DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

SEI NERO? ALLORA TI LINCIO Rosarno prima della rivolta: la caccia all’immigrato è praticata soprattutto dai ragazzi. Che fanno a gara a chi ne prende

La sezione è ancora quella
del Pci. Uno stanzone con
materiale vario accatastato
in fondo, vicino alla
porta, dall’altro lato un
vecchio tavolo, alla sua sinistra
una bandiera del Pci, dispiegata,
e a destra una televisione. Davanti
alla televisione, o meglio sotto, ché la
televisione è poggiata su un ripiano a
due metri da terra, è seduto un vecchio
iscritto al partito. Gli siedo accanto, ai
piedi una stufetta elettrica, e lui smette
di guardare la tv, ci mettiamo a parlare,
e mi racconta di quando il suo
maestro se ne andò a Varese: lui aveva
quattordici anni, il maestro gli lasciò la
forgia, e il compito di provvedere alla
clientela contadina della zona, e di fare
falci, zappe e roncole per tutti.
La casa del popolo di Rosarno è intitolata
a Peppe Valarioti, che ne era
segretario nel 1980, quando fu ammazzato
dalla ’ndrangheta. A cinquanta
metri c’è anche una piazza dedicata a
lui: non lontano un paio d’anni fa hanno
ucciso un ucraino che ripartiva per
il suo paese con un pulmino, come d’uso
i suoi connazionali gli avevano affidato
i soldi da portare alle famiglie, i
soldi guadagnati nelle campagne raccogliendo
arance e mandarini, conviene
mandarli con il pulmino perché la
commissione della Western Union è
più alta e il pulmino i soldi li porta direttamente
a casa, ma le voci corrono,
e in questa zona sono velocissime, al
punto che le cose qui si sanno prima
che accadano, così hanno aspettato
che facesse buio e che l’ucraino stesse
per partire.
Dev’essere andata che gli si sono
presentati davanti con una pistola e
lui ha fatto resistenza, così la pistola
ha declinato il suo verbo e lui è caduto
al suolo, accanto al nome di Peppe
Valarioti, crepato anche lui per una pistola
mafiosa, in un ristorante, accanto
al suo compagno sindaco Peppino
Lavorato, che per festeggiarlo, la notte
di Capodanno dopo il suo insediamento,
gli avevano regalato una pioggia di
fuoco, cinquantanove attentati in una
notte, fucili mitragliatori che sparavano
contro le serrande dei negozi, contro
i vetri del comune, contro i portoni
delle case, e poi il botto finale, con
Peppe Valarioti, giovane intellettuale,
crepatogli in faccia, al tavolo di un ristorante,
un’altra pietanza da offrire
sull’altare del sacrificio. «Io ho paura»,
mi dice Giuseppe (c’è un’eccedenza di
Giuseppi qui, almeno nei nomi la tradizione
ancora resta). «Ho paura perché
non sono da solo, perché c’è la mia
famiglia con me. Un giorno davanti alla
sezione hanno appeso delle teste di
vitello mozzate, e qui il senso di queste
cose ce l’abbiamo chiaro».
Quando hanno ucciso Valarioti la
gente aveva paura anche di pensare.
C’erano trecentocinquanta iscritti alla
sezione, allora, dopo l’omicidio in questo
stanzone erano in quattro. Uno di
loro era il vecchio compagno che guarda
la televisione, il vecchio compagno
che tutti chiamano “Mastro Melo”.
«Avevo quattordici anni», dice Mastro
Melo. «Non un mese in più, non un
mese in meno. E oggi a quello di
trent’anni, anche di quaranta, lo chiamano
“’u figghiolu”. Ma quale figghiolu,
figghiolu ero io a quattordici anni,
quello a trent’anni è vecchio! Oggi c’è
corruzione. Non mi piace affatto».
Rosarno, dove la famiglia Pesce,
che è la cosca più potente del luogo,
ha fatto pure l’impianto di condizionamento
in chiesa, comincia da qui, dalla
casa del popolo Peppe Valarioti, e
proprio dietro l’angolo, affacciato su
piazza Valarioti, c’è l’ambulatorio di
Medici senza frontiere, dove forse era
andato a farsi visitare anche l’ucraino
ammazzato lì vicino. «Quelli di Msf,
prima, stavano nel palazzo dell’Azienda
sanitaria locale, ma poi li hanno
cacciati. La cittadinanza non li vuole
qui», dicevano. «Hanno paura per l’igiene,
le mamme vengono con i bambini
e si trovano tutti questi neri, non
è igienico, loro hanno paura, giustamente
hanno paura». La paura è reciproca,
signora mia. Solo che per i neri
è elevata alla milionesima potenza.
