DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Visualizzazione post con etichetta Milano. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Milano. Mostra tutti i post

La via italo-cattolica all'islam: ritratto di Paolo Branca. Di Giulio Meotti

Roma. Nel solo mese di novembre, l’arcidiocesi di Milano ha organizzato quattro conferenze sull’islam, fra cui una intitolata così: “Apprezzamento di alcuni valori religiosi nell’islam”. A gennaio se ne terrà un’altra: “Attuali fronti del dialogo con l’islam”. Le lezioni sono tenute dall’accademico Paolo Branca e fanno parte del ciclo “Dio ha molti nomi”, promosso dal cardinale Dionigi Tettamanzi. Per capire la logica della diocesi nei rapporti con l’islam è decisiva la figura di Branca, l’islamologo di riferimento di Tettamanzi.



Nei giorni scorsi si è consumato un duro scontro istituzionale tra l’arcivescovo di Milano e la Lega Nord. “Onorevole Tettamanzi”, titolava a tutta pagina la Padania: “Cardinale o imam?”. Il segretario di stato Vaticano Bertone è poi intervenuto a difesa di Tettamanzi.

Nella politica di dialogo a oltranza della diocesi con l’islam ha avuto un ruolo di primo piano Paolo Branca, intellettuale di establishment, cattedratico all’Università Cattolica di Milano nonché editorialista del Sole 24 Ore. Martiniano con origini nei popolari del Pd, Branca è il teorico della “contaminazione delle culture”, in nome dell’integrazione, e il punto di riferimento sull’islam del cattolicesimo democratico. Branca è fautore del cosiddetto modello “interculturale” che domina a Milano da anni (“lavoriamo perché il nostro mondo diventi un grande laboratorio interculturale”).
L’ibridazione teorizzata da Branca è una delle due inclinazioni della chiesa sull’islam, e contrasta con lo sguardo critico di studiosi come Samir K. Samir. Branca è stato promotore dell’equivoca “Giornata del dialogo CristianoIslamico” assieme a Don Zega e al portavoce dell’Ucoii, Hamza Piccardo. E proprio l’Ucoii, attraverso l’Associazione giovani musulmani d’Italia, fece il nome di Branca, oltre a quello dello sponsor dell’islamista Tariq Ramadan Stefano Allievi, come candidato alla Consulta per l’islam lanciata dall’allora ministro dell’Interno Pisanu.

Dopo gli attentati di Sharm el Sheikh, Paolo Branca disse che “sta a noi prendere l’iniziativa, andare nel Centro islamico più vicino, varcare la soglia delle loro case per esprimere la nostra solidarietà e partecipazione”. Su Repubblica Branca avrebbe poi paragonato il trattamento dei musulmani milanesi a quello degli ebrei sotto le leggi di Norimberga”.
Presenza fissa sul settimanale della diocesi milanese Incrocinews, su Famiglia Cristiana e sulla rivista della cooperazione sociale Vita, Paolo Branca parla di “moschee inquiete” senza aver mai riconosciuto che quelle stesse moschee sono state trasformate in mercati dell’odio da cui partono “martiri” per il medio oriente.
Ma, cosa più rilevante, è stato lo sponsor della celeberrima scuola di via Quaranta a Milano, la pseudomadrassa dove si studiavano arabo e sure coraniche per trasformare gli studenti in pupilli dell’islamismo, e che per quattordici anni ha sottratto all’obbligo scolastico centinaia di bambini egiziani. Branca ne fu il garante davanti alle istituzioni fino allo scoppio del caso. Sempre di Branca è l’anima dell’inserto islamico del settimanale Vita, “Yalla Italia”, che offre un’immagine edulcorata delle comunità musulmane in Italia, senza far parola sul fatto che il nostro paese è stato il terzo nel fornire carne da macello per gli attentati kamikaze in Iraq.
Fallito il modello di via Quaranta, Branca ha lanciato in Cattolica il “Laboratorio interculturale”. Sempre sua l’idea di insegnare l’arabo nelle scuole elementari e medie di Milano e dell’hinterland.
Suo anche il dvd “Conosciamo l’islam”, realizzato per le scuole lombarde dalla Cattolica e dall’Ufficio scolastico della regione. Vi compare anche Sara Orabi, che andò a Porta a Porta a giustificare la lapidazione delle adultere e che su Repubblica ribadì: “Io, studentessa col velo, dico sì alla lapidazione”.
Commentando le invocazioni ad Allah per distruggere Israele fatte dall’imam Moussa nella moschea di Roma, Branca non le condannò in quanto inviti espliciti al terrorismo, ma erano, più semplicemente, “un allarme culturale, più di natura religiosa che politica”.

