DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Visualizzazione post con etichetta Svezia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Svezia. Mostra tutti i post

Benvenuti a Rosengard, Svezia. Il primo quartiere islamico d'Europa

Il modello della sinistra nordeuropea in crisi
di Roberto Santoro
Tratto da L'Occidentale il 3 maggio 2010

Come tutti i prodotti letterari dell’industria editoriale, anche il genere “Eurabia” può essere demitizzato analizzando i meccanismi (le narrazioni, gli stili, eccetera) che ne hanno determinato il successo.

Scrivere che entro il 2050 l’Europa sarà islamizzata suscita certamente grande clamore e fa schizzare le tirature, soprattutto in America. Molti dei bestseller eurabici provengono infatti dall’altra parte dell’Oceano: i libri di Bat Ye’Or che descrivono l’Europa come un’appendice ormai asservita al mondo arabo, l’iperbolico America Alone di Mark Steyn, i lavori di Bruce Thornton, Walter Laqueur, Bruce Bawer, ma anche quelli di autori europei come Oriana Fallaci o Melanie Phillips. In tutte queste opere possiamo rintracciare delle immagini ricorrenti che alimentano una pesante e greve islamofobia.

Il primo stereotipo è la descrizione di una Europa debole e vecchia, che ha perso i suoi valori e la sua identità. Il Vecchio Continente viene visto dall’America come la linea del fuoco dello "scontro di civiltà" e, proprio come avveniva durante la Seconda Guerra mondiale o nella Guerra Fredda, il fronte è sempre sull’orlo di cadere vittima di qualcuno, del Nazismo, del Comunismo, dell’Islamismo. C’è una continuità nei cliché eurofobici della cultura americana, l’Europa ‘ateniese’, molle, decadente, femminea, che ha detto addio agli Stati Nazione, alla religione Cristiana, allo spirito dell’Occidente. Altre idee recues rintracciabili in questi bestseller sono invece collegate a una visione “orientalistica” del fenomeno migratorio, che tende a ridurre l’Islam a una forza maschile, fertile, dirompente dal punto di vista della procreazione, un mondo chiuso, che non si integra quando raggiunge le città europee, una cultura patriarcale che grazie alla forza della legge religiosa impone uno stile di vita che contrasta con i diritti individuali tipici dell'Occidente, come dimostra la condizione della donna o il destino degli "apostati" e dei dissidenti che non si piegano alla sharia. L’Islam come un numero, quindi, una minaccia religiosa e culturale. Nelle opere in questione viene taciuto l’apporto, anch'esso determinante, delle condizioni sociali ed economiche in cui vivono gli arabi in Europa, disoccupazione, discriminazione e razzismo compresi.

Steyn ha scritto che “L’Europa sarà semi-islamica nel giro di una generazione” ma, attualmente, in Europa Occidentale ci sono circa 18 milioni di Musulmani, il 4, 5 per cento della popolazione, ed è difficile immaginare che da un giorno all’altro questo dato possa raddoppiarsi o triplicarsi, anche se nelle metropoli o nelle grandi città europee si verificano casi di aree fortemente etnicizzate con una predominanza araba. I tassi demografici ‘islamici’ probabilmente si uniformeranno a quelli occidentali quando dalla prima si passerà alla seconda generazione di immigrati e alle successive. Proprio l’evoluzione dei comportamenti procreativi degli arabi dimostra che l’Islam, inteso come identità, valori, credenze e comportamenti, non è qualcosa di irriducibile al cambiamento, una forza che non subisce le influenze della Storia. La cultura islamica, come tutte le altre, con il passare del tempo si conformerà a quella delle società europea. I musulmani chiederanno sempre più insistentemente di poter praticare la propria fede in modo libero più che battersi per il Califfato. Nei prossimi decenni, l’integrazione dell’Islam in Europa continuerà, accompagnata da grandi tensioni culturali e sporadici ma nefasti attacchi terroristici, con esiti diversi fra Paesi e Paese. I musulmani diventeranno sempre più europei. Il contrario di quello che raccontano gli autori del genere eurabico.

