DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Copti I monasteri del deserto FRA CRONACA E REALTÀ FRA STORIA E TEOLOGIA



Dal Delta del Nilo ad Assuan: le palestre dei primi atleti di Dio Oasi di salvezza: dove la pianta del Vangelo vive da 2000 anni

di
Aristide Malnati di Enzo Bianchi
I



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San Paolo

Si trova 40 chilometri a sud del villaggio di Zafarana, all’interno della strada, che costeggiando il Mar Rosso, conduce a Hurgada. Ha oggi una comunità di 150 monaci, guidati dal vescovo Daniele. Importanti lavori di restauro ad opera di italiani e americani sono stati eseguiti nell’antica chiesa di San Paolo Eremita, sugli affreschi a tematiche sacre e sul prezioso manoscritto del commentario all’Epistola
di Tito di san Giovanni Crisostomo.
splendidamente affrescata si fonda su radici che si perdono nel mito dell’agiografia, legato com’è alla figura di san Paolo eremita: costui fu un ricco borghese, un cristiano tiepido e distratto, che abbandonò il mondo, la vita civile per ritirarsi in una grotta, dove sperimentare concretamente la purezza del Vangelo, nutrito per anni da tozzi di pane portati da un corvo. Accanto all’anfratto del santo fu edificato attorno al 450 un’imponente struttura monastica, destinata ad accogliere una comunità sempre più corposa e punto di riferimento di pellegrini in cerca di pace e meditazione: una comunità che però mantenne e mantiene i contatti con la società civile in un incessante scambio di esperienze e suggestioni. E lo stesso accade nel vicino monastero-gemello di Sant’Antonio, anch’esso dalle radici profonde, innervate sulla figura di Antonio abate, a lungo eremita in una grotta immediatamente a nord del cenobio. «È proprio nello spirito del nostro fondatore e del Vangelo, che offriamo ascolto e dialogo a chiunque», dice il priore padre Justus, «e non cesseremo di farlo neppure dopo i cruenti attacchi della settimana scorsa: già in epoca medievale i monasteri e la comunità copta subirono feroci devastazioni, in particolare da tribù beduine passate all’islam. Abbiamo sempre lasciato aperte le nostre porte; e siamo ancora qua, attivi e instancabili nella predicazione del

Sant’Antonio

Sorge 20 chilometri a nord di San Paolo, con il quale condivide una fondazione simile. Ha una comunità di 120 monaci, guidati dall’abate priore Justus. Anche qui si sono ultimati importanti restauri di affreschi e antichi manoscritti.

Monasteri di Wadi El Natrun

Sono 4 cenobi, posti a 100 chilometri a nord del Cairo sulla strada che conduce ad Alessandria attraversando il deserto: San Macario, il monastero dei Siriani, Amba Bishoi e il monastero dei Romani. Ancora oggi sede di un importante gruppo di monaci ( circa 500), presenti nei luoghi in cui si stabilirono i primi anacoreti nel IV- V secolo: sant’Amon e san Macario il Grande, guide spirituali di più di mille anacoreti e cenobiti nell’adiacente deserto di Scete. Qui, prima della costruzione dei monasteri, vivevano nei
kéllia , le cellette e grotte nel deserto, come quelle riportate alla luce dall’équipe, guidata da padre Pierre Laferrière.
Il monastero dell’Arcangelo Gabriele si fonda su un antico fatto di sangue, che costò la vita ai padri fondatori dello stesso comprensorio monastico e che costituisce ancora oggi uno degli esempi più fulgidi e perenni di martirio del proto­cristianesimo: dodici monaci furono torturati e decapitati da predoni, verosimilmente dai Blemmi, nomadi devastatori che infestavano il Nord Africa
Ogni giorno – mi confidava un monaco di San Macario – leggiamo in refettorio i detti dei padri, ascoltiamo le loro parole, abitiamo i loro spazi, ne veneriamo le reliquie, ma non cerchiamo di imitarne i gesti: imitarli, infatti, sarebbe tradirli. Dobbiamo invece cercare quali gesti, qui e oggi, compiuti da noi, rendono testimonianza dell’unico Spirito che li animava e che deve animare anche noi!
San Menas