Branca diverrà protagonista di un celeberrimo appello apparso sulla rivista Reset contro l’allora vicedirettore del Corriere della sera, Magdi Allam. I prodromi del pronunciamento avevano avuto come teatro proprio l’Università Cattolica di Milano. L’attacco ad personam al giornalista egiziano che vive sotto scorta da quando a Repubblica svelò la guerra contro gli “infedeli” promossa nella moschea di Roma, fu molti controfirmato da intellettuali, storici e scrittori.
Si andava da Agostino Giovagnoli, storico alla Cattolica di Milano, ad Alfredo Canavero, collaboratore di Avvenire; da Guido Formigoni, studioso di cattolicesimo italiano, al priore di Bose Enzo Bianchi, fino a intellettuale ebrei come David Bidussa e storici azionisti come Angelo D’Orsi. C’erano anche Massimo Jevolella, autore del libro “Le radici islamiche dell’Europa”; lo studioso del Concilio Alberto Melloni, il medievologo Franco Cardini, la poetessa Patrizia Valduga, il biblista Piero Stefani e il filosofo della Cattolica Franco Riva, che scrive per le edizioni cattoliche Città Aperta.

Alla conferenza “Quale islam in Europa?”, organizzata dalla diocesi di Milano e presieduta proprio da Paolo Branca, tra i relatori c’era il presidente dell’Ucoii, la propaggine italiana dei Fratelli musulmani, quel Mohammed Nour Dachan che ha preso parte alla Consulta per l’islam istituita dall’allora ministro dell’Interno, Giuliano Amato. Dachan è passato alle cronache per aver pubblicato a pagamento su alcuni giornali nazionali una pagina dove si leggeva: “Ieri stragi naziste, oggi stragi israeliane”. E ancora: “Marzabotto uguale Gaza uguale Fosse Ardeatine uguale Libano”.
Nonostante questo manifesto dell’odio, il dottor Dachan è il benvenuto nella curia di Milano. Intanto sul sito della diocesi di Milano campeggia ancora un “ringraziamento particolare” a Sara Orabi, la ragazza che sul primo canale della Rai è andata a dire che “non solo è giusto lapidare le adultere, ma se i cristiani fossero veri credenti le lapiderebbero anche loro”.
Ma forse è una svista.

Le parole del Papa, gli attacchi a Tettamanzi. di Andrea Tornielli

Cari amici, ieri Benedetto XVI ha tenuto un breve ma commovente discorso ai piedi della statua della Madonna in piazza di Spagna. Ha criticato i mass media, per come espongono e spettacolarizzano la vita delle persone. Ha parlato a tutti richiamando il rispetto per ogni persona. Queste le sue parole: “C’è in ogni uomo il desiderio di essere accolto come persona e considerato una realtà sacra, perché ogni storia umana è una storia sacra, e richiede il più grande rispetto. La città, cari fratelli e sorelle, siamo tutti noi! Ciascuno contribuisce alla sua vita e al suo clima morale, in bene o in male. Nel cuore di ognuno di noi passa il confine tra il bene e il male e nessuno di noi deve sentirsi in diritto di giudicare gli altri, ma piuttosto ciascuno deve sentire il dovere di migliorare se stesso!“.
Vorrei che tutti facessimo tesoro di questo richiamo, e cercassimo di vivere questa attenzione a partire dal modo con cui dialoghiamo anche su queste pagine (mi ha colpito e addolorato, ieri, leggere come uno di voi ha sprezzantemente parlato del prof. De Rosa nel giorno della sua morte). Alcuni di voi hanno chiesto - sul blog o privatamente - la mia opinione sugli attacchi a Tettamanzi. Ebbene, penso che la maggior parte di coloro che si sono espressi non abbiano letto il testo del discorso di Sant’Ambrogio: lo accusano di non aver parlato dei milanesi (ma la maggior parte del discorso era dedicata ai preti di Milano nell’anno sacerdotale, poi il cardinale ha parlato dei bambini, quindi delle famiglie in difficoltà), lo accusano di non aver difeso il crocifisso e di non aver parlato di Gesù (ma tutto il discorso era un invito a volgere lo sguardo a Cristo. Citando proprio il crocifisso e la sua importanza, Tettamanzi ha chiesto di non considerarlo soltanto un simbolo culturale), lo accusano di aver parlato della necessità di maggiore solidarietà e accoglienza e di aver difeso i rom (temi che hanno occupato pochissime righe nel suo ampio discorso). Inoltre, vorrei far notare che la polemica del ministro Calderoli, che ha attaccato il cardinale con paragoni inqualificabili, è stata cercata, provocata, costruita dai media. Ciò non toglie, ovviamente, la responsabilità di chi certe parole le ha pronunciate.

