DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

COME IN CIELO COSI’ IN GUERRA. Il lungo addio alle armi della chiesa novecentesca. Tra profezia, diplomazia e un vago sentore di gnosi

di Maurizio Crippa

Questo è il mio fucile. Ce ne sono
tanti come lui, ma questo è il
mio… Al cospetto di Dio giuro su questo
credo. Il mio fucile e me stesso siamo
i difensori della patria, siamo i dominatori
dei nostri nemici, siamo i
salvatori della nostra vita e così sia,
finché non ci sarà più nemico ma solo
pace. Amen”. Il testo di riferimento,
sul rapporto di natura religiosa che
lega il soldato alla sua arma, è il sulfureo
trattato teologico di Stanley Kubrick,
“Full Metal Jacket”. Sui mirini
dei marine sono incisi riferimenti a
versetti sacri. Quello del vangelo di
Giovanni, “Chi segue me non camminerà
nelle tenebre ma avrà la luce
della vita”, sarebbe piaciuto assai a
Kubrick. Ora la notizia (vedi articolo
in questa pagina), è che la Nuova Zelanda
ritirerà i fucili con quelle iscrizioni
sacre, e anche negli Stati Uniti
la “scoperta” di questo connubio altamente
simbolico tra il Dio cristiano e
la guerra sta provocando polemiche.
Lì la Bibbia di riferimento è quella di
San Giacomo; ma del resto anche nella
chiesa cattolica l’argomento è, da
lungo tempo, estremamente scabroso.
All’Angelus del 18 febbraio 2007, commentando
il precetto evangelico
“amate i vostri nemici”, Benedetto
XVI lo definì “la magna charta della
non violenza cristiana”. E pronunciò
in materia parole di non lieve impegno:
“La non violenza per i cristiani
non è un mero comportamento tattico,
bensì un modo di essere della persona,
l’atteggiamento di chi è così convinto
dell’amore di Dio e della sua potenza,
che non ha paura di affrontare
il male con le sole armi dell’amore e
della verità”. Ora la querelle sui fucili
dei marine riapre una ferita simbolica
della chiesa contemporanea.
All’argomento lo storico contemporaneista
della Normale di Pisa, Daniele
Menozzi, aveva dedicato un libro
molto documentato, “Chiesa, pace
e guerra nel Novecento - Verso una
delegittimazione religiosa dei conflitti”
(Il Mulino, 2008). Che prendeva come
spunto di partenza – ma in realtà
sarebbe quello d’arrivo – proprio
quelle frasi di Benedetto XVI. Vi ripercorreva
il complesso e anche contraddittorio
rapporto tra la chiesa moderna
e la guerra, attraverso l’analisi
del magistero e la minuziosa ricostruzione
del dibattito culturale interno al
mondo cattolico. Come in ogni lavoro
storico c’è una tesi di fondo, per quanto
non eccessivamente forzata. Secondo
Menozzi, quella frase di Benedetto
XVI costituisce il punto d’arrivo – forse
un punto di non ritorno – di un’evoluzione
che attraversa tutto il Secolo
breve e che culminerebbe appunto
nella “delegittimazione dei conflitti”
e nell’assunzione della nonviolenza “a
cifra decisiva della definizione della
corretta forma di presenza dei fedeli
nella vita collettiva”. Un’innovazione
persino rispetto alla “Gaudium et
Spes”, in cui con formula compromissoria
si elogiava sì la non violenza, ma
solo se praticabile “senza pregiudizio
dei diritti e dei doveri degli altri e
della comunità”.