sua doppiezza. In quest’ottica «abbandonare il mondo» significa in realtà contribuire a salvarlo salvando se stessi, come aveva ben sottolineato Thomas Merton, che dal suo eremo nel Kentucky così scriveva a proposito dei padri del deserto: «Gli eremiti copti, che abbandonavano il mondo come se sfuggissero a un naufragio, non intendevano salvare unicamente se stessi. Sapevano di essere impotenti a fare del bene agli altri finché fossero rimasti lì a dibattersi fra i relitti. Ma una volta che fossero riusciti a mettere piede sulla terra ferma, le cose sarebbero cambiate: allora, non solo sarebbero stati in grado, ma avrebbero avuto addirittura il dovere di trascinare dietro a sé il mondo intero verso la salvezza». E in questo, l’esempio dei primi monaci è riletto con sapienza dai loro successori del XXI secolo: «Ogni giorno – mi confidava un monaco di San Macario – leggiamo in refettorio i detti dei padri, ascoltiamo le loro parole, abitiamo i loro spazi, ne veneriamo le reliquie, ma non cerchiamo di imitarne i gesti: imitarli, infatti, sarebbe tradirli. Dobbiamo invece cercare quali gesti, qui e oggi, compiuti da noi, rendono testimonianza dell’unico Spirito che li animava e che deve animare anche noi!». Sì, oggi non possiamo più rifare le stesse cose che facevano loro, soprattutto non ci è più dato di rinnovare quel gesto allora inaudito di rompere con la realtà circostante per fuggire nel deserto e dar vita a una realtà altra, fino a quel momento inesistente. Però possiamo, ciascuno di noi può essere altrettanto radicale nel rifiutarsi di essere preda di costrizioni esterne, nel cercare di ritrovare il proprio «io» autentico, riscoprendo quella libertà spirituale che sola può anticipare, già qui sulla terra, qualcosa del regno di Dio, della creazione e dell’umanità secondo il progetto originario di Dio. Così, anche là dove degli antichi monasteri sono rimaste solo poche rovine, queste non sono tanto pietre da museo da raccogliere, ripulire e mettere in mostra, sono piuttosto un giardino da coltivare con amore e cura, giorno dopo giorno: il lavoro manuale, l’impegno intellettuale, la dimensione spirituale si uniscono nella custodia feconda, nel farsi carico del fratello come della terra su cui insieme viviamo. I monasteri sono allora chiamati a essere spazi vitali dove possa regnare la carità, dove fiorisca l’annuncio della buona notizia della vita più forte della morte, dove ciascuno possa scoprire, secondo le parole del Salmo, «com’è bello che i fratelli siano insieme», dove si invera quanto affermato ancora dalla Orientale lumen : «Il monastero è il luogo profetico in cui il creato diventa lode di Dio e il precetto della carità concretamente vissuta diventa ideale di convivenza umana, e dove l’essere umano cerca Dio senza barriere e impedimenti, diventando riferimento per tutti, portandoli nel cuore e aiutandoli a cercare Dio».
l vento incessante del Sahara egiziano solleva una densa nuvola di sabbia, che da lontano confonde e quasi occulta la sagoma di un grosso edificio isolato da centri abitati; man mano che però ci avviciniamo i contorni dell’imponente costruzione si delineano sempre più nettamente e prende corpo la forma di uno dei più antichi e suggestivi monasteri cristiani in Egitto: il cenobio dell’Arcangelo Gabriele, costruito nei primi secoli del cristianesimo al limitare dell’Oasi del Fayum (90 chilometri a ovest del Cairo), l’Arsinoite dei Greci e dei Romani, il più fiorente nòmos (regione) del Paese del Nilo sotto i Tolemei e gli imperatori romani. Qui i primi ferventi monaci, veri e propri atleti di Dio, come voleva la regola di san Pacomio, che del monachesimo egiziano è stato il fondatore ancora nel III secolo, i primi monaci appunto erano in costante contatto col mondo, a cui fornivano esempio purissimo di vita di preghiera e di opere, concreta testimonianza di un sentimento religioso che allora non aveva uguali. E che ancora oggi nella cosmopolita e secolarizzata società egiziana si presenta come modello di fede vissuta nella concretezza dell’azione, alternata a momenti di profonda meditazione: un esempio che l’alacre e ancora attiva comunità religiosa offre al pellegrino in cerca di ispirazione e al turista distratto e incuriosito, che si rechi da queste parti. Il monastero dell’Arcangelo Gabriele si fonda su un antico fatto di sangue, che costò la vita ai padri fondatori dello stesso comprensorio monastico e che costituisce ancora oggi uno degli esempi più fulgidi e perenni di martirio del protocristianesimo: dodici monaci furono torturati e decapitati da predoni, verosimilmente dai Blemmi, nomadi devastatori che infestavano il Nord Africa e la penisola sinaitica nella tarda antichità. Si trattò di un attacco cruento a cui i