Il “parroco”Tettamanzi e le due chiese di Milano secondo il prof. Prodi

diocesi
di Carlo e persino di Carlo Maria. Non
solo per la sua dimensione territoriale,
non solo per le sue oltre mille parrocchie,
è da sempre una delle più importanti della
chiesa cattolica. La sua secolare prerogrativa
di autonomia, la distinzione “inter
pares”, il peso specifico attribuito agli interventi
degli arcivescovi di Milano affondano
nella storia. Religiosa e civile, antica
e recente. Ricca anche negli ultimi decenni
di figure di arcivescovi-uomini pubblici
che hanno segnato il rapporto tra la chiesa
e la scena pubblica e, anche se in modo
sempre mediato, la vita politica. Basti pensare
a Giovanni Battista Montini, il secondo
cardinale di Milano dopo Pio XI (e terzo
lombardo) a diventare Papa nel corso
del ’900. L’ultimo ad avere plasmato con un
tratto ambrosiano la fisionomia della chiesa
universale. Dopo di lui anche Carlo Maria
Martini è stato – ed è ancora, da “emerito”
molto presenzialista – una figura ecclesiale
di grande rilevanza pubblica, nonché
bandiera costantemente e polemicamente
contrapposta al Papa di Roma. Il
“Papa rosso” non sarebbe stato tale, se fosse
stato seduto su un’altra e meno prestigiosa
cattedra. Anche se, come ebbe a ricordare
il cardinale “ambrosiano” di Bologna
Giacomo Biffi, con Martini si interruppe
una tradizione teologico-ecclesialepastorale
ambrosiana che durava da un
secolo. Oggi dunque, fatta la tara allo stile,
sentire il leghista cattolico Roberto Calderoli
affermare, del primo arcivescovo di
Milano a provenire dal clero diocesano
dai tempi di Giovanni Colombo, che “Tettamanzi
con il suo territorio non c’entra
proprio nulla. Sarebbe come mettere un
prete mafioso in Sicilia” suona strano. Ma
è anche il segnale delle sensibilità profondamente
diverse che oggi si agitano dentro
la diocesi lombarda, nel suo “popolo”.
Per comprendere che cosa possa essere
accaduto tra la chiesa ambrosiana e la sua
specificità, giriamo l’interrogativo allo storico
Paolo Prodi, professore emerito di
Storia moderna a Bologna, che ha dedicato
molta parte della sua ricerca scientifica
proprio a indagare le strutture del potere
religioso e del potere politico, e i loro rapporti
intrecciati, nella storia dell’occidente.
“Ci vuole la massima cautela a non usare
coordinate politiche in tutto questo”,
spiega subito al telefono. Allo stesso tempo,
“è indubbio che la
chiesa ambrosiana abbia
nella sua storia una
specificità ecclesiale e
civile che arriva fino a
oggi. Si tratta innanzitutto
di una forte penetrazione
della presenza pastorale,
che dal cardinale
Borromeo arriva fino alla
chiesa del Manzoni, se vogliamo,
e del cardinal Ferrari.
Ciò unito a un’autonomia
che affonda le radici
ovviamente nel rito ambrosiano:
non dimentichiamo che
all’epoca della riforma tridentina
è Carlo Borromeo a difendere
con forza la liturgia
ambrosiana”. A parte la
ricchezza del rito, dove affondano
le radici di questa specificità?
“Direi soprattutto nell’essersi
strutturata, nei secoli, in quella
che chiamerei una ‘chiesa di popolo’ se
non suonasse retorico. Vale a dire una
