La chiesa non si da vita da sola: creazione e peccato originale
L'uomo non si fida di Dio. Egli, tentato dalle parole del serpente, cova il sospetto che Dio, in fin dei conti, gli tolga qualcosa della sua vita, che Dio sia un concorrente che limita la nostra libertà e che noi saremo pienamente esseri umani soltanto quando l'avremo accantonato; insomma, che solo in questo modo possiamo realizzare in pienezza la nostra libertà. L'uomo vive nel sospetto che l'amore di Dio crei una dipendenza e che gli sia necessario sbarazzarsi di questa dipendenza per essere pienamente se stesso. L'uomo non vuole ricevere da Dio la sua esistenza e la pienezza della sua vita. Vuole attingere egli stesso dall'albero della conoscenza il potere di plasmare il mondo, di farsi dio elevandosi al livello di Lui, e di vincere con le proprie forze la morte e le tenebre. Non vuole contare sull'amore che non gli sembra affidabile; egli conta unicamente sulla conoscenza, in quanto essa gli conferisce il potere. Piuttosto che sull'amore punta sul potere col quale vuole prendere in mano in modo autonomo la propria vita. E nel fare questo, egli si fida della menzogna piuttosto che della verità e con ciò sprofonda con la sua vita nel vuoto, nella morte. Amore non è dipendenza, ma dono che ci fa vivere. La libertà di un essere umano è la libertà di un essere limitato ed è quindi limitata essa stessa. Possiamo possederla soltanto come libertà condivisa, nella comunione delle libertà: solo se viviamo nel modo giusto l'uno con l'altro e l'uno per l'altro, la libertà può svilupparsi. Noi viviamo nel modo giusto, se viviamo secondo la verità del nostro essere e cioè secondo la volontà di Dio. Perché la volontà di Dio non è per l'uomo una legge imposta dall'esterno che lo costringe, ma la misura intrinseca della sua natura, una misura che è iscritta in lui e lo rende immagine di Dio e così creatura libera. Se noi viviamo contro l'amore e contro la verità – contro Dio –, allora ci distruggiamo a vicenda e distruggiamo il mondo. Allora non troviamo la vita, ma facciamo l'interesse della morte. Tutto questo è raccontato con immagini immortali nella storia della caduta originale e della cacciata dell'uomo dal Paradiso terrestre.
Cari fratelli e sorelle! Se riflettiamo sinceramente su di noi e sulla nostra storia, dobbiamo dire che con questo racconto è descritta non solo la storia dell'inizio, ma la storia di tutti i tempi, e che tutti portiamo dentro di noi una goccia del veleno di quel modo di pensare illustrato nelle immagini del Libro della Genesi. Questa goccia di veleno la chiamiamo peccato originale. Proprio nella festa dell'Immacolata Concezione emerge in noi il sospetto che una persona che non pecchi affatto sia in fondo noiosa; che manchi qualcosa nella sua vita: la dimensione drammatica dell'essere autonomi; che faccia parte del vero essere uomini la libertà del dire di no, lo scendere giù nelle tenebre del peccato e del voler fare da sé; che solo allora si possa sfruttare fino in fondo tutta la vastità e la profondità del nostro essere uomini, dell'essere veramente noi stessi; che dobbiamo mettere a prova questa libertà anche contro Dio per diventare in realtà pienamente noi stessi. Con una parola, noi pensiamo che il male in fondo sia buono, che di esso, almeno un po', noi abbiamo bisogno per sperimentare la pienezza dell'essere. Pensiamo che Mefistofele – il tentatore – abbia ragione quando dice di essere la forza "che sempre vuole il male e sempre opera il bene" (J.W. v. Goethe, Faust I, 3). Pensiamo che patteggiare un po' col male, riservarsi un po' di libertà contro Dio, in fondo, sia bene, forse sia addirittura necessario.