religiosi opposero nient’altro che la propria fede. A memoria di una tale testimonianza di cristianità vi sono i brandelli dei corpi di sei di loro, riaffiorati recentemente dalle sabbie della vicina necropoli e sistemati in teche all’interno del cenobio. È indubbio che simili atti di eroismo religioso, richiamati alla memoria da vestigia tangibili, costituiscano uno sprone e quasi una consolazione per la folta comunità copta (non solo monastica o religiosa, ma anche per i numerosi fedeli laici) ripetuto bersaglio dell’odio integralista di quegli islamici, purtroppo in gran numero, che rivendicano la pretesa di rappresentare l’apice di un processo religioso, di cui l’islam sarebbe la forma conclusiva e perfetta. «Eppure accogliamo e invitiamo alla preghiera comune qualsiasi fratello di fede anche diversa, nella consapevolezza di un unico Dio­Padre, unico dispensatore d’amore per tutti i fratelli della famiglia umana», mi ha spesso ripetuto padre Makari, abate priore del monastero di San Paolo, con quello di Sant’Antonio testimonianza dei primi insediamenti cristiani lungo le rive egiziane del Mar Rosso, in un luogo romito, selvaggio e custode di un’intensa spiritualità. Il monastero con la chiesetta Vangelo». Chi desiderasse avere una conoscenza diretta e profonda del monachesimo in Egitto dovrebbe dedicare attenzione alla regione del deserto di Scete, tra il Cairo ed Alessandria, ad occidente del Delta.
Anche qui l’esperienza monastica ha preso corpo da una realtà di eremiti: giovani che in cellette anguste (oggi riportati alla luce dagli archeologi), vivevano
l monachesimo non è stato visto in Oriente soltanto come una condizione a parte, propria di una categoria di cristiani, ma particolarmente come punto di riferimento per tutti i battezzati, nella misura dei doni offerti a ciascuno dal Signore, proponendosi come una sintesi emblematica del cristianesimo». Questa profonda verità, ribadita da Giovanni Paolo II nella Orientale Lumen (§9), è particolarmente evidente nella Chiesa copta: vi è un profondo legame tra la radicalità di esigenze cristiane perseguita nei monasteri e la vita quotidiana dei singoli battezzati, che guardano ai monaci e alle monache come a una memoria evangelica destinata alla crescita spirituale e alla fecondità dell’intera Chiesa. Siamo allora meno sorpresi nel constatare che dei gruppi di cristiani, delle persone che siamo abituati a pensare come «in fuga dal mondo» riescono ancora oggi a rendere più abitabile il mondo che li circonda, realizzando nel deserto più arido opere di bonifica, coltivazione, irrigazione, allevamento che nemmeno i migliori piani quinquennali di sviluppo agricolo riuscirebbero a impostare. Eppure, i monaci non vanno nel deserto per compiere imprese straordinarie di questo tipo, non aspirano a ottenere premi di produttività o a ricevere riconoscimenti prestigiosi. Semplicemente, come i loro padri del IV secolo, i giovani che entrano ancora oggi numerosi nei monasteri di Wadi el­ Natrun e degli altri insediamenti storici dell’anacoretismo egiziano, cercano solo di vivere il Vangelo, incarnandolo in una storia ben precisa, trasformando le loro povere vite in segno e anticipazione di un’altra vita possibile, una vita conforme al disegno di Dio sull’umanità. Nessuna brama di stravaganza, quindi, nessuna ricerca dello straordinario. Anzi, quelli che hanno portato con sé nel deserto la ricerca mondana dello straordinario, che hanno continuato a mantenere il mondo e i suoi parametri di successo e di prestigio come implicito termine di paragone, hanno finito per uscire di senno. Perché il deserto ha questa particolarità: o lo si abita solo con l’essenziale – e allora non solo vi si sopravvive, ma si vi scopre la vita piena, abbondante, rigogliosa – oppure si finisce preda del particolare assunto a universale, della singolarità eretta a norma, dell’eccesso compresso nel quotidiano. No, i monaci copti, come i loro padri dei secoli scorsi, sono andati nel deserto per essere se stessi nella sequela del Signore, per prendere le distanze dal «cuore diviso» che tenta ogni uomo, dalla doppiezza, dall’ambiguità che abita le nostre vite e per ricercare la sancta simplicitas , che non è l’ingenuità un po’ naïf , bensì l’unità e l’integrità del cuore. Non a caso il termine Scete con cui gli antichi indicavano l’insediamento monastico di Wadi el-Natrun significa «bilancia del cuore», luogo dove il cuore viene soppesato nella sua semplicità o nella
Il monastero nuovo sorge a 60 chilometri ad ovest di Alessandria, già nel deserto, oltre la palude Mareotide. Il sito archeologico attiguo, scavato dal tedesco Peter Grosmann, ha rivelato le fondamenta e le basi di colonne di una basilica del IV secolo, tra le più antiche in Egitto.