chiesa cementata sulla rete delle parrocchie.
Questa base nei secoli successivi è
diventata attenzione sociale, caritativa,
creando un legame fortissimo tra
popolo e clero”. C’è un’aspetto che
secondo Prodi evoca tutto questo:
“E’ il carattere di ‘territorialità’ che
sancisce l’autonomia della chiesa di Milano,
e che proprio san Carlo difende
nel suo programma attuativo della
riforma, ribadendo indipendenza
rispetto al centralismo del governo
romano. In altre diocesi accade
molto meno”.
Per venire ai tempi recenti, si
può dire che questa capacità di rilevanza
pubblica si manifesta con
forza con il cardinale Montini?
“Bisogna avere cautela su certe
semplificazioni. Ma è vero che è
stato il ‘cardinale degli operai’,
di una ripresa della tradizione
sociale, anche se non
va enfatizzato il suo ruolo
nella nascita del centrosinistra:
da questo punto di vista fu molto
più ‘politico’ Lercaro. Ma è vero che a
Milano fu interprete di un mutamento e
che poi, con la ‘Populorum progressio’ e
altro, ha inserito nella chiesa universale
una chiara impronta ambrosiana”. E oggi,
dopo il periodo di Martini, “il ruolo di Tettamanzi
sia innanzitutto un riallacciare
quella tradizione ambrosiana, pastorale e
sociale. Io lo conosco poco, ma mi pare che
lo faccia in modo efficace. Non è un intellettuale
come lo erano Montini e Martini,
non è un leader naturale, mi sembra soprattutto
pastore un ‘grande parroco’ ambrosiano”.
Da qui, forse, una minore brillantezza
pubblica. Ma secondo Prodi bisogna guardare
più in modo storico, e più in profondità:
“Negli ultimi quarant’anni a Milano
c’è stata soprattutto un’esperienza come
quella di Comunione e liberazione, come
del resto altrove sono cresciuti altri movimenti.
Si tratta, soprattutto rispetto alla
specificità ambrosiana, dell’emergere di
una chiesa che potremmo dire definita da
una ‘extraterritorialità’. Certo, don Giussani
è ovviamente un sacerdote profondamente
ambrosiano, eppure quello che si è
sviluppato è una dicotomia di fatto con la
chiesa locale, la parrocchia, la diocesi. Lo
dico, così come credo che la cosa più importante
avvenuta nella chiesa negli ultimi
vent’anni sia il conferimento all’Opus
Dei di una sorta di status di ‘diocesi non
territoriale”. Oggi insomma quella che a
molti appare una debolezza di ruolo pubblico
del successore di Ambrogio e della
sua diocesi-stato, è secondo Prodi frutto di
una dicotomia, come se ci fossero due
chiese, due sensibilità. “E’ un fenomeno
che esiste ovunque, ma in una realtà così
strutturata si vede di più”. Questione di
lungo periodo, più che di personalità episcopale,
dunque: “Vedo piuttosto un’analogia
con gli ordini mendicanti nel medioevo.
La chiesa attraverso questi movimenti
seppe indirizzare il bisogno di riforma.
La soluzione fu creare un clero regolare,
accanto a quello diocesano, secolare.
Fu il modo di riportare nell’istituzione gli
elementi di rottura. Ma non a caso Borromeo
fondò gli Oblati di San Carlo: un ordine
regolare, che però dipendeva direttamente
dal vescovo. Credo che la chiesa di
Milano debba oggi ricomporre ancora questa
unità”.

