DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Le catacombe di Pyongyang

a Pyongyang Frédéric Dalban
I
l rapporto annuale sulla libertà religiosa nel mondo, pubblicato a fine ottobre dal Congresso americano, registrava una particolare mancanza di libertà nella Corea del Nord, sulla base di numerosi casi di arresto e di deportazione. In realtà il regime comunista totalitario di Pyongyang quasi non tollera altro culto tranne quello che ogni cittadino deve tributare all’ex presidente Kim II-sung e a suo figlio, l’attuale leader Kim Jong-il. Nel giugno scorso informazioni ampiamente riprese dalla stampa sudcoreana riferivano dell’esecuzione pubblica, presso la frontiera cinese, di una nordcoreana di 33 anni, accusata di distribuire Bibbie e di spionaggio per conto degli Stati Uniti. Il marito e i figli sarebbero stati mandati in un campo di detenzione.
Eppure un tempo la capitale era chiamata «la Gerusalemme dell’Est». A metà del ventesimo secolo il 30% dei suoi abitanti erano cristiani, contro appena l’1% del resto del Paese. Le persecuzioni degli anni Cinquanta hanno preso di mira in particolare i cristiani, per quanto oggi a Pyongyang si possano trovare alcune chiese. Ufficialmente la Costituzione autorizza la libertà di culto e la Corea del Nord dispone di federazioni cristiane ufficiali, controllate dal regime. Il Paese riconosce 15 mila cristiani dichiarati, senza distinzione di confessioni.
Resta da capire cosa si nasconda dietro queste cifre. Ad esempio, la chiesa cattolica di Jangchung, quartiere est della capitale, non ha prete: negli anni Ottanta il Vaticano si sarebbe rifiutato di ordinare un candidato mandato a Roma dal regime. Ogni domenica si tiene una celebrazione, alla quale partecipano fedeli disciplinati che se ne vanno subito dopo il rito. Non ci sono mai bambini. «È una farsa – sentenzia senza esitazione Andrew (nome di fantasia), un cattolico che ha visitato più volte Jangchung –. Quelli vengono in chiesa come vanno in ufficio. Le preghiere rilanciano la propaganda antiamericana, non si avverte autentica devozione». L’anno scorso una delegazione cattolica sudcoreana in visita a Pyongyang si è vista vietare di celebrare la Messa con loro.
Stesso scampanio alla chiesa ortodossa, a pochi chilometri di distanza. I suoi sacerdoti, entrambi diplomati al
Dipartimento di religione dell’università Kim­II-sung, la più prestigiosa del Paese, erano stati mandati a Mosca in seminario. Dopo quattro anni sono rientrati, ma la chiesa è vuota. Quanto al tempio protestante di Bong-su, ogni settimana accoglie i fedeli, tra cui una decina di occidentali residenti a Pyongyang. Secondo loro, tra i praticanti scelti con cura ci sarebbero anche veri credenti.
Di fatto questa manciata di chiese sotto
controllo è una vetrina per consentire al regime di proclamare che la libertà di culto viene rispettata, mentre in tutto il Paese, sostiene Andrew, «si dà la caccia ai cristiani». La loro presenza è anche fonte di introiti: consente di attrarre l’aiuto offerto da numerose organizzazioni confessionali straniere. Un afflusso di capitali non trascurabile per un Paese esangue, sottoposto alle sanzioni dell’Onu. La Chiesa sudcoreana, che ha finanziato la ristrutturazione della chiesa di Jangchung, ha fatto anche costruire un pastificio nei dintorni. Altre inviano cibo o materiale medico: un aiuto prezioso per una popolazione priva di tutto.
Le cifre pubblicate vanno maneggiate con cura: i numerosi pastori sudcoreani insediatisi alla frontiera tra Cina e Corea del Nord tendono a sopravvalutarle. La loro attività, che consiste nel convertire nordcoreani rifugiati in Cina e rimandarli al
Nord muniti di Bibbie per formare gruppi cristiani, è molto criticata: «Mettono coscientemente in pericolo quelle persone e le loro famiglie – accusa Andrew –. Se si fanno prendere c’è la deportazione, e persino la morte». Nella Corea del Nord un cristiano è doppiamente malvisto: accusato di slealtà verso il regime e sospettato di rapporti con la Cina.
(per gentile concessione del quotidiano «La Croix»; traduzione di Anna Maria Brogi)
REPORTAGE
A metà del ’900, nel nord della Corea i cristiani erano il 30% della popolazione, contro l’1% del resto del Paese. Oggi secondo il regime sarebbero appena 15mila, tra cattolici e protestanti. Pugno di ferro su qualsiasi tentativo di far emergere i fedeli nascosti DIPLOMAZIA
Il sogno di riunificare le due Chiese


Il Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec), che riunisce 349 denominazioni protestanti, anglicane e ortodosse di tutto il mondo, da oltre venticinque anni svolge un ruolo chiave nel riavvicinamento delle due famiglie di Chiese coreane, nell’ambito del processo di Tozanso a favore della pace, della riconciliazione e della riunificazione della penisola. Tale sforzo ha portato il Consiglio ad allacciare rapporti con le associazioni ufficiali di cristiani nordcoreani, rischiando l’incomprensione da parte dei cristiani perseguitati. L’attuale segretario generale, Samuel Kobia, si è recato di recente nella Corea del Nord e ha lanciato un appello a favore della riunificazione, a partire da una riunione organizzata a Hong Kong con rappresentanti delle Chiese dei due Paesi.




Stranieri e coreani in preghiera nella chiesa cattolica di Jangchung, a Pyongyang.