Guardando però il mondo intorno a noi, possiamo vedere che non è così, che cioè il male avvelena sempre, non innalza l'uomo, ma lo abbassa e lo umilia, non lo rende più grande, più puro e più ricco, ma lo danneggia e lo fa diventare più piccolo. Questo dobbiamo piuttosto imparare nel giorno dell'Immacolata: l'uomo che si abbandona totalmente nelle mani di Dio non diventa un burattino di Dio, una noiosa persona consenziente; egli non perde la sua libertà. Solo l'uomo che si affida totalmente a Dio trova la vera libertà, la vastità grande e creativa della libertà del bene. L'uomo che si volge verso Dio non diventa più piccolo, ma più grande, perché grazie a Dio e insieme con Lui diventa grande, diventa divino, diventa veramente se stesso. L'uomo che si mette nelle mani di Dio non si allontana dagli altri, ritirandosi nella sua salvezza privata; al contrario, solo allora il suo cuore si desta veramente ed egli diventa una persona sensibile e perciò benevola ed aperta.
Più l'uomo è vicino a Dio, più vicino è agli uomini.
(Cappella papale nel 40° anniversario della conclusione del Concilio ecumenico Vaticano II, omelia di Sua Santità Benedetto XVI, nella solennità dell’Immacolata concezione della Beata Vergine Maria, giovedì, 8 dicembre 2005)
Il cardinal Ratzinger dice dunque: "Temendo, naturalmente a torto, che l'attenzione sul Padre Creatore possa oscurare il Figlio, certa teologia tende oggi a risolversi in sola cristologia. Ma è una cristologia spesso sospetta, dove si sottolinea in modo unilaterale la natura umana di Gesù, oscurando o tacendo o esprimendo in modo insufficiente la natura divina che convive nella stessa persona del Cristo. Si direbbe il ritorno in forze dell'antica eresia ariana. Difficile, naturalmente, trovare un teologo "cattolico" che dica di negare l'antica formula che confessa Gesù come "Figlio di Dio". Tutti diranno di accettarla, aggiungendo però "in quale senso" quella formula dovrebbe secondo loro essere intesa. Ed è qui che si operano distinzioni che portano spesso a riduzioni della fede in Cristo come Dio. Come già dicevo, sganciata da una ecclesiologia che sia anche soprannaturale, non solo sociologica, la cristologia tende essa stessa a perdere la dimensione del Divino, tende a risolversi nel "progetto-Gesù", in un progetto cioè di salvezza solo storica, umana".
Quanto al Padre come prima Persona della Trinità - continua - la sua "crisi" presso certa teologia è spiegabile in una società che dopo Freud diffida di ogni padre e di ogni paternalismo. Si oscura l'idea del Padre Creatore anche perché non si accetta l'idea di un Dio al quale rivolgersi in ginocchio: si ama parlare solo di partnership, di rapporto di amicizia, quasi tra uguali, da uomo a uomo, con l'uomo Gesù. Si tende poi a mettere da parte il problema di Dio Creatore anche perché si temono (e dunque si vorrebbero evitare) i problemi sollevati dal rapporto tra fede nella creazione e scienze naturali, a cominciare dalle prospettive aperte dall'evoluzionismo. Così, ci sono nuovi testi per la catechesi che partono non da Adamo, dal principio del libro della Genesi; ma partono dalla vocazione di Abramo o dall'Esodo. Ci si concentra cioè solo sulla storia evitando di confrontarsi con l'essere. In questo modo, però - se ridotto al solo Cristo, magari solo all'uomo Gesù - Dio non è più Dio. E difatti, sembra proprio che una certa teologia non creda più a un Dio che può entrare nelle profondità della materia; c'è come il ritorno dell'indifferenza, quando non dell'orrore della gnosi per la materia. Da qui i dubbi sugli aspetti "materiali" della rivelazione, come la presenza reale del Cristo nell'eucaristia, la verginità perpetua di Maria, la risurrezione concreta e reale di Gesù, la risurrezione dei corpi promessa a tutti alla fine della storia. Non è certo per caso che il Simbolo apostolico comincia confessando: "Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra". Questa fede primordiale nel Dio creatore (dunque, un Dio che sia davvero Dio) costituisce come il chiodo a cui tutte le altre verità cristiane sono appese. Se qui si vacilla, tutto il resto cade.
