DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

CONTINENTE REALITY. Tutti grufolano in tv, poi uno esce e spara sui colleghi. Che succede all’America?

di Stefano Pistolini
La televisione americana. Per anni
abbiamo assunto un atteggiamento
divertito e sconsolato, osservando
(non guardando: atteggiandoci, snobisticamente,
a “osservare” dal di fuori,
sottovalutando che buona parte della
nazione “guardasse” quella roba con
partecipazione) qualche imbonitore,
(sì, Springer e Geraldo. Ma perché
glissare su Oprah, Whoopi o Martha
Stewart, coi loro birignao perbenistici?)
che grufolava quotidianamente
nella melma di adulteri, corna vissute,
soldi fregati, frocerie nascoste, su,
fino ai complotti comunisti, alternando
il tutto con gli ultimi beneficiari
del quarto d’ora di celebrità, a base di
tette enormi, addominali a tartaruga,
mascella volitiva, insomma planando
verso il nuovo continente-reality.
Non capisco perché si debba tergiversare,
e non dirlo chiaro: una nazione
non può impunemente convivere
con una tv del genere, tanto più dopo
averle affidato un simile compito rappresentativo
del sé. Non ci si può
ubriacare di quella roba e restare gli
stessi. O somigliare a quelli che ti hanno
preceduto. Non è dato. E’ impensabile.
Non importa che qualche tv produca
magnifici serial o sofisticate inchieste.
Quelle sono per lo stesso pubblico
che frequenta Barnes & Noble
(sapete, nei numeri reali, quanto vende
la celebrata saggistica politica d’oltreoceano,
a fronte di centinaia di milioni
di potenziali lettori? A parte i casi
mediatici, siamo nell’ordine delle
pochissime migliaia di copie, due o
tremila, un’incidenza ridicola, un giochetto
privato, un dato che riscatta i
famosi “italiani che non leggono”).
Perciò non si parli di doppio binario,
qualità da un lato e “puro intrattenimento”
dall’altro, con contorno di contaminazioni:
una nazione non può impunemente
esporsi a lungo a radiazioni
del genere. Lo fa a suo rischio e
pericolo. L’infezione sociale è inevitabile.
E’ insidiosa. Attacca il tessuto
connettivo nazionale. I linguaggi. Modifica
le aspirazioni. Crea miraggi e
false illusioni. Incide sulla definizione
degli obiettivi esistenziali dei giovani,
ottunde il desiderio di riscatto
degli adulti, li lascia sprofondare nella
suggestione del transfert. In questa
inchiesta ci torneremo, parlando di
palinsesti del contemporaneo chiamati
“celebrità”, “scandalo”, “gossip”,
che si raggruppano all’ombra della filosofia
della seconda realtà, ovvero di
quel “reality” che non si limita a giacere
accanto al nostro rapporto con la
realtà, ma la corrode, la inquina, generando
cluster di spostati dei quali
la società americana non può fingere
d’ignorare l’esistenza. Non si può pretendere
che la natura americana modificata
– attraverso l’uso di questi stupefacenti
mediatici – reagisca con la
medesima prontezza e dignità a cui
l’America ha abituato il mondo nel
XX secolo. Minimizzare la modificazione
dell’immaginario condiviso è
becera superficialità.
In che modo un’amministrazione
nazionale potrebbe incidere su questa
condizione? Cosa pensa Barack Obama
riguardo al governare l’ultimo stadio
d’una società dello spettacolo, la
stessa che, in quanto tale, ha reso possibile
la sua vertiginosa ascesa? E
quanto si stuzzicano, con questi discorsi,
gli inalienabili diritti di autodeterminazione
del cittadino americano,
allorché, in modo flagrante, è
prigioniero di un inganno?
* * *
C’è un curioso contrappasso mediatico
alla singhiozzante passione popolare
americana per le playmate arrostite
o disossate: la sindrome dello
sparatore solitario. Questa notizia ricorrente,
ritmica, disarmante e sempre
uguale, agli americani non piace.