Questa la tesi di un saggio apparso sulla rivista Foreign Policy, intitolato Eurabian Follies e scritto da Justin Vaisse, un ricercatore del Brookings Institution’s Centre, che abbiamo voluto riassumere perché dettato da un ragionamento critico, pacato, demistificatorio, che non sottovaluta i rischi dell’immigrazione islamica in Europa ma vuole liberarsi dalla ‘propaganda’ che se ne fa attorno. Intento nobile e in linea con la politica editoriale di FP o di Newsweek, due autorevoli riviste che negli ultimi tempi si sono date un gran da fare per farci sapere che c'è un risveglio dell'Islam moderato, che Al Qaeda è stata sconfitta, che in Pakistan un dottore della legge legato ai deobandi ha sottoscritto la prima fatwa contro Bin Laden. Così diamo pure per buona la tesi di Vaisse e diciamo che il problema della "islamificazione" si riduce ai ghetti delle grandi città dove la popolazione musulmana è prigioniera di minoranze fondamentaliste che la spingono a isolarsi dal resto della comunità generando un clima di sospetto e intolleranza reciproci. Non sembra un problema di poco conto, se pensiamo che questi “ghetti” sono quartieri dove vivono decine e decine di migliaia di persone.

Si prenda quanto è accaduto nei giorni scorsi a Rosengard, il sobborgo a prevalenza islamica di Malmo, la terza città della Svezia. Qui il tasso di disoccupazione degli immigrati sfiora l’80 per cento. La maggioranza dei nuovi arrivi viene dalla Palestina, dal Kosovo, dall’Iraq. I profughi che cercano riparo dalla guerra mondiale islamica portano in Svezia la loro rabbia, le loro rivendicazioni politiche, l'antisemitismo. Lo scorso anno, la nazionale di Tennis israeliana passa da Malmo per un evento sportivo e scatta il boicottaggio. Gli islamici protestano in piazza. Stessa storia durante l’ultima Guerra di Gaza. Gli ebrei scendono in strada per una manifestazione di pace. Sventolano bandiere con la stella di Davide. I dimostranti vengono circondata dai militanti islamici e da quelli della sinistra antagonista. Volano insulti, fischi, bottiglie. La polizia non reagisce. Il capo della sicurezza dichiara che gli islamici hanno il diritto di protestare perché è la legge svedese che glielo consente. Giovedì scorso, puntuale, riscoppia l’Intifada contro polizia e vigili del fuoco. Bruciano cassonetti e cabine del telefono. Un ragazzo viene ferito. Le bande di giovani teppisti arabi spadroneggiano per le strade di quella che doveva essere la società europea più avanzata dal punto di vista dei modelli di integrazione sociale. La dolce, quieta e un po’ noiosa Malmo, si risveglia in preda al panico.

Forse è vero che i “riots” di Rosengard sono il prezzo, endemico, che dovremo pagare prima di assistere una normalizzazione nei processi di integrazione fra islamici ed europei. Non avendo la palla di vetro è impossibile sapere cosa accadrà nel 2050, se la "fantascienza" eurabica dovesse avverarsi (Vaisse sottovaluta la forza premonitrice dei generi letterari), oppure se assisteremo alla nascita di un Islam europeo. Certo è che il governo svedese e un intero modello politico e sociale, quello dell’accogliente socialismo dei Paesi nordici, sembra aver fallito. La Svezia aveva offerto una grande opportunità ai nuovi arrivati ed è stata tradita. Dagli anni Settanta i programmi di edilizia popolare della sinistra svedese diedero case a buon mercato alla working class che successivamente è stata sostituita dalla popolazione immigrata. Sussidi di disoccupazione, servizi sociali, assistenza sanitaria, istruzione. Il risultato è stato da una parte l'integrazione mancata dall'altra l’aumento esponenziale della conflittualità, soprattutto dopo l’11 Settembre e la pubblicazione delle “vignette sataniche”.

A Rosengard la sera scatta il coprifuoco ma il sindaco continua a ripetere che vuol farne una zona residenziale come tutte le altre. Un sindaco socialista che evidentemente ha chiuso gli occhi sulla alleanza fra “rossi” e “verdi”, arabi e anarchici, islamici e centri sociali, che votano nello stesso modo e manifestano insieme contro gli ebrei. Minoranze, si dirà, ma il mondo dell’immigrazione araba è una delle constituency della sinistra europea che lo difende e lo coccola con la stessa esagerazione con cui gli autori del genere eurabico lo attaccano e lo ostracizzano. La risorgenza di un “comunismo verde” o islamismo di sinistra, fortemente antisemita e anticristiano, non è un'invenzione fascista, razzista e bigotta. E' proprio il modello multiculturale svedese ad aver prodotto una polarizzazione etnica e politica che favorisce gli estremismi idelogici (e religiosi). L'islamizzazione di Malmo, in definitiva, rappresenta la crisi d'identità in cui vegeta la sinistra europea e la sua incapacità di gestire la conflittualità sociale prodotta da decenni di multiculturalismo e relativismo culturale.

Famiglia. La bella lavanderina. In Svezia la condivisione è fallita, ora fra le lavatrici condo

di Annalena Benini
Tratto da Il Foglio del 7 gennaio 2010

Ci si immaginava le lavanderie di condominio come luoghi massimamente erotici, dove tra uno stenditoio e un’asciugatrice potevano avvenire cose interessanti.