V.Messori: Per tornare alla cristologia, c'è chi dice che essa sia messa in difficoltà anche dalla dimenticanza, se non dalla negazione, di quella realtà che la teologia ha chiamato " peccato originale ". Alcuni teologi avrebbero fatto proprio lo schema di un illuminismo alla Rousseau, con il dogma che è alla base della cultura moderna, capitalista o marxista che sia: l'uomo buono per natura, corrotto solo dalla educazione sbagliata e dalle strutture sociali da riformare. Intervenendo sul " sistema " tutto dovrebbe sistemarsi e l'uomo potrebbe vivere in pace con se stesso e con gli altri.
Il cardinal Ratzinger dice al proposito: "Se la Provvidenza mi libererà un giorno da questi miei impegni, vorrei dedicarmi proprio a scrivere sul "peccato originale" e sulla necessità di riscoprirne la realtà autentica. In effetti, se non si capisce più che l'uomo è in uno stato di alienazione non solo economica e sociale (dunque un'alienazione non risolvibile con i suoi soli sforzi), non si capisce più la necessità del Cristo redentore. Tutta la struttura della fede è così minacciata. L'incapacità di capire e presentare il "peccato originale" è davvero uno dei problemi più gravi della teologia e della pastorale attuali"...
Gli chiedo se il disagio non si manifesti anche a livello linguistico: è ancora adeguata la vecchia espressione, di origine patristica, di "peccato originale"?
"Modificare il linguaggio religioso è sempre molto rischioso. La continuità, qui, è di grande importanza. lo non vedo modificabili le espressioni centrali della fede che derivano dalle grandi parole della Scrittura: ad esempio "Figlio di Dio", "Spirito Santo", "Verginità" e "Maternità divina" di Maria. Concedo invece che possano essere modificabili espressioni come "peccato originale" che, nel loro contenuto, sono anch'esse di diretta origine biblica, ma nell'espressione manifestano già lo stadio della riflessione teologica. In ogni caso, occorre procedere con molta cautela: le parole non sono insignificanti, sono anzi legate in modo stretto al significato. Credo comunque che le difficoltà teologiche e pastorali davanti al "peccato originale"non siano certo solo semantiche ma di natura più profonda".
E cioè?
"In un'ipotesi evoluzionistica del mondo (quella alla quale in teologia corrisponde un certo "theilardismo") non c'è ovviamente posto per alcun "peccato originale". Questo, al massimo, non è che un'espressione simbolica, mitica, per indicare le mancanze naturali di una creatura come l'uomo che, da origini imperfettissime, va verso la perfezione, va verso la sua realizzazione completa. Accettare questa visione significa però rovesciare la struttura del cristianesimo: Cristo è trasferito dal passato al futuro; redenzione significa semplicemente camminare verso l'avvenire come necessaria evoluzione verso il meglio. L'uomo non è che un prodotto non ancora del tutto perfezionato dal tempo, non c'è stata una "redenzione" perché non c'era nessun peccato cui riparare ma solo una mancanza che, ripeto, sarebbe naturale. Eppure, queste difficoltà di origine più o meno "scientifica" non sono ancora la radice della odierna crisi del "peccato originale". Questa crisi non è che un sintomo della nostra difficoltà profonda di scorgere la realtà di noi stessi, del mondo, di Dio. Non bastano di certo, qui, le discussioni con le scienze naturali, come ad esempio la paleontologia, anche se questo tipo di confronto è necessario. Dobbiamo essere consapevoli che siamo di fronte anche a delle precomprensioni e a delle predecisioni di carattere filosofico".
Difficoltà comunque giustificate, osservo, visto l'aspetto davvero "misterioso" del "peccato originale", o come lo si voglia chiamare.