Giornali e tv (con la scusa di non eccitare
le imitazioni) stanno attenti a tenerla
bassa, appena sopra l’invisibile.
E invece è diventato un ingrediente
indispensabile del presente. L’ultimo
caso di “shooting spree”, come lo chiamano
loro? Difficilmente ve ne sarete
accorti, dopo che il silenzio ha avvolto
come un lenzuolo anche i misteriosi
fatti di Fort Hood, Texas e il piano di
distruzione di massa apparentemente
generato solo dal delirio di Nidal Maliq
Hasan, soldato americano & musulmano,
caduto in contraddizione
con se stesso e ora in attesa del finale
in un aula di giustizia, con contorno di
pena capitale. Lo “spree” in questione
(traducibile con “festival della revolverata”,
o “baldoria di piombo”, o
“pioggia di sangue” come il tetro,
grande film di John McNaughton), insomma
l’ultimo taglio mortale nel tessuto
americano, è andato in scena due
settimane fa a St. Louis, con impressionante
adesione al copione: Timothy
G. Hendron ha ucciso tre persone, ne
ha ferite cinque e poi s’è tolto la vita
sul posto di lavoro, la Abb Inc, ditta di
trasformazione manufatturiera, dove
stava portando avanti una rivendicazione
pensionistica i cui ultimi sviluppi,
evidentemente devono essergli piaciuti
poco. Timothy è arrivato in ufficio
alle 6.30 del mattino vestito al solito
modo, camicia celeste button down
e pantaloni sportivi, però questa volta
ha portato con sé due pistole, due fucili
e dozzine di caricatori. In tutto ha
esploso un centinaio di colpi negli uffici
della società che s’affacciano tristemente
su un’autostrada. Hendron
aveva 51 anni e dal 2006, con altri impiegati,
aveva iniziato un’azione contro
l’operato degli amministratori della
Abb preposti ai piani pensione, accusandoli
di produrre costi irragionevoli.
La relativa causa sarebbe cominciata
tra pochi giorni, ma Timothy evidentemente
ha pensato fosse il caso
d’arrivare subito alla sentenza. Prima
che la notizia sparisse dai telegiornali,
ingoiata dagli aggiornamenti metereologici,
s’è fatto in tempo a vedere
qualche intervista con cerei sceriffi,
sconvolti da quanto avevano trovato
sulla scena del delitto, e poi le rituali
riprese degli scampati che correvano
fuori dagli edifici della ditta, s’abbracciavano,
piangevano come bambini,
il tutto sotto un’altra fitta nevicata,
di quelle che stanno trasformando
Al Gore in una barzelletta nazionale,
superato solo dai propugnatori della
vaccinazione collettiva degli americani
contro l’influenza suina.
* * *
Incollati alle loro televisioni, ai loro
debiti, alle loro ansie e a ciò che resta
dei loro posti di lavoro, oggi gli
americani hanno smesso anche di fare
una delle cose che gli riusciva meglio
e per la quale s’erano guadagnati
un’invidiata reputazione: spostarsi, fare
della mobilità e del cambio di contesto
esistenziale una gioiosa virtù.
Nel 2009 il tasso di mobilità è sceso
sotto i livelli del Secondo dopoguerra.
Colpa della recessione e delle opportunità
d’impiego che si riducono
drammaticamente. Meglio essere
guardinghi e pesare le probabilità,
quando negli anni Cinquanta il 20 percento
degli americani ogni anno cambiava
aria, sull’onda dell’ottimismo.
Oggi è la disperazione (non il miglioramento
progressivo) il principale motore
di migrazione interna. Si va via
quando non si può far altro che andare
in cerca di un barlume. A spostarsi,
perciò, sono soprattutto quelli alla base
della piramide sociale, perché dove
sono non riescono a garantirsi un
futuro accettabile. E’ la miseria a
spingerli, non la ricerca della felicità.
L’abile comunicatore Richard Florida
del Martin Prosperity Institute di
Toronto teorizza che il rallentamento
della mobilità fisica influisca sulla
mobilità sociale. Ovvero che, se si rinuncia
ad andare a caccia di possibilità,
s’irrigidisce la flessibilità sociale.