Monastero dell’Arcangelo Gabriele

Si trova sul lato orientale dell’oasi del Fayum, 90 chilometri ad ovest del Cairo, non distante dalla zona di Naklun, ad alta presenza cristiana ancora
oggi. Annesso al complesso monastico è il cimitero, oggetto di scavi archeologici.
Monastero di San Simeone



Nella foto sopra, il monastero di Sant’Antonio a sud est del Cairo Qui a sinistra, l’altare della chiesa degli Apostoli all’interno dello stesso complesso monastico A destra, un monaco copto in preghiera
Presso Assuan, nel sud del Paese, sulla riva occidentale del Nilo, qualche chilometro nel deserto. Oggi è disabitato, ma gli scavi e gli studi di Cédric Meurice (Museo del Louvre) hanno riportato alla luce origini antiche (VI secolo), che testimoniano la penetrazione del cristianesimo in Nubia ben prima dell’arrivo degli arabi.

Monastero Bianco

Si trova nel Medio- Egitto ( vicino a Sohag, 200 chilometri a nord di Luxor). Fu costruito nel V secolo dal monaco Shenuda utilizzando pezzi di calcare bianco prelevati dai templi faraonici. Un tempo il monastero accolse una comunità di 2000 monaci; oggi è abbandonato per le persecuzioni anticristiane, particolarmente aspre nel Medio- Egitto ( teatro anche dei recenti attacchi).

nella preghiera cibandosi di radici e di locuste, aiutati nel gestire le incombenze della quotidianità unicamente da un giovane assistente, che avviavano a sua volta alla vita di preghiera. Sono di rara pregnanza gli aneddoti – riportati da biografi e agiografi – di questi primi padri del deserto, che nelle notti stellate sembravano cadere in estasi con visioni di angeli e arcangeli, aiuti celesti nel combattere il diavolo, solitamente rappresentato incarnato in corpi peccaminosi di giovani fanciulle tentatrici. Dagli eremiti di Scete sono sorti i cinque monasteri di Wadi el-Natrun, ancora oggi la comunità più numerosa e alacre dell’intero movimento monastico orientale; e appena più a nord, non distante dalla palude Mareotide (a ovest di Alessandria), nell’antichità sede dei Terapeuti, monaci ebrei e primo esempio di comunità religiosa ritirata (I secolo a.C.), il monastero di San Menas: sorge in un contesto suggestivo, nei pressi di una fonte di acqua miracolosa, sgorgata dalle ceneri di Menas, portate su due cammelli dalla Siria, dove il futuro santo, soldato romano convertito al cristianesimo, era stato martirizzato: ancora oggi luogo di prodigi, frequentato da pellegrini e malati, una sorta di Lourdes egiziana, ricca di incredibili storie e ponte ideale tra cristianesimo orientale e occidentale a ricordare un medesimo sentire, vivo nei fedeli e per nulla fiaccato da scismi e separazioni ormai lontani.

Monastero Rosso

Attiguo e coevo al Monastero Bianco, fu costruito in mattone cotto da Amba Bishoi, un ladro convertito al cristianesimo e discepolo di Shenuda, figura di riferimento tra i monaci dell’epoca. Ospita due chiese, una con affreschi del X secolo, bisognosi di restauro. Anch’esso sede un tempo di una numerosa comunità, oggi ridotta a poche unità.

Monastero San Geremia

È posto nel cuore di Saqqara ( periferia occidentale del Cairo), non distante dalla piramide a gradoni di Zoser ( 2650 a. C.). Fu edificato da Geremia, abate di un piccolo cenobio vicino, poi santificato, attorno all’anno 500. Nel secolo scorso gli archeologi inglesi e tedeschi hanno riportato alla luce i resti di una chiesa, di un edificio sepolcrale, del refettorio e delle celle dei monaci, frammenti di colonne, capitelli e fregi, oltre che di affreschi a tema sacro sono al Museo copto del Cairo.


Avvenire 17 gennaio 2010