La storia è questa. L'azienda di telecomunicazioni più in espansione del mondo si chiama Huawei, arriva dalla Cina, precisamente da Shenzhen, un'ora di macchina a nord di Hong Kong, ed è una specie di fabbrica delle meraviglie. Huawei, il cui nome significa programmaticamente "un successo per la Cina", fornisce ai produttori di cellulari e soprattutto ai gestori delle linee la tecnologia per sviluppare al meglio la banda larga e navigare via telefono, grazie soprattutto alle ormai famosissime chiavette che si collegano ai portatili.
Come Huawei non c'è nessuno, e infatti New York Times e Wall Street Journal saltano sulla storia quando scoprono che i cinesi sono riusciti a rompere le uova nel paniere perfino di quella Scandinavia fino a ieri leader mondiale della tecnologia telefonica. Dovendo rinnovare il proprio network telefonico, la norvegese Telenor ha dato il benservito ai suoi ex clienti, i nordeuropei Ericsson e Nokia-Siemens, per scegliere appunto la ditta di Shenzhen.
Solo Ericsson continua a tenerle testa nella classifica mondiale delle apparecchiature per telefonini: da ieri Huawei è la numero due, avendo scavalcato sia Alcatel-Lucent che Nokia-Siemens. Eppure questo colosso da 80mila dipendenti, fabbrica modello stile Usa, con tanto di angolo karaoke e campo da basket, proprio in America non riesce ancora a sfondare. L'Europa è ai suoi piedi, grazie soprattutto a quelle chiavette di cui copre il 90 per cento del mercato e che con l'esplosione dei laptop e dei netbook, i portatili e i minicomputer, sono diventate il nuovo oggetto tecnologico del desiderio: da Vodafone a Tim in Italia, da Deutsche Telekom a France Télécom a Telefonica, 3 milioni di pezzi venduti. Perché dunque le porte chiuse dell'America?
Gli Stati Uniti sono arrivati addirittura a bloccare un'offerta, l'anno scorso, per l'acquisto di 3Com, un'altra company tecnologica. 3Com fornisce anche sistemi di sicurezza. E gli Usa hanno tirato fuori la benedetta storia di Huawei che sarebbe troppo legata al governo cinese. Anzi ai militari cinesi. Carta canta: il suo fondatore, Ren Zhenfei, è stato proprio un uomo del governo e dei militari, avendo servito per anni nell'Esercito di liberazione del popolo, occupandosi anche lì di tecnologia e software. C'è un rapporto firmato due anni fa dall'autorevole Rand Corporation, l'istituto di ricerca indipendente ma con finanziamenti statali: 332 pagine di dossier riservato all'Air Force in cui si dice che "Huawei mantiene legami profondi con le forze armate cinesi, che dell'azienda sono clienti, sostenitori politici e partner nella ricerca".
Anche in Australia e in Gran Bretagna la società è finita al centro di una campagna di sospetti. Il Times ha parlato della preoccupazione del controspionaggio inglese: un rapporto del presidente del Comitato dell'intelligence, Alex Allan, ha messo in guardia il Parlamento dalla minaccia che arriva dalla Cina.
Chiariamo: in tutti i casi le chiavette non c'entrano niente. Nella fattispecie britannica, per esempio, il timore era che, con l'appalto nel nuovo sistema di British Telecom, i cinesi potessero intrufolarsi nella rete di sicurezza di Sua Maestà. Dice al Times Charles Huang, il direttore marketing: "Se uno da giovane presta servizio nell'esercito e poi si mette in proprio, voi dite che la sua azienda ha un background militare? Me se così fosse, allora temo che l'80 per cento delle aziende di tutto il mondo abbiano legami con i militari".
La saggezza cinese non fa una grinza. La realtà dei report americani inquieta. Proprio l'altro giorno, era toccato al ministero della Difesa di Pechino replicare all'ennesimo atto d'accusa di una commissione bipartisan al Congresso: basta col dire che tutti gli hacker partono da qui, smettetela di guardarci inforcando sempre gli occhiali scuri... Tra cyberguerra e paranoia, non finisce certo qua.
© Riproduzione riservata (1 dicembre 2009)