Del resto, se si guarda altrove rispetto
al mondo dei diseredati, la mobilità
oggi pare restare prerogativa soprattutto
dei giovani in possesso di buona
educazione e specializzazione. Il rallentamento
del fenomeno ha inoltre
prodotto la polarizzazione in un ristretto
numero di aree: se ci si muove,
si va a San Francisco, L.A., New York,
Boston, Washington, Chicago, Denver
e Seattle. Una nuova barriera trasversale
divide l’America del presente:
quella tra chi ha ancora voglia, coraggio
e visione di gioco per muoversi e
chi si sente incastrato nelle maniglie
di sopravvivenza e nel suo mutuo, che
si gonfia anziché estinguersi.
Siamo al cospetto di un altro segnale
di decadenza, tradimento delle promesse
e perciò di barbarico inganno:
il pubblicizzato sogno – accessibile a
tutti – di possedere una casa si rivela
una trappola che incatena la magia
americana di muoversi per lo sconfinato
territorio, rinnovando all’infinito
la scommessa verso il successo. Questa
infame speculazione del capitalismo
ai danni del cittadino può ridimensionarsi
senza altro spargimento
di lacrime? I sogni offerti agli americani
come ricompensa ai loro sforzi
produttivi e alla loro buona condotta
sociale possono tornare tali, rinnegando
il formato di ciniche illusioni?
Il giorno in cui il mercato del lavoro e
quello immobiliare torneranno a volgere
al bello, ritroveranno vigore gli
istinti alla scoperta e alla sperimentazione,
quelli che seguirono lo slogan
“Go West”?
* * *
Tutto è abbondante in America. Anche
il numero degli abitanti nati fuori
dai confini nazionali: 38 dei 330 milioni
di americani. Disseminate in ogni
angolo del paese, ci sono comunità
pronte ad accogliere i connazionali. I
cittadini del mondo continuano a puntare
sull’America, perché America significa
libertà – una speranza e un’utopia
in parecchi altri posti del pianeta.
Libertà di tutto, come assapora
chiunque ci abiti. Libertà di religione,
libertà di stile di vita, libertà di educazione
dei figli. Con 50 stati pronti a
offrire 50 diverse strade verso questa
libertà. C’è chi però sostiene che, col
tempo, la potenza e l’indipendenza di
questi insediamenti forestieri in America
abbia prodotto una doppia cultura:
quella originale anglosassone e
quella “immigrata”, appannaggio in
primo luogo di ispanici e orientali, le
cui comunità sono in esplosiva espansione,
con relativa mutazione demografica
del paese. Samuel Huntington
scrive che “gli Stati Uniti sono divisi
in due popoli: i protestanti che costruirono
il Sogno Americano e coloro
che ne rifiutano l’assunto”. Creando
così zone culturali chiuse, diffuse a
macchia di leopardo sulla mappa
americana, impermeabili e, ciò che è
peggio, per lo più indifferenti alle
istanze “classiche” di americanità. La
tecnologia permette agli emigranti di
tenersi in contatto con la terra d’origine,
allentando la tensione a “diventare
americani”, l’urgenza a mimetizzarsi
nel modello. E si può già tornare
a parlare di tv: i segnali satellite delle
emittenti del proprio paese e nella
propria lingua, nonché il successo delle
televisioni etniche che ne ricalcano
il modello ottusamente popolare, promulgano
una bruttezza culturale di
razza che oggi – date le percentuali
d’incidenza etnica sulla cittadinanza –
diventa a pieno diritto una bruttezza
americana, possente e vitaminica nella
sua rumorosità.
L’annacquamento delle percentuali
anglosassoni minaccia i principi culturali
su cui fu edificata la nazione. Ma
questo non è un procedimento su cui
si possa moralizzare o, peggio ancora,
esporre posizionamenti emotivi. E’,
semplicemente, un cambiamento evolutivo.