Maurizio Crippa

Il Foglio 9 dic. 2009

Eminenza carissima, uffa. Eminenza, perché il popolo non ha quasi più sentore dell’esistenza di una chiesa locale? Amicone al Card. Tettamanzi

Cattolico ambrosiano scrive al suo pastore. La solidarietà banale stanca, quella vera a Milano c’è. Non c’è un’idea forte e viva di Cristo, invece

Eminenza carissima, cardinale Dionigi Tettamanzi, permetta qui una confessione pubblica: sono un cattivo cattolico, le parole del mio Vescovo mi parvero negli ultimi tempi come l’eco lontana di un pastore salito sull’Alpe e rimasto lassù, mentre noi qui, pecore smarrite restiamo a brucare terra nera, spazzata dalle fatiche della quotidianità e dalle angosce per il futuro nostro e, soprattutto, dei nostri figli.

La nostra Città oggi è una città solidale, all’altezza della sua tradizione? E’ difficile rispondere con poche parole”. No, non è difficile rispondere in poche parole e con dati alla mano alla domanda contenuta nella sua omelia. Milano potrebbe figurare in cima a una enciclopedia della solidarietà in Italia. E non c’è bisogno delle ricerche del Censis per misurare questa realtà, basta la notizia di esempi che abbiamo qui sottomano. Per esempio, in quest’anno di acuta crisi economica e sociale, in una sola giornata di “spesa per i poveri”, il Banco Alimentare ha raccolto nei supermercati di Milano città 375 tonnellate di alimenti contro le 360 tonnellate dello scorso anno, incrementando la raccolta del 4 per cento rispetto al 2008 e superando di un punto la media nazionale che è stata comunque superiore di 3 punti rispetto al 2008.

Per esempio, dall’Opera Nomadi alla Casa Famiglia tutti gli operatori milanesi impegnati sul fronte zingari possono confermare alla Curia di Milano che, nonostante le difficoltà e i conflitti presenti nei quartieri più periferici e popolari (sono infatti i più poveri che soffrono il problema degli accampamenti rom), gli sgomberi di questi giorni non sono ceauseschiani, non passano i carriarmati sulle bidonville e nessun bambino rom viene sacrificato sugli altari del consumismo e di una amministrazione politica che, secondo certa visione ecclesiastica, lucrerebbe consenso investendo sulla pura immagine. Qui a Milano gli zingari prendono voucher, i bambini rom sono scolarizzati, il patto di legalità funziona e non c’è città o paese d’Italia che abbia investito in conoscenza, risorse economiche e progettualità sociale, come il capoluogo lombardo. E’ vero che le ruvide accuse della Padania bruciano e che non ha senso dare dell’imam al cardinale arcivescovo di Milano. Ma c’è disorientamento quando dal Duomo si diffonde il sospetto che nella diocesi più grande del mondo Cristo si è fermato nei modi in cui non si è fermato neanche a Eboli.

Eminenza carissima, quando qualche anno fa lei invitò a Milano Adriano Sofri perché, assieme ad altri scrittori e poeti, animasse con la lettura della Ballata del carcere di Reading i giorni della settimana santa, Lei forse non sapeva che dal carcere di Pisa Sofri aveva riflettuto sulla possibilità che la Lega Nord divenisse l’alternativa protestante alla chiesa cattolica. Sotto molti aspetti questa visione è corretta. Quanti fedeli lombardi hanno trovato nel partito di Bossi l’ascolto e la difesa identitaria che non trovano più nei Principi della chiesa? E’ un errore, lo sappiamo, poiché la chiesa non è mera difesa di una tradizione e di una identità. Brandire il crocefisso e multare chi non lo espone in pubblico, lo sappiamo, è una strumentalizzazione e una riduzione del messaggio evangelico. Poiché, come ha ricordato Lei nel suo discorso di sant’Ambrogio, la croce di Cristo è un simbolo di amore e poi noi non onoriamo un crocefisso morto, ma il crocefisso risorto.

