Qui si impara a respirare di nuovo dopo
essere stati attaccati alle macchine, a
camminare dopo mesi passati a letto, o si
cerca di mantenere vivi i muscoli mentre
una malattia cerca di mangiarseli. In una
stanza grande, con porte aperte alla famiglia
senza orari di visita. Qui è il Santa Lucia,
la clinica di Roma specializzata in riabilitazione
di casi gravi che ha battuto gli
istituti più rinomati d’Italia nella produttività
scientifica e ha pazienti che arrivano
da tutte le regioni. Un funzionario statale
ha raccontato candidamente che le uniche
richieste di raccomandazioni che ha ricevuto
in vent’anni erano per l’accettazione
al Santa Lucia. La sua eccellenza, però,
per la sanità disastrata e commissariata
del Lazio, costa troppo. L’anno scorso, per
far quadrare i conti, con un paio di decreti
la giunta Marrazzo ha equiparato il Santa
Lucia – che si era guadagnato lo status
di Istituto di ricovero e cura a carattere
scientifico (Irccs) – a una clinica privata.
Risultato: fondi tagliati e 241 procedure di
licenziamento avviate. Perché nella sanità
ogni diagnosi equivale a un codice, e ogni
codice a un pagamento erogato dal servizio
sanitario alla struttura. Stessa cifra per
tutti, qualsiasi sia la qualità (e quindi il costo)
del servizio. “Non si può frazionare la
torta in parti uguali – dice Rita Formisano,
primario dell’Unità post-coma dell’ospedale
–, con quei pochi soldi non possiamo
mantenere i nostri standard”. In più adesso
il Santa Lucia risulta pure insolvente:
dopo aver fatto una cessione di crediti alla
regione per pagare i contributi dei dipendenti,
ha ricevuto un’ingiunzione di pagamento
dall’Inps. La struttura ha fatto un
ricorso sui decreti, su cui il tar si pronuncerà
il 29 gennaio, ha raccolto 42 mila firme
in due mesi ed è andata a battagliare.
Al termine di una tregiorni di manifestazioni
e incontri, il risultato è stata soltanto
una proposta da parte della regione di un
nuovo decreto che adesso l’Irccs valuterà.
Eppure questi in realtà sono i tagli alla vera
ricerca, perché è nelle strutture in cui
si lavora con i pazienti che si è arrivati, ad
esempio, a mettere in discussione la definizione
di “coma vegetativo”, una diagnosi
risultata sbagliata nel 40 per cento dei
casi. Oliva, immobile in un letto da tre mesi
e nessuna risposta agli stimoli dei dottori,
in una di queste stanze si è messa a
muovere le labbra sentendo i suoi che attorno
le intonavano canzoni romane. C’è
bisogno sempre di soldi anche per le terapie
che un gruppo di malati di Sla (sclerosi
laterale amiotrofica, una malattia che
porta alla progressiva paralisi e alla morte)
chiedono in una lettera al presidente
Giorgio Napolitano. Le stesse terapie, basate
sull’impianto di cellule staminali autologhe
(cioè del paziente stesso) che su
Mario Melazzini, presidente dell’Associazione
italiana Sla, sembrano aver portato
a un notevole miglioramento. Quello che
chiedono, però, è un protocollo sperimentale:
nessuna certezza di un risultato e costi
altissimi. Si rivolgono a Napolitano per
“la parità di diritti tra i cittadini riguardo
a trattamenti salvavita”. Ed ecco la nuova
frontiera della bioetica, quella pratica, che
si gioca tutta sui conti: la necessità di garantire
a tutti pari accesso alle terapie. (vf)
Il Foglio 22 gennaio 2010