E che l’America “bianca” sia in
declino è constatazione difficilmente
contestabile. Che nel momento di crisi,
le comunità etniche siano rimaste
divise, appartate, concorrenti è un altro
fatto. Ne discende (ascoltate una
qualsiasi talk radio per “white folks”
per verificare) che i bianchi si sentano
assediati, sotto attacco e intenzionati a
vender cara la pelle, nel nome dei propri
privilegi (razziali). Gli “altri”, al
contrario, sembrano impegnati a sottrarre
loro brandelli di benessere e di
qualità, un pezzo alla volta. Nel 2050
gli americani saranno 500 milioni e le
percentuali etniche di questa cifra saranno
drammaticamente diverse da
oggi e dal secondo Novecento che ha
stabilizzato l’immagine americana
“classica”. Per la “buona vecchia
America” l’esperienza è dunque agli
sgoccioli e nulla modificherà questa
deriva. Il ragionamento allora deve
sottrarsi alla nostalgia e scovare ragioni
di positività nel nuovo scenario.
La prosperità americana è nata sul desiderio
di altri popoli di migrare verso
il suo territorio, portando talento, intelligenza
e manodopera pronta a coprire
le mansioni più umili. Ma, in parte,
oggi ciò è meno vero che in passato.
Oggi tante menti brillanti considerano
la possibilità di riprendere la strada
di casa, o si vedono offrire, da parte di
economie emergenti come India o Cina,
opportunità professionali allettanti
quanto quelle americane.
Dalla parte degli Stati Uniti c’è
però la storia. C’è il capolavoro prodotto.
C’è la testimonianza di ciò che
in quel luogo e nel solco di quel sistema
è stato realizzato. L’America non
smette di avere un vantaggio indubitabile:
la libertà appunto. La sensazione
che laggiù la vita possa essere
un’esperienza eccellente. Una bella,
fruttuosa vita. Riservata però a un popolo
che sarà diverso da quello che
l’ha preceduto. Come fu inedito e diverso
il popolo americano nel suo primo
assortirsi, fondersi e formarsi. Valutando
che tutto ciò mai sarebbe accaduto
senza che a governare il procedimento
ci fossero gli intelletti e le
azioni dei padri fondatori. I leader.
L’élite. Dunque l’allestimento di una
nuova élite sociopolitica è la prima
urgenza per l’America che si riscopre
fragile a inizio XXI secolo. E non è
detto che le stesse categorie di provenienza
di questa leadership, la borghesia
illuminata e coltivata all’amministrazione
della cosa pubblica nel
perenne interscambio col patrimonio
d’individualismo degli americani, continuino
a costituire la scelta obbligata,
per l’individuazione di questi protagonisti-
guida dell’immediato futuro.
Forse è ora di guardare anche altrove.
E’ il momento di considerare che l’edificazione
d’una monumentale società
dello spettacolo abbia reso la politica
“oggetto” e i comunicatori in
questione “soggetti” primari della
rappresentazione. Certo, non è facile
dar credito a questo filo del discorso.
Lo scetticismo, quando non l’avversione,
prevale allorché s’analizza la crescente
migrazione di personalità dello
show business e dell’informazione
verso la politica formato XXI secolo.
Davvero costoro possono aspirare a
tanto? Davvero il commediante diventa
legislatore? Davvero le reazioni di
un intrattenitore possono essere le
migliori possibili a una qualsiasi delle
emergenze del contemporaneo? Chi
sono davvero Rush Limbaugh, Glenn
Branca, Lou Dobbs, Sean Hannity, Al
Franken e che cosa possono pretendere
dagli americani? Davvero Mike
Huckabee e Sarah Palin credono di
poter andare su è giù tra tv e politica,
neppure fossero in ascensore? Ma soprattutto:
come mai, nessuno davvero,
a parte il desk del New York Times,
ormai si scandalizza più di questo andirivieni
di ruoli e linguaggi, quando
qui si tratta di riscattare l’America?

(La prima puntata è stata
pubblicata il 20 gennaio 2010)

Il Foglio 29 gennaio 2010