DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

E gli africani dissero: «Per favore, non aiutateci più!»

Il Fatto Quotidiano, mercoledì 13 gennaio
Sui fattacci di Rosarno anche la stampa più bieca e razzista
è stata costretta a prendere le parti degli immigrati
(«Hanno ragione i negri», ha titolato il Giornale, 9/1),
sfruttati fino all’osso per i famosi lavori che «gli italiani
non vogliono più fare», costretti a vivere in case di cartone
e, come se non bastasse, presi anche a pallettoni.
Ed è assolutamente ipocrita chiamarli “neri”, in linguaggio
politically correct, come fa la sinistra se poi li si
tratta da “negri” che è il senso ironico del titolo di Feltri.
Quando però si analizzano le cause di queste migrazioni
ormai bibliche, che portano a situazioni tipo Rosarno
in Europa e negli Stati Uniti, la stampa occidentale
resta sempre, e non innocentemente, in superficie. Si
dice che costoro sono attratti dalle bellurie del nostro
modello di sviluppo. Ora, non c’è immigrato che non possegga
almeno un cellulare e che non sia in grado di avvertire
chi è rimasto a casa di che «lacrime grondi e di
che sangue» questo modello, per tutti e in particolare per
chi, come l’immigrato, è l’ultima ruota del carro.
Si dice allora che costoro sono costretti a venire qui a
fare una vita da schiavi a causa della povertà e della fame
che strazia i loro Paesi. E questo è vero. Ma non si
spiega come mai queste migrazioni di massa sono cominciate
solo da qualche decennio e vanno aumentando
in modo esponenziale. In fondo le navi esistevano anche
prima e pure i gommoni. Il fatto che gli immigrati di Rosarno
siano prevalentemente provenienti dall’Africa nera
ci dà l’opportunità di spiegarlo.
L’opinione pubblica occidentale, anche a causa della
disinformazione sistematica dei suoi media, è convinta
che la fame in Africa sia endemica, che esista da sempre.
Non è così. Ai primi del Novecento l’Africa nera era alimentarmente
autosufficiente. Lo era ancora, in buona sostanza
(al 98%), nel 1961. Ma da quando ha cominciato ad
essere aggredita dalla pervasività del modello di sviluppo
industriale alla ricerca di sempre nuovi mercati, per
quanto poveri, perché i suoi sono saturi, la situazione è
precipitata. L’autosufficienza è scesa all’89% nel 1971, al
78% nel 1978. Per sapere quello che è successo dopo non
sono necessarie le statistiche, basta guardare le drammatiche
immagini che ci giungono dal Continente Nero o
anche osservare a cosa siano disposti i neri africani, Rosarno
docet, pur di venir via.
Cos’è successo? L’integrazione nel mercato mondiale
ha distrutto le economie di sussistenza (autoproduzione
e autoconsumo) su cui quelle popolazioni avevano vissuto,
e a volte prosperato, per secoli e millenni, oltre al tessuto
sociale che teneva in equilibrio quel mondo (come è
avvenuto in Europa agli albori della Rivoluzione industriale
quando il regime parlamentare di Cromwell, preludio
della democrazia, decretò la fine del regime dei
“campi aperti” (open fields), cosa a cui le case regnanti
dei Tudor e degli Stuart si erano opposte per un secolo e
mezzo, buttando così milioni di contadini alla fame pronti
per andare a farsi massacrare nelle filande e nelle fabbriche
così ben descritte da Marx ed Engels).
Oggi, nell’integrazione mondiale del mercato, nella globalizzazione,
i Paesi africani esportano qualcosa ma queste
esportazioni sono ben lontane dal colmare il deficit
alimentare che si è venuto così a creare. E quindi la fame.
Senza per questo volerlo giustificare, il colonialismo
classico è stato molto meno devastante dell’attuale colonialismo
economico. Fra i due c’è una differenza sostanziale,
di qualità. Il colonialismo classico si limitava a conquistare
territori e a rapinare materie prime di cui spesso
gli indigeni non sapevano che farsi, ma poiché le due
comunità rimanevano separate e distinte poco cambiava
per i colonizzati che, a parte il fatto di avere sulla testa
quegli stronzi, continuavano a vivere come avevano sempre
vissuto, secondo la loro storia, tradizioni, costumi, socialità,
economia.
Il colonialismo economico, invece, ha bisogno di conquistare
mercati e per farlo deve omologare le popolazioni
africane (come del resto le altre del cosiddetto Terzo
Mondo) alla nostra way of life, ai nostri costumi, possibilmente
anche alle nostre istituzioni (la creazione dello
Stato, per soprammercato democratico o fintamente
democratico, ha avuto un impatto disgregante sulle società
tribali), per piegarle ai nostri consumi. In Africa si
vedono neri con i RayBan (con quegli occhi!) e il cellulare,
che costano niente, ma manca il cibo. Perché il cibo
non va dove ce n’è bisogno, va dove c’è il denaro per comprarlo.
Va ai maiali dei ricchi americani e, in generale,
al bestiame dei Paesi industrializzati, se è vero che il 66%
della produzione mondiale di cereali è destinato alla alimentazione
degli animali dei Paesi ricchi (dato Fao).
E adesso ci si è messa anche la Cina, new entry in questo
gioco assassino, che compra, con la complicità dei governanti
corrotti, intere regioni dell’Africa nera la cui
produzione, alimentare e non, non va ai locali, sfruttati
peggio degli immigrati di Rosarno, ma finisce a Pechino
e dintorni.
Ma l’invasione del modello di sviluppo egemone ha anche
ulteriori conseguenze, quasi altrettanto gravi della
fame. Sradicati, resi eccentrici rispetto alla propria stessa
cultura che è finita nell’angolo, scontano una pesantissima
perdita di identità. A ciò si devono le feroci guerre
intertribali cui abbiamo assistito, con ipocrita orrore,
negli ultimi decenni. Perché le guerre in Africa, sia pur
con le ovvie eccezioni di una storia millenaria, avevano
sempre avuto una parte minoritaria rispetto alla composizione
pacifica fra le sue mille etnie (J.Reader, Africa,
Mondadori, 2001).
E così fra fame, miseria, guerre, sradicamento, distruzione
del loro habitat, costretti a vivere con i materiali di
risulta del mondo industrializzato (si vada a Lagos, a Nairobi
o in qualsiasi altra capitale africana) i neri migrano
verso il centro dell’Impero cercandovi una vita migliore.
O semplicemente una vita.
E i nostri “aiuti”, anche quando non sono pelosi, non
solo non sono riusciti a tamponare il fenomeno della fame
e della miseria, in Africa e altrove, come è emerso
dal recente vertice della Fao tenuto a Roma, ma l’hanno
aggravato perché tendono ad integrare ulteriormente
le popolazioni del Terzo Mondo nel mercato unico
mondiale, stringendo così ancor di più il cappio intorno
al loro collo.
Alcuni Paesi e intellettuali del Terzo Mondo lo avevano
capito per tempo. Una ventina di anni fa, in contemporanea
con una delle periodiche riunioni del G7 (allora
c’era ancora il G7), i sette Paesi più poveri del mondo,
con alla testa l’africano Benin, organizzarono un polemico
controsummit al grido: «Per favore non aiutateci più!».
Ma non vennero ascoltati.
Massimo Fini