Lo sport più praticato dai giovani di
Rosarno è la caccia al nero. Dove “nero”
non designa un subsahariano, ma
indica indistintamente - senza discriminazione
- un africano: di pelle scura
o chiara è lo stesso. Il lunedì mattina,
sugli autobus che portano a scuola, i
ragazzi si fanno il reportage dei rispettivi
pestaggi, sono motivi di vanto, di
onore; a misurare il valore il numero
delle croci sul petto. Ci sono tecniche,
per linciare un nero. Anzitutto, evidentemente,
essere in gruppo. Poi appostarsi
nei luoghi strategici, dove sei obbligato
a passare se vuoi andare da un
punto all’altro del paese. Luoghi come
via Carrara, via Roma, via Convento. Su
via Convento, per esempio, c’è un muraglione
da dove si ha a portata di sasso
chiunque passi di sotto. Ma anche
sul corso (il corso, nei paesi come Rosarno,
non ha un nome: è il corso e basta)
- ci sono i presìdi, si aspetta che
passi un nero per dargli la caccia.
«Appena due mattine fa», dice Antonino
(ha i capelli alle spalle, un maglione
colorato, un giubbotto di pelle
scamosciato - «Pure io quando cammino,
mi sento dire “drogato, frocio, come
sei combinato...”»), «un ragazzino
maghrebino correva, terrorizzato, lo
rincorrevano in tre, con delle verghe
in mano, l’ho fatto salire in macchina e
l’ho portato via. E lo stesso ha fatto
qualche tempo prima Giuseppe con un
ragazzo algerino, a inseguirlo erano
dei ragazzi più giovani di lui, avranno
avuto dodici o tredici anni».
«Io, quando li vedo passare, mi metto
sul ciglio della strada, e lancio un
sasso in aria, un bel sasso grosso, così
gli faccio vedere che non ho paura, che
sono pronto a reagire». Così mi dice
Michael James, liberiano, quello che
ho incontrato all’ex zuccherificio di
Rignano, vicino a Foggia, dove raccoglieva
i pomodori, e che incontro di
nuovo all’ex cartiera di via Spinoza, un
posto che il miglior scenografo hollywoodiano
saprebbe difficilmente restituire
in tutto il suo scenario apocalittico,
entri e ti trovi in mezzo a una
cortina di fumo, e l’abbaglio di fuochi
in mezzo a questo lucore tagliato da fasci
di luce che entrano dalle feritoie
del tetto coperte da plastica gialla ondulata,
come se fosse una cattedrale
della desolazione, questa è la vera,
realissima waste land che nessuno
spettacolo illumina, fuochi per cucinare
accanto alle baracche di assi di legno
inchiodate, con pareti di cartone e
plastica e ancora cartoni a far da tetto,
fissati da scarpe, sassi e stivali. Cumuli
di terra. Rifiuti. Ethernit. Detriti. Laterizi.
Sul grande muro in fondo al capannone
ci sono scritte, e numeri di telefono.
Tra le scritte: «Procrastination
is a thief of time», «By Goding King,
Prisoner of conscience mess».
A giugno dell’anno scorso sono entrati
nella cartiera, hanno bruciato le
baracche, le fiamme sono arrivate fino
al tetto. Un’altra volta dei ragazzini,
“bad guys”, a detta dei ragazzi della
cartiera, sono entrati in macchina nel
cortile. «Ve ne dovete andare», hanno
gridato, agitando le pistole, e anche stavolta
le pistole hanno declinato il loro
verbo ad altezza d’uomo, nessuno però
stavolta è caduto sui detriti. E se qualcuno
fosse caduto, si sarebbe trattato di
un regolamento di conti tra questa gente
clandestina, e dunque portatrice di
colpa, gente che la propria innocenza
deve sempre e solo dimostrarla.