Eminenza, lo sappiamo, lo viviamo male, ma non possiamo sfuggire alla verità che il cattolicesimo è, per definizione, “annuncio a tutte le genti”, ecumenico, universale, slegato da ogni provenienza di razza, censo, cultura e religione. Ma allora perché stiamo diventando cattivi cattolici? Perché il popolo non ha quasi più sentore dell’esistenza di una chiesa locale? Perché le Sue parole suscitano discussione quasi esclusivamente politica e vengono largamente ignorate dall’uomo della strada? Milano, la più grande diocesi del mondo, sembra subire silenziosamente il destino di un declino e di una protestantizzazione del cristianesimo. Quest’anno, dopo non so quanti anni, Milano ospiterà un grande presepe in piazza del Duomo. Ma l’iniziativa proviene dalle istituzioni laiche, dal comune, non dalla Curia. Grazie all’iniziativa delle Ferrovie dello Stato la Caritas ritroverà le sue sedi nelle stazioni e nuove risorse arriveranno per accogliere e sfamare gli ultimi, gli sbandati, i barboni.

Grazie all’opera di un’infinità di benemerite associazioni (anche vip e consumistiche) il Natale conoscerà ancora una volta un proliferare di iniziative per i poveri e di eventi di beneficenza. Eminenza, non è l’attenzione agli ultimi e il senso della solidarietà che mancano. Semmai ciò di cui si sente la mancanza è una presenza piena di ragioni, di metodo e di speranza cristiana. Sentiamo il generico richiamo a Cristo, ma non lo vediamo affermato in una proposta puntuale, che irradi intelligenza, conoscenza, fascino, e, perché no, potenza vitale.
Che ne è delle chiese e degli oratori ambrosiani dove una volta la gioventù incontrava il prete che lo trascinava in un’avventura esistenziale, piena di ragioni e di vita? Oggi gli oratori vengono dati in affitto ai club calcistici e al posto dei biliardini degli anni sessanta offrono party umanitari e discoteche allo scopo di attirare una certa “clientela”. Oggi i catechismi vengono spalmati per anni e anni, e sacramenti come la cresima vengono rinviati perché, pensano i preti, così almeno si riuscirà a tenere i ragazzini un po’ più impegnati e a trattenere più giovani in chiesa. Il risultato naturalmente contraddice i programmi: ragazzini e giovani se ne vanno anche a costo di perdere la confermazione e tutti gli altri sacramenti.

Ma esiste una valutazione serena di tutto ciò? Cosa ne è della fede, della speranza e della carità vissuti dentro un orizzonte non genericamente umanitario e moraleggiante? Oggi si deve andare nei grandi santuari per ritrovare quel popolino minuto e semplice che è stato il cuore pulsante del cristianesimo lumbard. Vai alla Madonna di Caravaggio e ogni domenica troverai come parte cospicua dei fedeli qualche vecchio agricoltore benestante e una marea di filippini che fanno pic nic e vi trascorrono l’intera giornata. Il vecchio capo della comunità cinese a Milano ha voluto farsi tumulare nel cimitero Monumentale. Ma quali presenze cattoliche si stanno muovendo per portare la buona novella a chinatown? Si parla dell’immigrazione e, giustamente, si concentrano attenzioni e ansie nella questione islamica.

Ma che senso pastorale c’è nell’affrontare il problema islam con gli appelli al dialogo interreligioso, gli incontri con imam che si fanno competizione interna e sono sul libro paga dei diversi stati mediorientali, la ripetizione dell’ovvio principio che la libertà di coscienza e di religione sono gli antemurali di tutte le libertà?
La fortuna e l’originalità del cristianesimo è che, a differenza dei musulmani, cristiani non si nasce, cristiani si diventa. Si diventa con il Battesimo e si sceglie di rimanere cristiani con un atto di libertà e di ragione. Da un certo punto di vista dovremmo riconoscere che nella secolarizzazione e nella globalizzazione c’è un processo che aiuta il cristianesimo. Quando tutte le identità e le tradizioni crollano sotto il vento della morte di Dio e della società liquida, il Cristo emerge con la sua pretesa che “nemmeno un capello del tuo capo andrà perduto”. Ma come è colta questa opportunità? Quali pastorali sono fondate non tanto sulla consolazione all’ombra dei più “poverini” quanto piuttosto sull’offensiva fondata su Colui che dice di sé: “Non sono venuto a portare pace, ma una spada”?

