Se io fossi un cardinale/ con la croce
pettorale/ notereste il portamento…
le distanze io terrei”. Con la faccia del
cantante televisivo Marcello Cirillo, don
Bosco è – canonicamente – molto
simpatico e balla su un bel ritmo pop.
Però vederlo saltellare in mezzo a
sagome di imbalsamati prelati e partire
col ritornello sfotterello,
“ma io sono un operaio di
Dio”, fa una bizzarra
impressione. E’ pur
sempre il fondatore dei
salesiani che prende a
sante legnate l’alto clero e
rilancia l’imprinting
umile e operaio della
spiritualità salesiana. Il
musical “Don Bosco”
dello “specialista” Piero Castellacci,
realizzato in collaborazione con il
Movimento giovanile salesiano, va in
scena da oltre un anno nei teatri d’Italia,
a suo modo un fenomeno del box office.
Molto “easy”, molto comunicativo,
perfettamente salesiano. Chissà quanta
consapevolezza c’è, o invece quanta
inconsapevole ironia, del fatto che nelle
alte sfere della chiesa i figli di don Bosco
con “la croce pettorale” sono ormai una
bella squadra. Anzi un’invasione,
secondo qualcuno. Non solo il primo
ministro del Papa, il cardinale Tarcisio
Bertone, ma anche star dell’ecclesia
globale come il cardinale di Tegucigalpa,
Óscar Andrés Rodríguez Maradiaga, o
quello di Hong-Kong, Joseph Zen Zekiun,
che l’anno scorso ha scritto i testi
per la Via Crucis del Papa. In tutto
cinque cardinali e oltre cento vescovi.
Un eccesso di irriverenza, o l’umile
coscienza del doppio binario su cui da un
secolo e mezzo camminano spediti i figli
di don Bosco? Sia come sia, fatto sta che
hanno appena prodotto un altro musical –
sì, un altro: se c’è una cosa che i salesiani
hanno nel dna è il teatro leggero; e se c’è
una cosa su cui non badano a spese, e
sanno far funzionare bene, è la
comunicazione popolare. Si intitola
“Andiamo ragazzi” e viene presentato
come quello “ufficiale” in vista del
bicentenario del fondatore (2015),
benedetto dal Rettor maggiore in
persona, il messicano don Pascual
Chavez Villanueva, nono successore di
don Bosco, alla presenza degli stati
generali dell’ordine riuniti a Valdocco.
L’ha prodotto la famiglia salesiana di
Piemonte e Val d’Aosta, quella di
Bertone. Non si sa mai.
Musical a parte, nella canzone del
prete operaio “San Giovanni Bosco” c’è
molto dell’anima e della filosofia di un
ordine che, nonostante l’espansione
esponenziale (in pratica, ha solo 150 anni)
e il ruolo di primo piano assunto
all’interno della chiesa cattolica nei
cinque continenti, mantiene vivo il suo
carisma del “fare”. Affabile e fiducioso,
semplice e caritatevole, evangelico e
“naturaliter” popolare. Di se stessi
dicono: “La carità pastorale è il centro e
la sintesi della spiritualità salesiana. Se i
francescani hanno la povertà e i gesuiti
l’obbedienza, noi figli di don Bosco
abbiamo la carità”. Il che però non ha
impedito a questa gran famiglia operosa
di crescere in virtù e forza, fino a
soppiantare per dinamismo, e in certi
casi per affidabilità agli occhi dei Papi,
famiglie religiose di più antico lignaggio
ma meno a proprio agio con la modernità.
I salesiani sono oggi una realtà mondiale
di sedicimila membri (oltre diecimila i
sacerdoti), di migliaia tra centri giovanili,
scuole, istituti professionali. Cui si
aggiungono 48 case editrici, 55 tipografie,
32 radio e undici emittenti radio-tv.
Allievi celebri a dozzine, nel mondo. Per
stare in Italia, Berlusconi e Confalonieri,
ma anche Guido Bertolaso. Personaggi
che, innegabilmente, hanno conservato in
sé qualcosa della genuina operosità di
famiglia. Nati per “la vita religiosa,
l’educazione e la formazione dei giovani”,
i salesiani non hanno mai fatto sconti
nelle loro scuole, anche se hanno
privilegiato un profilo meno intellettuale
rispetto ad altri ordini educativi. Ma
persino Luciana Littizzetto suo figlio l’ha
iscritto all’istituto salesiano di Valsalice,
sulla collina di Torino.
C’è una classica barzelletta clericale,
sulle due cose che neppure Dio conosce:
“Che cosa pensano i gesuiti, e da dove
prendono i soldi i salesiani”. Per meglio
dire: se i figli di Ignazio si portano dietro,
nell’immaginario secolare, il fardello
della doppia morale, della sottigliezza
intellettuale e persino politica, i figli di
don Bosco portano il carisma di una
doppia personalità. Popolari, ma anche
potenti. Del resto, “stare con i tempi e con
don Bosco” è il sintetico slogan che li
guida da oltre un secolo
Anche quando si
danno alle attività speculative in cui pure
eccellono – il cardinale capo della
Congregazione dei santi, Angelo Amato,
collaborava da raffinato teologo con
Joseph Ratzinger – la mettono più sul
pastorale che sul filosofico, la questione
antropologica è per loro una faccenda
molto operativa: “Siamo un’istituzione a
servizio della società, della chiesa e della
Società di San Francesco di Sales –
dicono della loro Università Pontificia
salesiana – che si propone come scopo
caratterizzante di dedicare particolare
attenzione allo studio e alla soluzione
delle questioni inerenti l’educazione e
l’azione pastorale specialmente tra i
giovani e i ceti popolari”. Spirituali e
pragmatici, fattivi e all’occorrenza
disinvolti. Sarà che, fondati a Torino nel
1859, nascono in pratica gemelli di
un’Italia massonica e aggressivamente
laica. Alla quale don Bosco non faceva
sconti. Ma allo stesso tempo, figlio del
popolo contadino, sapeva trattare senza
mai chiudersi in atteggiamenti reazionari,
come ha ben raccontato Antonio Socci nel
suo “La dittatura anticattolica – Il caso
don Bosco e l’altra faccia del
Risorgimento”. Il suo primo incontro con
Urbano Rattazzi, “lo sconosciuto signore”
che era andato di persona a sentirlo in
chiesa per capire chi diavolo fosse, è negli
atti del processo di beatificazione: “Potrei
sapere con chi ho l’onore di parlare?”.
