università Cattolica
milanese, che però è per esempio
arrivata a un eccesso quasi persecutorio
nei confronti di padre Pio da
Pietrelcina. La chiesa milanese, nella
quale hanno trovato alimento sia i furori
antirisorgimentali di don Davide
Albertario sia lo spirito conciliatore
di Filippo Meda, è da sempre uno
spazio denso di confronti anche aspri,
espressione di convinzioni profondamente
sentite. Il vescovo ha scelto
una linea pastorale molto caratterizzata
da un’attenzione talvolta ideologica
o meramente sociologica verso
chi sta fuori dalla chiesa, il che ha suscitato
una sorta di risentimento da
parte di chi si sente invece rassicurato
soprattutto dalla continuità, che è
poi uno dei sensi legittimi della tradizione
vivente del cristianesimo. Si
potrebbe impropriamente parlare di
una sorta di gelosia di chi teme di essere
abbandonato dal padre che adotta
altri come figli. L’invettiva contro
“l’imam” esprime un po’ l’amore per
il vescovo.


Il Foglio 9 dic. 2009