Di solidarietà e sobrietà, Eminenza carissima, lei parlò all’omelia di Natale dello scorso anno, ci tornò sopra in una prima serata di primavera televisiva in cui fu ospite di Fabio Fazio e infine ne ha parlato di nuovo nella sua predica di Sant’Ambrogio. Lei ripete che “la comunità cristiana può e deve diventare molto più sobria”. Che “c’è uno stile di vita costruito sul consumismo che tutti siamo invitati a cambiare per tornare a una santa sobrietà”. Che “con la sobrietà è in questione un ‘ritornare’” perché “ci siamo lasciati andare a una cultura dell’eccesso, dell’esagerazione” e “soprattutto la sobrietà è questione di ‘giustizia’, siamo in un mondo dove c’è chi ha troppo e chi troppo poco e…”. Uffa. Ma quanto ancora sentiremo la volgarizzazione delle tesi di Erich Fromm, delle confetture di Medici senza frontiere, delle denunce antimafia contro i pericoli delle infiltrazioni per qualunque cantiere aperto per modernizzare la città e dare lavoro alla gente?
Piuttosto, qualche anno fa, per iniziativa della Curia di Milano venne promossa in tutta la diocesi una ricerca sullo stato di salute della fede praticante.

Anche il sottoscritto, come tutti i frequentatori delle messe festive, fu chiamato a esprimersi su una batteria di domande che indagavano sulla pratica religiosa. Come mai a distanza di oltre un lustro i risultati di quella inchiesta non sono ancora stati noti? La sensazione diffusa è che nella più grande diocesi del mondo il tasso di disaffezione al precetto festivo e a tutti gli altri sacramenti abbia raggiunto percentuali da paesi del nord Europa. Forse la diocesi di Milano non sarà un “cimitero”, come dicono le statistiche sul cristianesimo in Belgio o in Olanda. Ma tutto lascia supporre che la strada imboccata è quella di una pace senza vita. Senza contare che in quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno, la mezzaluna di Maometto ha preso stabile dimora. Ma se Muhammad è il nome più diffuso tra i neonati di Milano (notizia Apcom del 31 maggio 2008), Eminenza, non sarebbe forse anche l’ora di consigliare ai milanesi di essere meno sobri nel controllo delle nascite e più appassionatamente sostenitori di persone come Paola Bonzi? Forza, Eminenza carissima, non si faccia rinchiudere nel capitolo della teologia moralista, civilista e borrelliana. Lei sa, meglio di noi pecorelle erranti e sghimbesce, che il cristianesimo esige coraggio, testimonianza e profezia, innanzitutto dai suoi Pastori.

di Luigi Amicone

Perché si può criticare "l'imam" Tettamanzi senza malizia. Due editoriali di Giuliano Ferrara

A Milano la fede autorizzata dal clero (e da Cacciari) si spiritualizza ogni anno di più

Ambrogio è imparagonabile, si sa, non per niente è santo e dottore della chiesa. Ma una questione ambrosiana esiste, e pesa nel mondo cattolico come un segno di contraddizione, un segno che avrà anche i suoi significati positivi, non c’è da dubitarne, ma non manca di lati negativi, fiacchi, ipocriti, insipidi, tiepidi. Se fosse possibile criticare la curia milanese e i suoi recenti titolari, senza malizia e senza vedersi attribuire malanimo, ragioneremmo così. Partendo, per esempio, dal fatto storico che Ambrogio era un santo statista, un facitore di civiltà e rito e territorialità felice, come i suoi successori della Riforma cattolica cinquecentesca, e così occupava con estrema autorevolezza uno spazio pubblico di cui la chiesa, divenuta religione di stato nella sua era, non aveva paura.

Quella bella ma fragile persona che è Dionigi Tettamanzi, invece, in una con testimoni altrettanto autorevoli, per esempio il cardinal Martini, per esempio il priore di Bose Enzo Bianchi, dello spazio pubblico della religione diffida. Non importa che gli ultimi due papi si siano consacrati anima e corpo alla riaffermazione della libertà di culto e di pensiero e di prassi cristiana; a Milano la fede autorizzata dal clero (e da Massimo Cacciari) si spiritualizza ogni anno di più, la materialità anche civile della presenza religiosa, così corposamente e sapidamente evocata nelle splendide memorie del cardinale Giacomo Biffi, uno straordinario parroco lombardo e un grandissimo italiano, si dissolve in prediche solidaristiche, sociologiche, pauperistiche, povere di visibilità cristiana e ricche di suggestioni tipiche dell’establishment politico cattolico-democratico, ma senza più il genio religioso e politico dei Lazzati.