Dice: "Questa verità cristiana ha un aspetto di mistero ma anche un aspetto di evidenza. L'evidenza: una visione lucida, realistica dell'uomo e della storia non può non scoprirne l'alienazione, non può non rivelare che c'è una rottura delle relazioni: dell'uomo con se stesso, con gli altri, con Dio. Ora, poiché l'uomo è per eccellenza l'essere-in-relazione, una simile rottura raggiunge le radici, si ripercuote su tutto. Il mistero: se non siamo in grado di penetrare sino in fondo realtà e conseguenze del peccato originale, è proprio perché esso esiste, perché lo sfasamento è ontologico, sbilancia, confonde in noi la logica della natura, ci impedisce di capire come una colpa all'origine della storia possa coinvolgere in una situazione di peccato comune".
Adamo, Eva, l'Eden, la mela, il serpente... Che dobbiamo pensarne?
"La narrazione della Sacra Scrittura sulle origini non parla alla maniera storiografica moderna ma parla attraverso le immagini. È una narrazione che rivela e nasconde allo stesso tempo. Ma gli elementi fondanti sono ragionevoli e la realtà del dogma va in ogni caso salvaguardata. Il cristiano non farebbe abbastanza per i fratelli se non annunciasse il Cristo che porta la redenzione innanzitutto dal peccato; se non annunciasse la realtà dell'alienazione (la "caduta") e al contempo la realtà della Grazia che ci redime, ci libera; se non annunciasse che per ricostruire la nostra essenza originaria c'è bisogno di un aiuto al di fuori di noi; se non annunciasse che l'insistenza sull'auto-realizzazione, sull'autoredenzione non porta alla salvezza ma alla distruzione. Se non annunciasse, infine, che per essere salvati occorre abbandonarsi all'Amore".
(da Vittorio Messori a colloquio con J.Ratzinger, Rapporto sulla fede, Paoline, Cinisello Balsamo, 1985, pagg.77-82)
La grazia presuppone la natura
Di fronte ad un tomismo decurtato, che giustamente divenne il terreno d’attacco del pensiero protestante, (la riflessione che segue) cerca di richiamare alla memoria quell’altra corrente della scolastica, che forse è caratterizzata più di tutto dal nome di Bonaventura. Essa vuole anche proteggere, di fronte alla unilateralità di Barth, il diritto della “natura” nella fede. Oggi, libero dalle forti opposizioni di allora, sottolineerei ancora più chiaramente questo aspetto: poiché Tommaso non può più venir presupposto, egli dovrebbe ora ritornare espressamente in campo di fronte a Bonaventura...
(Gli) aspetti del problema, che qui viene sviluppato, rappresentano nello stesso tempo (gli) aspetti principali della crisi, dalla quale oggi è travagliata la cristianità. La negazione teologica della natura, per un aspetto, ha potuto collegarsi con facilità all’escatologia marxista, che non conosce nessuna “natura”, ma soltanto delle realtà di fatto, che devono venire modificate, se si vuol portare alla salvezza un mondo pieno di rovine. Come (ulteriore) componente si dovrebbe ricordare il nichilismo esistenzialista di Sartre: l’uomo non possiede essenza ma solo esistenza; egli ricrea continuamente il suo essere per se stesso. Ciò che egli è viene stabilito in base alle sue azioni. Il Creatore e la sua creazione devono venire difesi da queste negazioni della natura e non solo quando il puro arbitrio del pragmatismo astratto si accosta tangibilmente all’individuo, ma a partire dalla più profonda esigenza della fede, la cui grazia non ha bisogno della distruzione della creazione – della natura – per imporre la sua grandezza. L’altro aspetto presenta un naturalismo, per il quale la distinzione fra natura e grazia comporta la costruzione di un ultra-mondo del tutto inutile, che si deve respingere come ideologia a favore di ciò che solo è reale; un cristianesimo dovrebbe interpretare soltanto ciò che è la vita e nulla più. Qui, viceversa, con la scusa di sfuggire all’ideologia, l’uomo è lasciato acriticamente in balia di se stesso, delle forze e potenze, che gli possono suggerire di essere la realtà, la vita. Il naturalismo che rifiuta la grazia in natura porta, in conclusione, allo stesso risultato del soprannaturalesimo, che combatte la natura e, travisando la creazione, rende priva di senso anche la grazia. Il fanatismo degli Omileti, che schernivano la natura, il quale appare in favore della grazia, è sempre terribilmente prossimo ad unirsi al cinismo degli ateisti, che scherniscono Dio per amore della sua creazione. Le osservazioni seguenti si trovano entro questo ambito di problematiche...