Fra dirimpettai, vicini di balcone, in attesa che la lavatrice facesse il suo corso con le lenzuola o il completo da jogging. In un ormai antico telefilm americano, “Melrose Place”, ambientato in un residence, succedeva più o meno così. E in uno spot anni Ottanta dei Levi’s, Nick Kamen (prima modello, poi cantante pop) entra in una lavanderia a gettoni, con le signore accaldate sedute a leggere riviste in attesa del bucato, si toglie jeans e t-shirt e li infila in lavatrice. Le signore, anche quelle a casa, gli saranno per sempre grate. Dalle nostre parti piccolo borghesi, invece, ognuno si tiene stretta la propria misera lavatrice, spesso nemmeno le colf hanno il permesso di usarla perché non abbastanza esperte in lavaggi ultra delicati, e con i vicini di casa non ci si rivolge la parola neanche in caso di incendio. Così tutti, sognanti: ah la Svezia, lì sì che sanno condividere. In Svezia quasi tutti i condomini hanno la lavanderia comunitaria (risparmio economico, energetico, di spazio, momento di aggregazione e prova della parità uomo donna: il marito, invece di: “Esco a comprare le sigarette”, dice: “Scendo a fare il bucato”). Mentre la lavatrice centrifuga gli strofinacci si può prendere un caffè con la vicina, leggere un libro, pensare ai propri errori, ascoltare il racconto della vita della vecchietta di fronte. Invece, anche nella civilissima Stoccolma, luogo delle meraviglie dove tutto funziona perfettamente, nelle lavanderie condominiali si stanno scannando: pugni, insulti, denunce penali, accoltellamenti, maledizioni, secondo il Courrier International questi intelligenti spazi collettivi sono diventati un luogo di regolamento di conti e di violenze, è un caso nazionale. “Specie di minorato, ti sei imboscato il cappotto del mio cane”. “Che ti si possa staccare la pelle dal corpo quando tocchi i miei asciugamani”, “Tu, che riempi di merda la lavatrice”, al posto dei soliti messaggi di cortesia: “Per il benessere di tutti, grazie di togliere i pelucchi dal filtro dopo ogni utilizzo”.

In effetti l’idea di aspettare il turno per il bucato e di lavare le proprie magliette nello stesso cestello dove un bavoso vicino ha appena infilato le sue mutande può far uscire, con il passare del tempo, qualche pensiero violento, il desiderio di soffocare il dirimpettaio col sapone di marsiglia. La condivisione evidentemente non funziona con la biancheria: le macchie di sugo si lavano in famiglia, non in condominio, anche a essere svedesi (che hanno dedicato libri all’argomento, tanto è forte la simbologia del lavatoio pubblico: “La lavanderia collettiva” e “La lavanderia. Una storia svedese”). Nei buoni propositi dell’anno nuovo, oltre alla pace nel mondo, mettiamo anche una lavatrice per ogni svedese (tranne quelli molto belli e biondi, che possono usare la mia).

Ma persino il nostro nome è un dovere prima che un diritto. La bizzarra pretesa di uno svedese aiuta a capire un nodo cruciale

di Francesco D’Agostino
Tratto da Avvenire del 18 novembre 2009

Giunge dalla Svezia una notizia, obiettivamente piccola, ma non priva di interesse.

In una località del Nord del Paese, un cittadino ha chiesto alle autorità competenti di mutare il suo nome proprio, maschile, con un nuovo nome anagrafico, femminile: una richiesta non accompagnata da quella di mutare la propria identità sessuale anagrafica. Perché questa richiesta? Perché sì: se si riconosce a un cittadino di uno Stato laico e liberale il diritto di autodeterminarsi nelle sue scelte personali e al limite in quelle di fine vita, perché non dovrebbe vedersi anche riconosciuto il diritto di liberarsi di una scelta – quella del nome – che altri hanno fatto per lui? Le autorità cui si è rivolto non hanno rigettato la domanda, ma hanno adottato una soluzione di compromesso: il ricorrente si è visto riconoscere il diritto di aggiungere al proprio il nome di sua elezione, 'Madeleine', come secondo nome.