Ma il rifiuto della guerra da parte
della chiesa è davvero univoco e teologicamente
motivato? E se lo è, si
tratta di una posizione davvero sostenibile,
storicamente utile in un contesto
come quello contemporaneo? Pur
esplicitando l’ampiezza delle posizioni
anche nel magistero, Menozzi ritiene
di poter dimostrare che il pendolo
tende ormai a stazionare nel campo
della condanna sic et simpliciter della
guerra. E certe prese di posizione
recenti sul medio oriente sembrerebbero
confermare. Ma dentro e fuori la
chiesa, non è mai venuta meno la posizione
di chi ritiene non sia così. E
che anzi quell’approdo “delegittimante”
non sia scontato né esclusivo. Pena
la rinuncia da parte della chiesa al
proprio essere. Che non è di questo
mondo, ma è pur sempre dentro questo
mondo. Uno degli argomenti cardine
di questa linea lo aveva esplicitato
un politologo liberale come Ernesto
Galli della Loggia, sul Corriere della
Sera, ai tempi del conflitto di Gaza,
che aveva fortemente criticato la pratica
del “rifiuto/denuncia della guerra,
virtualmente di ogni guerra”. Secondo
il politologo, proprio quel rifiuto
di tipo culturale/ideologico renderebbe
oggi più debole, quasi irrilevante,
la posizione della chiesa nella soluzione
di conflitti: “Una vera politica
pacifista è in realtà impossibile per
qualunque organizzazione vasta e
complessa, tutrice di vari e molteplici
interessi, perché, intesa coerentemente,
essa implicherebbe la rinuncia di
fatto a svolgere un qualunque vero
ruolo politico – basato, come questo
inevitabilmente è, sulla contrattazione
(anche del silenzio) e le alleanze –
per limitarsi, viceversa, a un ruolo di
esclusiva testimonianza morale, sempre
e comunque”.
Sulla stessa linea di pensiero si era
sempre schierato, non lesinando le
polemiche, un teologo fieramente anticonciliare,
ma attento alla dimensione
politica, come don Gianni Baget
Bozzo: “La pace è una dimensione
escatologica, perché è dono di Dio ed
è compito della chiesa annunciarla
agli uomini – sosteneva – Ma per sua
natura la chiesa non può nemmeno
sottrarsi alla dimensione storica, nella
quale i conflitti esistono perché fanno
parte della vita imperfetta degli
uomini. Si può forse fare obiezione di
coscienza alla storia?”.
Il libro di Menozzi racconta un percorso
storico e le sue conseguenze culturali.
Punto di partenza è il pontificato
di Benedetto XV, con la celeberrima
frase dell’agosto 1917 in cui, rivolgendosi
alle cancellerie delle potenze
belligeranti, definisce la guerra “inutile
strage”. Ma questa frase non va
confusa con un’improbabile dichiarazione
di pacifismo assoluto. Nella visione
del pontefice prevale piuttosto
la preoccupazione di fronte al “nuovo
ordine mondiale” ormai affermatosi e
nel quale una chiesa in difficoltà ha
perduto il suo ruolo di guida morale.
In sostanza, la guerra è “inutile strage”
perché è figlia delle colpe del
mondo moderno. E solo una rinnovata
accettazione dei precetti cristiani consentirà
alle nazioni di ritrovare pace
e giustizia. Il “peccato delle nazioni”,
dirà Benedetto XV nella sua prima
enciclica, è che “si è lasciato di osservare
nell’ordinamento statale le norme
e le pratiche della cristiana saggezza,
le quali garantivano esse sole la
stabilità e la quiete delle istituzioni”.
E’ interessante notare che questa visione
quasi “medievale”, annota Menozzi,
ritorna alla fine del secolo anche
in Giovanni Paolo II. In pratica,
una costante del papato novecentesco
in base alla quale “solo il perseguimento
di un ordine voluto da Dio può
portare alla costruzione di una pace
autentica, sicché la chiesa, cui spetta
la capacità di definire i criteri per stabilire
tale ordine nelle relazioni tra i
popoli e gli stati, è in grado di indicare
con il suo insegnamento morale le
vie per scongiurare quel ‘quadro di
morte’ che grava sull’umanità”. In tale
linea si colloca anche il non facile
rapporto del papato con l’istituzione
sovranazionale che si impone come
nuovo arbitro dei rapporti tra gli stati:
dagli iniziali sospetti verso la “massonica”
Società delle Nazioni alla fiducia
accordata all’Onu da Giovanni
XXIII e Paolo VI – esemplare il suo
viaggio al Palazzo di Vetro nel 1965 –
fino al ritorno di un rapporto più conflittuale
nel dopo Guerra fredda. Il
pontificato di Giovanni Paolo II è ricco
di appelli all’Onu per interventi
umanitari, di peace-keeping e addirittura
di “ingerenza umanitaria”, come
per la ex Jugoslavia. Ma allo stesso
tempo torna il giudizio negativo sull’insufficienza
dell’ideologia onusiana
per ciò che riguarda i “veri valori”
umani: quelli che Benedetto XVI indicherà
come i “valori non negoziabili”.