Come è successo quando hanno fatto
in piazza la festa per la fine del Ramadan,
un vero e proprio gesto politico,
un gesto forte, una manifestazione
d’esistenza. A notte se ne sono andati
a gruppetti, per non restare soli, ma
qualcuno è stato costretto a fare un
tratto di strada da solo, gli pareva che
non ci fosse nessuno alle spalle, e invece
sono sbucati all'improvviso, loro
sì davvero uomini neri, gli si sono parati
davanti e gli hanno detto: «Negro
di merda devi andartene di qua», e giù
botte, il ragazzo (anche lui un nero di
quelli chiari) è rimasto a terra, il viso
coperto di sangue, qualcuno ha chiamato
la polizia, e la polizia al nero
chiaro gli ha detto: «Ma tu che ci facevi
in giro a quest’ora?».
Il terzo giorno d’ospedale, appena
ha avuto un po’ di forze per alzarsi dal
letto, il ragazzo è scappato. Perché il
clandestino, per la legge, è lui.
Mi inoltro nella cartiera, cammino
tra le baracche. Luogo di
fantasmi. Fantasmi
realissimi, però. Che
stanno attorno a un
fuoco e si cucinano
un pezzo di carne. È
tarda mattinata, e oggi
non si lavora, perché
fino a poco fa
pioveva. Mi avvicino
al fuoco, per
scaldarmi. Un
ragazzo mi saluta,
ci presentiamo.
Lui si chiama Charles,
è liberiano. È arrivato
l’anno scorso
con il barcone, non
parla ancora italiano.
Qui aveva
degli amici. I
suoi venticinque
euro a
giornata, a cui
vanno sottratti
i due e cinquanta
da dare all’autista
del pulmino, non riesce a guadagnarseli
tutti i giorni. A volte sono solo tre
giorni in una settimana, a volte cinque.
Dice di non volerci tornare in Liberia,
in Italia ormai si sta ambientando, ha
da lavorare. Finita la raccolta delle
arance, tornerà a Castelvolturno, nel
Casertano, dove fa base. E dove ogni
tanto riesce pure a trovare qualcosa da
fare, nella campagna. Il suo amico che
sta cuocendo la carne, invece, è togolese,
è qui da un anno e mezzo, e anche
lui fa base a Castelvolturno. [...]
Qualche settimana fa nella cartiera
c’era anche Philip, un ragazzo ghanese.
Me lo racconta Antonino. Al Nord
aveva avuto problemi con lo spaccio,
mentre qui lavorava nei campi.
Stava andando dal padrone a riscuotere
la paga, lo accompagnava un
amico in macchina. Un trattore esce
da una stradina laterale d’improvviso
e colpisce l’auto, che resta danneggiata.
Che facciamo adesso? Il signore del
trattore sembra disponibile, venite
cinquanta metri più avanti, lì sulla destra
c’è la mia campagna, ci fermiamo
e parliamo. Ma all’ingresso del fondo,
quello prende un badile e li colpisce
sulla testa. L’amico riesce a scappare,
Philip resta tramortito a terra, sul bordo
della strada, finché una macchina
passa e, guardandosi bene dallo scendere
per aiutarlo vedendolo tutto sanguinante
con uno squarcio sulla testa,
chiama la polizia. Un’ambulanza lo
porta in ospedale, dove gli danno dei
punti di sutura, e insieme la polizia gli
consegna il foglio dell’espulsione.
Philip non ha voluto far denuncia,
per paura di quello che l’aveva picchiato.
Non si sentiva protetto per farlo,
né sentiva di avere qualche chance
per ottenere giustizia. Del resto la polizia
non aveva proceduto nemmeno
alla denuncia d’ufficio. La polizia, dagli
abitanti della cartiera, si era fatta
conoscere nel gennaio 2006 arrivando
con le camionette, facendo uscire tutti
e disponendoli in fila sul ciglio
della strada. Trattati con i
guanti, nel senso che tutti i
poliziotti avevano i guantini
da infermieri, come gli
appestati. Quando all’indomani
del blitz Antonino
era entrato nella cartiera,
aveva incontrato
chi aveva la macchina
spaccata e gli erano state
portate via le chiavi, chi
diceva che i poliziotti gli
avevano preso le borse
con dentro telefonino e
documenti, chi diceva
che gli avevano preso
cento euro. Tutto era
stato sfondato: le baracche
dove dormivano,
le porte del bagno,
un televisore con la parabola
come unica ricchezza,
i due piccoli
chioschi interni al
luogo, e anche le
stanze dove si
esercitava la prostituzione.
Perché questi
sono come eserciti di uomini, e come
in tutti gli eserciti di uomini non manca
mai il battaglione delle donne che
vendono piacere.