“Con Rattazzi!”. “Dunque (sorridendo)
posso preparare i polsi alle manette, e
dispormi per andare all’ombra della
prigione”. Ma secondo i testimoni “il
signor Rattazzi ascoltò con vivo
interesse… si convinse appieno della
bontà del sistema in uso negli oratori, e
promise che dal canto suo lo avrebbe fatto
preferire a ogni altro negli istituti
governativi”. Lo stesso stile disinvolto e
pragmatico ha garantito il successo
dell’ordine e ancora oggi distingue i
salesiani come un tratto peculiare – per
dinamismo, per spericolato spirito di
iniziativa – fra i mille ordini e movimenti
del cattolicesimo contemporaneo.
Questione spirituale e carismatica, prima
che scelta operativa: quella salesiana è
“una spiritualità adeguata ai giovani,
specialmente i più poveri”, una
“spiritualità pasquale della gioia
dell’operosità”. Ma anche fortemente
mariana, devotissima a Maria
Ausiliatrice, che certamente li rende cari
a Papa Benedetto. Il quale non a caso,
incontrandoli un anno fa nella Sala
Clementina, li aveva spronati a rinverdire
il loro carisma: “Il processo di
secolarizzazione, che avanza nella cultura
contemporanea, non risparmia purtroppo
nemmeno le comunità di vita consacrata.
Occorre per questo vigilare su forme e
stili di vita che rischiano di rendere
debole la testimonianza evangelica,
inefficace l’azione pastorale e fragile la
risposta vocazionale”.
Poi c’è ovviamente il genio educativo di
don Bosco, fondato su quel “sistema
preventivo” che colpì pure Rattazzi:
“Ragione, religione e amorevolezza”.
Anche Giovanni Gentile riconosceva in lui
il “grande educatore”, anche se
sottostimava l’“autore di cui invano si
cercheranno gli scritti”. Fatto sta che
dopo quindici anni erano già in America
latina, inviati a evangelizzare la Terra del
fuoco. Diventeranno in fretta i pilastri
della chiesa in Sudamerica e in molte
terre di missione dall’Asia all’Africa.
Ciò non impedì che negli anni 60 la crisi
colpisse anche loro. Sociologia anziché
teologia, politica e ideologia, Concilio e
contestazione ecclesiale. Salesiani come
don Gerardo Lutte o il teologo Giulio
Girardi, perito del Concilio ed espulso nel
1969 dall’Università salesiana per
“divergenze ideologiche”, sono state
figure importanti del dissenso cattolico,
nulla da invidiare ai gesuiti di padre
Arrupe e ai francescani e domenicani
della teologia della liberazione.
Negli anni hanno recuperato, guidati
anche da Paolo VI. Se non la forza
espansiva dei tempi migliori, quantomeno
il loro marchio di forte affidabilità,
lontana dalle sbandate teologiche e
naturaliter istituzionale. Lucetta
Scaraffia, storica del cristianesimo ma
anche torinese, ha scritto che la
“piemontesizzazione” della curia vaticana
è “cresciuta di pari passo con la
ramificazione in Vaticano della presenza
salesiana. Da quando Pio XI li valorizzò
per il carattere fattivo e pragmatico del
loro ordine”. E padre Federico Lombardi,
direttore della sala stampa e gesuita, ha
riconosciuto il valore della “comune
radice del cattolicesimo sociale
piemontese”, il “‘cattolicesimo del fare’ di
marca piemontese”.
Sviluppando un altro tratto del loro
carisma originario, i salesiani sono
sempre stati anche estremamente attenti
ai mass media. Anche qui, nel segno del
fare. Già negli anni 30 avevano la
responsabilità della tipografia che
stampava l’Osservatore Romano; hanno le
chiavi della Libreria editrice vaticana e la
loro Università Pontificia, a Roma, è una
delle più attrezzate in casa cattolica nella
riflessione sui mondi della
comunicazione di massa. Inoltre la Sei,
colosso editoriale nella scolastica: nessun
altro ordine vanta una presenza così forte
in questo strategico tipo di editoria. Lo
scorso anno, durante il Capitolo generale
della Società di San Francesco di Sales, lo
storico salesiano Francesco Motto aveva
ricordato una qualità di don Bosco che
riassume un secolo e mezzo di storia: “In
attesa di ‘far bene il bene’ incominciò,
confidando in Dio e in Maria, a ‘fare il
bene come si può’”.
Maurizio Crippa
Il Foglio 7 gennaio 2010