Un percorso di “lenti slittamenti”, attraverso
il quale Menozzi ripercorre
“il lungo e frastagliato dibattito che ha
portato nel corso di circa cento anni la
chiesa cattolica a svuotare – o almeno
a elaborare una retorica discorsiva
che tende a svuotare – la guerra della
legittimazione religiosa a essa assicurata
da una lunghissima tradizione
teologica e da una concreta prassi ecclesiastica”.
Svuotamento e retorica
discorsiva sono proprio i due termini
chiave: non una rivoluzione dottrinale,
non un pronunciamento in punta
di teologia o diritto. Ma un progressivo
cambio di atteggiamento, secondo
Menozzi, che è nei decenni proceduto
di pari passo ad altri cambiamenti
dell’autocoscienza ecclesiale. E attraverso
alcuni passaggi simbolici chiave:
come la frase di Pio XII, “con la
guerra tutto è perduto, con la pace tutto
è salvo” e soprattutto la “Pacem in
terris” di Giovanni XXIII (1963), con la
sua celebre affermazione: “Riesce
quasi impossibile pensare che nell’era
atomica la guerra possa essere utilizzata
come strumento di giustizia”.
La guerra “impensabile” di Papa
Giovanni è anche il discrimine che, da
allora, divide i cattolici in pacifisti integrali
e realisti problematici. Dell’enciclica
di Roncalli, Menozzi tende a
sottolineare la continuità con il precedente
magistero, smussandone la radicalità
al di là di una certa retorica sui
roncalliani “segni dei tempi” di cui
l’enciclica sulla pace sarebbe uno dei
massimi esempi. Basterebbe invece
ripercorre il lungo e poliedrico, a tratti
quasi contraddittorio, pontificato di
Giovanni Paolo II per rendersi conto
che l’aut-aut è impossibile. Wojtyla ha
alternato la condanna radicale della
guerra (“Oggi la portata e l’orrore della
guerra moderna, sia essa nucleare
o convenzionale, rendono questa guerra
totalmente inaccettabile come mezzo
per comporre dispute e vertenze
tra le nazioni”, a Coventry nel 1982) all’invocazione
dei bombardamenti
umanitari, all’esaltazione del dovere
di resistenza armata per legittima difesa,
all’anatema contro la violenza di
matrice religiosa e ogni guerra santa:
(“Basta con la guerra in nome di Dio!
Basta con la profanazione del Suo Nome
santo!”, in Azerbaijan nel 2002).
Ciò nonostante un lavoro come quello
di Menozzi, a oggi una delle rassegne
più complete sull’argomento, sembra
indicare come il mainstream incontrovertibile
della chiesa novecentesca
sia appunto quello della delegittimazione
e di un progressivo approdo a
un pacifismo pieno. Addio alle armi.
Ma non essendo il rifiuto della forza
militare codificato da pronunciamenti
del magistero – “la possibilità di una
‘guerra giusta’ non viene esclusa in via
di principio e la proscrizione del conflitto
è presentata come un’aspirazione
o un esito di un cammino che nella
situazione del presente è ancora da intraprendere”
- ammette Menozzi, questo
approdo disarmato non può essere
considerato definitivo. E anzi può essere
sottoposto alla critica, oltre che
della teologia, della dimensione storica.