Così Tettamanzi è e resta quello del convegno di Verona, che cita contro Ruini e Benedetto XVI Ignazio d’Antiochia per affermare il bello di un cristianesimo che preferibilmente ha pudore nel dire sé stesso, e infatti il sagrato del Duomo di Milano è ospite solitario e muto delle bottiglie d’acqua per Eluana Englaro, ma tribuna possente e recettiva per le preghiere islamiche di protesta religiosa e politica. Bianchi addirittura vuole tenere il Crocefisso nel cassetto, perché appeso a un muro gli sembra un’arma brandita dai finti devoti che vogliono disfare Cristo e agitarlo come clava nel nome di una religione civile. L’ideologia liberale ambrosiana avrebbe radici serie e profonde, specie nel grande apostolato moderno di un Montini, poi Paolo VI, che fece della contraddizione e della complessità, da arcivescovo della città e poi da Papa, una ricchezza teologica ed umana da coltivare di fronte alla grande deriva della seconda metà del secolo scorso. Ma anche lui, come Ambrogio, sebbene nel pieno della secolarizzazione e della rottura dell’antico patto costantiniano della cristianità, agiva, diceva e significava qualcosa, non si limitava a ostentare il pudore di una cultura sociale spesso debole, banale.



Ancora sull’imam Tettamanzi

Le accuse fobiche, il bisogno di rassicurazione, l’anima della diocesi


Dionigi Tettamanzi è stato sommerso
da una tale dovizia di abbracci,
dopo l’attacco della Padania, da essere
costretto a ricordare, con buon senso
dell’umorismo che fa a pugni con
certa compunta bolsaggine dei suoi
difensori, di non essere “ancora” un
martire. In un clima più disteso, forse,
ci si potrebbe domandare come mai
l’appellativo “imam” – che può essere
considerato insultante dagli islamofobi
– dovrebbe essere recepito nello
stesso modo da chi, invece, predica
l’esigenza del dialogo e dell’accoglienza
nei confronti degli immigrati
di fede musulmana. Il cardinale arcivescovo
di Milano si sente padre e guida
spirituale di tutti i residenti nella
sua diocesi, anche di quelli non cristiani,
e proprio questo gli viene rimproverato
da chi in questo atteggiamento
coglie un abbandono o addirittura
un disprezzo per le tradizioni
identitarie e popolari.
Si tratta, peraltro, di un problema
ricorrente per la cattedra ambrosiana,
lambita fin dal medio evo da eresie
pauperistiche o dall’apparentemente
opposta supponenza intellettualistica
di derivazione giansenista.
La religiosità popolare radicata nella
tradizione è stata anche combattuta
per i rischi di inquinamento superstizioso
dai teologi dell’Università Cattolica
milanese, che però è per esempio
arrivata a un eccesso quasi persecutorio
nei confronti di padre Pio da
Pietrelcina. La chiesa milanese, nella
quale hanno trovato alimento sia i furori
antirisorgimentali di don Davide
Albertario sia lo spirito conciliatore
di Filippo Meda, è da sempre uno
spazio denso di confronti anche aspri,
espressione di convinzioni profondamente
sentite. Il vescovo ha scelto
una linea pastorale molto caratterizzata
da un’attenzione talvolta ideologica
o meramente sociologica verso
chi sta fuori dalla chiesa, il che ha suscitato
una sorta di risentimento da
parte di chi si sente invece rassicurato
soprattutto dalla continuità, che è
poi uno dei sensi legittimi della tradizione
vivente del cristianesimo. Si
potrebbe impropriamente parlare di
una sorta di gelosia di chi teme di essere
abbandonato dal padre che adotta
altri come figli. L’invettiva contro
“l’imam” esprime un po’ l’amore per
il vescovo.


Il Foglio 9 dic. 2009