La cartiera non è l’unico luogo abitato
da questi braccianti. Ce ne sono
almeno altri cinque. L’ex fabbrica della
Rognetta, il ponte dei maghrebini, il
ponte dei neri, il casolare della Fabiana,
il casolare in collina dei senegalesi.
Ci vado con Antonino e Giuseppe,
che distribuiscono vestiti. Se alla cartiera
ci sono solo subsahariani, alla
Rognetta ci sono anche egiziani, marocchini,
tunisini. Mi fermo a parlare
con un egiziano di Alessandria che è
stato due anni e mezzo a Milano, abitando
in un appartamento con molti
amici in zona Loreto, facendo il carpentiere.
Dopo l’obbligo del cartellino
voluto dal decreto Bersani ha avuto
grosse difficoltà per lavorare, finché è
stato trovato in metropolitana, dove oltre
alla multa gli hanno dato il foglio
di via. Così ha deciso di scendere. Solo
che se lavorando tanto a Milano, con
il padrone che aveva, riusciva a guadagnare
anche centoventi euro al giorno,
adesso non supera i venticinque. E
in Egitto ha una moglie e due figli da
mantenere.
Alla Fabiana c’è un casolare isolato
dove ci stanno dei regolari. Lui si chiama
Michael, è del Burkina Faso dove
ha moglie e tre figli, e quando gli nomino
Marcella della Campagna Tre Titoli
si stupisce: «Come fai a conoscerla?
». Poi condividiamo anche un altro
nome - onorato non solo dai burkinabé:
quello del presidente Thomas
Sankara, rivoluzionario e martire.
Ci sono quelli più fortunati che stanno
in affitto, per la maggior parte dell’Europa
dell’Est, otto per stanza, anche
cento euro a persona. Una manna per i
padroni di casa di qui, dove gli affitti
sono molto bassi. Gli europei dell’Est
tendono spesso a risiedere sul territorio
per tutto l’anno, un po’ meno i maghrebini:
negli ultimi tempi sono rimasti
in meno ad abitare in queste zone, e
qualcuno dice che dietro al decremento
ci sia la mano della ’ndrangheta. Si
tratta di due tipi di migrazioni differenti,
del resto: la maggior parte degli
europei dell’Est viene con la famiglia,
le donne cercano posto come badanti,
ma lavorano anche nella raccolta (non
solo arance, ma anche fragole nelle serre
di Lamezia, o cipolle a Tropea); i maghrebini,
le cui case si riempiono a rotazione,
per far festa con tè alla menta,
violino e tamburello, invece sono giovani
soli. I subsahariani, poi, sono legati
al circuito della stagionalità, e arrivano
a Rosarno tra ottobre e novembre.
Come Michael, come Charles.
Rosarno veniva chiamata “Americanicchia”,
una volta, quando i braccianti
della Jonica ci andavano a lavorare,
e i grandi commercianti amalfitani e
napoletani aprivano negozi, empori.
Oggi la ’ndrangheta si è mangiata tutto,
si sta comprando le terre stabilendo i
prezzi con minacce e intimidazioni, il
mercato delle arance e dei mandarini
è in mano a un oligopolio criminale, le
cooperative dei produttori a cui i singoli
agricoltori devono rivolgersi sono
legate alle mafie, e sono loro a gestire
il denaro dell’integrazione dell’Ue il
cui sostegno non era indirizzato alle
strutture o alla qualità del prodotto,
ma al prezzo: questo ha favorito truffe
organizzate su vasta scala (le cosiddette
“arance di carta”). Così, si trovano
agrumeti ovunque, a Rosarno, anche
laddove dovrebbero esserci gli alvei di
fiume, riempiti apposta per strappare
incentivi europei.
Come mi racconta Peppino Lavorato,
l’ex sindaco che era al ristorante
con Valarioti quando venne ucciso, i
nuovi agrari, soppiantando i baroni,
sono diventate le cosche, che si sono
arricchite con il traffico di droga e di
armi, e hanno fatto investimenti in attività
immobiliari al Nord sia d’Italia
sia d’Europa. Gli investigatori stimano
che l’ottanta per cento della cocaina
d’Europa arriva dalla Colombia attraverso
il porto di Gioia Tauro, insieme
a consegne di kalashnikov e uzi, e il
commercio è controllato dal centinaio
di famiglie delle cosche.
I capitali accumulati, poi, vengono
reinvestiti. Immobiliare e finanza innanzitutto.