“Ad esempio andrebbe detto che,
accanto alla sacrosanta ‘inutile strage’,
chiunque ami la libertà e la giustizia
non può che benedire la Seconda
guerra mondiale; e anzi ancora in questi
giorni vediamo le conseguenze negative
di una certa timidezza diplomatica
che la chiesa ebbe nello schierarsi
subito contro Hitler”. Nell’analisi di
Vittorio Emanuele Parsi, docente di
Relazioni internazionali all’Università
Cattolica di Milano, ma che preferisce
guardare le cose dal punto di vista laico
dello scienziato della politica, le
dottrine cristalline applicate alla
realtà mostrano sempre qualche contraddizione.
Il percorso della chiesa
andrebbe inquadrato in prospettiva:
“In un certo profetismo di Giovanni
XXIII e dei suoi fan c’è ad esempio un
errore di valutazione. La guerra ‘sistemica’,
il grande conflitto, esce dalla
storia e diventa impraticabile nell’occidente
del secondo Novecento per
motivi ‘tecnici’ e non certo morali. Perché
la bomba atomica c’è, non perché
la morale mette fuori gioco la bomba
atomica. Dire che la guerra non è più
possibile è un po’ una profezia che si
autoavvera. In realtà la riflessione della
chiesa segue, e non precede, il diritto
internazionale. E’ il diritto che autonomamente
e progressivamente limita
il ricorso al conflitto, non la religione”.
Secondo Parsi, con la negazione teorica
del conflitto il pensiero della chiesa
rischierebbe l’anacronismo, nel
senso letterale di collocarsi fuori dalla
storia: non funziona in ogni luogo e
tempo, come invece pretenderebbe:
“La chiesa insiste su un elemento profetico,
la pace. Ma finisce per mettersi
in asincrono con il mondo: perché laddove
il conflitto esiste, l’unico uso della
forza ‘proporzionato’ è quello che ti
fa vincere”. Un’affermazione di ferrea
logica, che sembra la traduzione in
chiave politica della “fede” scritta sui
fucili dei marine.
Un teologo-politologo come Baget
Bozzo, invece, preferiva sottoporre il
percorso “pacifista” della chiesa a
una serrata critica storico-teologica:
“Definire la guerra ‘inutile’ e dunque
mettersi in posizione di neutralità è
stato il modo con cui il papato, perso
il potere temporale, si è posto al riparo
come istituzione. Bene. Ma per gli
episcopati nazionali non è mai stato
così, non hanno mai smesso di avere
cappellani militari o di sostenere i
soldati in guerra. Perché la chiesa è
nella storia, e mentre riconosce la pace
dono di Dio nell’ordine spirituale,
riconosce all’ordine temporale il diritto
e dovere di provvedere al bene comune.
Quindi riconosce agli stati la liceità
di decidere sulla guerra. Se negasse
legittimità a questo ordine temporale,
se negasse di farne parte, diventerebbe
gnostica. Direbbe che la
materia è cattiva e si ritirerebbe dal
mondo. Cioè tradirebbe la sua natura”.
Giusto che la chiesa oggi non benedica
più i fucili degli eserciti, e
chieda soluzioni pacifiche. Ma, come
ricordava Baget Bozzo, diverso sarebbe
negare l’ordine naturale: “Sarebbe
tradire la propria natura. Per questo
il pacifismo assoluto è in realtà anticristiano,
è gnostico”. E invece i soldati
hanno sempre pregato, aggrappati
alla canna del proprio fucile.


Il Pentagono difende i versetti sui fucili.“Elimineremo ‘In God we trust’ dal dollaro?”


Roma. Il portavoce del comando centrale americano,
John Redfield, non vuole sentir parlare di ritiro
dal mercato dei migliori mirini per i fucili: “Smetteremo
di usare il denaro perché sulle banconote c’è
scritto ‘In God we trust’?”. La Trijicon del Michigan,
ditta fornitrice dei mirini ad alta precisione dei marine,
è da trent’anni che iscrive in codice sui mirini
passi della Bibbia (versione di re Giacomo). Un
esempio è “JN 8:12”, l’invito di Gesù sul vangelo di
Giovanni: “Chi segue me non camminerà nelle tenebre
ma avrà la luce della vita”. Un altro è “2 COR
4:6”, un passo della seconda lettera di san Paolo ai
Corinzi, dove si parla della “gloria divina che rifulge
sul volto di Cristo”.
