Tratto da Il Foglio del 7 gennaio 2010
Ci si immaginava le lavanderie di condominio come luoghi massimamente erotici, dove tra uno stenditoio e un’asciugatrice potevano avvenire cose interessanti.
Fra dirimpettai, vicini di balcone, in attesa che la lavatrice facesse il suo corso con le lenzuola o il completo da jogging. In un ormai antico telefilm americano, “Melrose Place”, ambientato in un residence, succedeva più o meno così. E in uno spot anni Ottanta dei Levi’s, Nick Kamen (prima modello, poi cantante pop) entra in una lavanderia a gettoni, con le signore accaldate sedute a leggere riviste in attesa del bucato, si toglie jeans e t-shirt e li infila in lavatrice. Le signore, anche quelle a casa, gli saranno per sempre grate. Dalle nostre parti piccolo borghesi, invece, ognuno si tiene stretta la propria misera lavatrice, spesso nemmeno le colf hanno il permesso di usarla perché non abbastanza esperte in lavaggi ultra delicati, e con i vicini di casa non ci si rivolge la parola neanche in caso di incendio. Così tutti, sognanti: ah la Svezia, lì sì che sanno condividere. In Svezia quasi tutti i condomini hanno la lavanderia comunitaria (risparmio economico, energetico, di spazio, momento di aggregazione e prova della parità uomo donna: il marito, invece di: “Esco a comprare le sigarette”, dice: “Scendo a fare il bucato”). Mentre la lavatrice centrifuga gli strofinacci si può prendere un caffè con la vicina, leggere un libro, pensare ai propri errori, ascoltare il racconto della vita della vecchietta di fronte. Invece, anche nella civilissima Stoccolma, luogo delle meraviglie dove tutto funziona perfettamente, nelle lavanderie condominiali si stanno scannando: pugni, insulti, denunce penali, accoltellamenti, maledizioni, secondo il Courrier International questi intelligenti spazi collettivi sono diventati un luogo di regolamento di conti e di violenze, è un caso nazionale. “Specie di minorato, ti sei imboscato il cappotto del mio cane”. “Che ti si possa staccare la pelle dal corpo quando tocchi i miei asciugamani”, “Tu, che riempi di merda la lavatrice”, al posto dei soliti messaggi di cortesia: “Per il benessere di tutti, grazie di togliere i pelucchi dal filtro dopo ogni utilizzo”.
In effetti l’idea di aspettare il turno per il bucato e di lavare le proprie magliette nello stesso cestello dove un bavoso vicino ha appena infilato le sue mutande può far uscire, con il passare del tempo, qualche pensiero violento, il desiderio di soffocare il dirimpettaio col sapone di marsiglia. La condivisione evidentemente non funziona con la biancheria: le macchie di sugo si lavano in famiglia, non in condominio, anche a essere svedesi (che hanno dedicato libri all’argomento, tanto è forte la simbologia del lavatoio pubblico: “La lavanderia collettiva” e “La lavanderia. Una storia svedese”). Nei buoni propositi dell’anno nuovo, oltre alla pace nel mondo, mettiamo anche una lavatrice per ogni svedese (tranne quelli molto belli e biondi, che possono usare la mia).