Lasciamo da parte le questioni, che pure non sono banali, di ordine pubblico, inerenti alla necessità di poter identificare socialmente le persone anche e soprattutto a partire dal loro nome anagrafico: la decisione svedese sembra sotto questo profilo rendere ancora più liquida una società, come quella moderna, che avrebbe piuttosto bisogno di nuove forme di stabilizzazione ben più consistenti di quelle attuali. Il punto è che ci troviamo di fronte a qualcosa di molto diverso rispetto alle tante pratiche storicamente conosciute di mutamento di nome (dal soprannome al nuovo nome che ottiene chi entra in religione, dalla nuova denominazione che ottiene chi deve mutare identità per ragioni di protezione personale a quella che ottiene l’immigrato per meglio integrarsi nella comunità che lo accoglie). In tutti questi casi la nuova denominazione non entra in conflitto con la precedente, ma si limita a integrarla, più spesso a sublimarla, in casi estremi a occultarla per ragioni di forza maggiore. Ciò che invece contraddistingue il caso svedese è il rifiuto di motivare la richiesta con ragioni oggettive, valutabili socialmente. L’intenzione di alterare la propria identità e di adottare un nuovo nome proprio, per di più del sesso opposto, si unisce nella vicenda svedese a quella per la quale non dovrebbe avere alcun rilievo pubblico, e quindi nemmeno anagrafico, la distinzione sessuale, di cui il nome proprio è uno dei segni più rilevanti. A questa intenzione se ne unisce necessariamente un’altra, quella di rigettare quel dato della «stabilità dell’io» di cui il nome anagrafico è segno. Se infatti mi si riconosce come un diritto quello di mutar nome, perché questo diritto dovrebbe poter essere esercitato una volta soltanto e non tutte le volte in cui sorgesse in me il desiderio – insindacabile – di mutarlo? Giungiamo lentamente così al cuore della questione. Se tradizionalmente la richiesta del cambiamento del nome veniva avanzata, in casi peraltro molto rari, con oggettive motivazioni di tipo relazionale (tra le quali potremmo anche porre quella comprensibilissima di sostituire un nome percepito come ridicolo o umiliante), quella che ha iniziato a manifestarsi in Svezia – e che potrebbe ben presto dilagare nel resto del mondo occidentale – è piuttosto il segno di un profondo disagio nei confronti di se stessi, al quale si cerca (illusoriamente) di trovare soddisfazione attraverso una nuova denominazione anagrafica. Il punto però è che nessuno può realmente darsi il nome da sé, perché il nome non è una maschera, che si può cambiare a piacimento, ma è parte costitutiva del nostro io: riceviamo il nome da altri, come da altri riceviamo la vita, il linguaggio, l’educazione, la possibilità di un inserimento sociale. Restar fedeli al proprio nome è qualcosa di più della mera e passiva accettazione di un’identità debole: è piuttosto il percepirne le radici ultime e profonde, che non sta nelle nostre possibilità alterare e che siamo piuttosto chiamati a custodire e a difendere. Probabilmente tra le fatiche della modernità dovremo presto porre anche questa: far capire alle persone che non è dal nome che dobbiamo farci rappresentare (nel bene o nel male): siamo piuttosto noi a dover 'rappresentare' il nostro nome, aprendoci al mondo con uno sguardo limpido e sereno e operando in modo tale che tutti lo citino, se non con ammirazione, con rispetto ed amicizia.

SVEZIA: “RAMMARICO” DI CATTOLICI E ORTODOSSI PER IL SÌ AI MATRIMONI GAY

La Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse in Svezia, si rammaricano per la decisione presa ieri dal Sinodo generale della Chiesa luterana svedese di permettere a partire dal primo novembre il matrimonio in Chiesa alle coppie omosessuali.
In un comunicato congiunto, padre Fredrik Emanuelson, incaricato per l’ecumenismo della chiesa cattolica svedese e padre Misha Jaksic, rappresentante delle Chiese ortodosse, scrivono di aver appreso “con tristezza”l a notizia”, ed aggiungono: “si tratta di un allontanamento non solo dalla tradizione cristiana ma anche dal punto di vista proprio a tutte le religioni sulla natura del matrimonio”.
La decisione presa dal Sinodo generale luterano “esprime una visione radicalmente diversa” da come la Chiesa e i cristiani concepiscono il matrimonio.
La decisione del Sinodo luterano in realtà non ha sorpreso le Chiese cattolica e ortodossa perché “è stata preceduta da un lungo dibattito” all’interno della Chiesa luterana, cominciato all’inizio di quest’anno quando è entrata in vigore una legge che consente agli omosessuali il matrimonio civile.
“Nessuno di noi – conclude il comunicato - vuole annullare i colloqui ecumenici con la Chiesa svedese. Certamente, questa decisione della Chiesa di Svezia contribuisce ad allargare il divario”, ma “i colloqui sono ora più importanti che mai, se si vuole compiere ciò che Cristo ci ha chiesto e cioè di essere uno, perché il mondo creda”.

© Copyright Sir