La Trijicon fornisce ai marine 800 mila mirini ogni
anno, e ne fornisce altrettanti all’esercito, per 660
milioni di dollari. L’azienda e il Pentagono sono al
centro di uno dei casi più eclatanti sul primo emendamento
che impone la neutralità religiosa e vieta il
proselitismo nelle forze armate. La rivelazione della
Abc ha già diviso il Congresso. Secondo i liberal,
ai musulmani i codici della Trijicon possono evocare
il ricordo delle crociate, termine usato dal presidente
Bush, che poi lo abbandonò, per la lotta al terrorismo.
Secondo i conservatori e i repubblicani i
codici della Trijicon sono di conforto ai soldati che
nutrono una profonda fede cristiana. Il fondatore
della Trijicon, Glen Bunde, era molto religioso ed
esigeva che i dipendenti conoscessero la Bibbia. L’America,
ribadisce la Trijicon nel difendere i suoi fucili,
“è una nazione buona perché i suoi valori si basano
sull’insegnamento biblico” che non deve essere
abbandonato. La ditta aggiunge di far parte dell’establishment
industriale militare perché crede
nelle guerre giuste.
Un anno fa era
uscita la notizia che
sui frontespizi dei
memorandum di intelligence
che l’allora
segretario alla difesa
Donald Rumsfeld faceva
quotidianamente
arrivare sulla scrivania
del presidente George W. Bush, foto a colori
della guerra in Iraq venivano accompagnate da citazioni
di versetti della Bibbia. Su un memorandum
del 31 marzo 2003 si vede un carro armato che attraversa
il deserto accompagnato da un versetto della
lettera agli Efesini: “Prendete l’armatura di Dio, perché
possiate resistere nel giorno malvagio e restare
in piedi dopo aver superato tutte le prove”. Poi un riferimento
al libro di Giosuè: “Sii coraggioso e forte,
non essere spaventato perché il signore tuo Dio sarà
con te dovunque tu vada”. Nel 2008 un gruppo di allievi
della più prestigiosa accademia militare americana,
West Point, sostenuti dall’organizzazione liberal
Aclu, aveva deciso di fare causa alla propria
istituzione. Il motivo era la predicazione religiosa
cristiana sempre più invasiva a West Point e all’accademia
navale di Annapolis. Una precedente controversia
aveva costretto l’accademia dei piloti a scoraggiare
preghiere pubbliche alle cerimonie e agli
incontri. Nel 2003 il generale William Boykin aveva
detto al Pentagono, destando polemiche senza precedenti,
che “Dio è la vera patria e le forze armate
sono la sua casa”. L’ex speechwriter di Bush, Michael
Gerson, oggi columnist del Washington Post, ricorda
che non sono stati i repubblicani a portare la
Bibbia nell’esercito americano. Il presidente democratico
Roosevelt era solito definire la Seconda
guerra mondiale come “lo scontro mortale fra la croce
e la svastica”. E di citazioni simili abbonda l’intera
storia militare americana. “Questo della Trijicon
è il miglior esempio di violazione della separazione
tra stato e chiesa”, dice Michael Weinstein della Military
Religious Freedom Foundation. La Nuova Zelanda
ha annunciato che ritirerà i fucili con iscrizioni
bibliche e l’Inghilterra sembra avviata sulla stessa
strada. La Trijicon si difende così: “Aiutiamo i soldati
a vincere la guerra al terrore e a tornare a casa
salvi dalle proprie famiglie. Incidiamo le scritture
sui nostri prodotti da trent’anni”.

Giulio Meotti

Il Foglio 22 gennaio 2010