Ma anche gli anelli più bassi
della catena mafiosa riescono a reinvestire:
don Giuseppe Demasi, referente
dell’associazione Libera in questa
zona, mi racconta, quando lo vado a
trovare a Polistena nella sua canonica,
che molte persone legate alla ’ndrangheta
e che lavorano nell’edilizia si sono
spostate al Nord, tra Reggio Emilia
e Modena, una zona piena di affiliati.
Hanno un piccolo capitale accumulato
che reinvestono in quel modo, utilizzando
manodopera e distribuendo lavoro,
e possono farlo in territori dove
godono di una sostanziale anonimità.
I migranti sono l’anello debole di
questa catena: è anzitutto su di loro
che si riversa la crisi generalizzata
prodotta sul territorio dall’egemonia
criminale (che ovviamente non esita a
usarli al gradino più basso della catena,
per spaccio o prostituzione). Un latifondista
ha raccontato a don Giuseppe
che la ’ndrangheta stabilisce anche
la paga giornaliera dei migranti, che
impone una sorta di calmiere: «Tu non
puoi dare più di questi soldi», dice all’agricoltore.
La crisi generale del settore
ha aumentato la concorrenza sul
mercato del lavoro per i braccianti immigrati,
dell’Est Europa o africani. I
subsahariani - i neri più neri - sono
quelli che ci hanno rimesso di più, e
trovano meno lavoro.
La cifra normale per una giornata di
lavoro è di venticinque euro, ma trattandosi
di clandestini capita più o meno
regolarmente che qualche caporale
non paghi. C’è chi fa parte di una squadra
in maniera continuativa facendo riferimento
a un caporale “compaesano”
e - per la maggior parte - c’è chi cerca
lavoro giorno per giorno, trovandosi
prima dell’alba sulla strada principale
di Rosarno, radunandosi per gruppi
“etnici”: i maghrebini, i rumeni e i bulgari,
i rom (rumeni anche loro, ma a distanza),
i subsahariani. Come Michael.
Sono le cinque di mattina, sul lungoviale.
Davanti all’International Phone
Center c’è un gruppo numeroso di
marocchini. Sono quelli che, per la
pelle chiara, hanno più facilità a trovare
lavoro.
Più avanti un gruppo di Craiova, Romania.
Un signore anziano, con un berretto
tipico, è in Italia con la moglie da
un anno e mezzo: dice che sono in Calabria
da tre mesi ma lavorano poco,
una giornata a settimana per venticinque
euro. Ho già conosciuto diverse
persone di Craiova, e sono rom. Gli
chiedo se anche lui lo è. Risponde con
un sì sottovoce, come se fosse sorpreso
di essere stato scoperto, e in quella voce
che si abbassa risuona la paura. I
suoi connazionali sono a distanza.
Più avanti parlo con un tunisino che
è qui da diciassette anni, ed è regolare.
Dice con orgoglio di gestire una
squadra di sessanta persone. Io do di
più degli altri, dice, trentadue euro al
giorno. I miei sono solo marocchini, tunisini,
algerini - gli altri non mi piacciono.
Ma oggi la mia squadra non lavora
perché piove, per me va bene, allora
vengo a reclutare altri lavoratori.
Incontro anche dei nigeriani, abitano
a Napoli e mi chiedono notizie sulle
leggi sull’immigrazione, vogliono sapere
se una sanatoria la faranno o no.
«Macché nuova legge!» gli rispondo.
I pulmini arrivano, si sale in fretta e
in fretta si riparte. La donna che sta
seduta davanti è rumena, ma ha l’accento
napoletano. «Che cazzo guardi
guaglio’?». Sul parabrezza una busta di
pane e il giornale Business. Sui sedili
di dietro, giovanissimi maghrebini.
Sono clandestini, senza di loro le
arance resterebbero sugli alberi. Di
loro hanno bisogno i padri nei campi,
ma di loro hanno bisogno anche i figli
per prenderli a sassate, che nelle loro
figure espiatorie trovano il bersaglio
ideale della loro cultura modellata
dalla mafiosità, che di sacrifici si nutre,
come Peppe Valarioti sacrificato
su un tavolo di ristorante, quella mafiosità
che fa cultura, che sempre più
spesso fa rispondere alla domanda
«Cosa vuoi fare da grande?», «Il boss».

Marco Rovelli
(da Servi - Il paese sommerso dei clandestini
al lavoro, Feltrinelli 2009