L’assioma “gratia praesupponit naturam” vuol dire... anche in accordo con la Bibbia, che la grazia, cioè l’incontro dell’uomo col Dio che lo chiama, non distrugge la vera realtà umana dell’uomo, ma la salva e la completa. Questa vera realtà umana dell’uomo, la condizione creaturale di uomo, non è completamente estinta in nessun uomo; essa sta alla base di ognuna delle persone umane e si esplica in forme svariate anche nella concreta esistenza dell’uomo, incoraggiandolo e guidandolo ininterrottamente. Però non è presente in nessun uomo in forma non deformata e non adulterata; in ognuno invece essa è ricoperta da quello sporco rivestimento che Pascal ha acutamente definito la “seconde nature” dell’uomo. L’uomo ha aggiunto a se stesso una seconda natura, che ha per centro la schiavitù nei confronti dell’io, la concupiscentia. Ne è una conseguenza anche il fatto che sia nelle lingue antiche, sia nelle moderne la parola “uomo” contiene una particolare ambiguità di significati, nella quale si intrecciano fra loro dignità e bassezza, nobiltà e volgarità. Come è tipica questa ambiguità, ad esempio, nell’autoritratto per metà ironico e per metà serio di Goethe:
Da bambino taciturno e ostinato
Da giovane ardito e sorpreso
Da vecchio irresponsabile e capriccioso
Sulla tua lapide si leggerà:
Questo è stato un vero uomo!
In una frase del cardinale Saliège, che io lessi una volta su un calendarietto, si avverte con intensità ancora maggiore l’identica sensazione: “Con l’espressione ‘questo è umano’ oggi si giustifica tutto. Si cerca il divorzio: è umano. Si beve: è umano. Si imbroglia in un esame o in un concorso: umano. Si sciupa la propria giovinezza nel vizio: è umano. Si lavora con indolenza: è umano. Si è gelosi: è umano. Si commette peculato: è umano. Non esiste nessun vizio che non si giustifichi con questa formula. Con il termine ‘umano’ si caratterizza così ciò che di più caduco e meschino esiste nell’uomo. A volte diventa addirittura sinonimo di bestiale. Che bizzarro modo di esprimersi! L’umano è proprio quello che ci distingue dalla bestia. Umano è l’intelletto, il cuore, la volontà, la coscienza, la santità. Questo è umano”.
E questa ambivalenza del termine uomo non è forse assorbita completamente, in un modo veramente attivo, nell’uomo per eccellenza, in colui che è misura, traguardo e compimento di ogni essere umano, in colui che si definì “Figlio di Dio”? Con questa parola egli fece di dignità e miseria una unità di tale dimensione, che si estende dalla sovranità di Dio fino all’abisso creato da ogni trasgressione. E’ evidente che la grazia non arriva all’uomo che per la strada della “seconde nature”, vi giunge soltanto violando il duro involucro dell’autoesaltazione, che copre in lui la magnificenza di Dio. E questo vuol dire che non esiste grazia senza la croce. Lubac lo ha espresso in termini eccellenti: “L’intero mistero di Cristo è un mistero della risurrezione. Ma è anche un mistero della croce. L’uno apre la via all’altro ed ambedue trovano la loro espressione nell’unica ed identica parola: pascha, cioè passaggio. Alchimia di tutto l’essere, totale separazione da se stesso, alla quale nessuno può sperare di sfuggire. Negazione di tutti i valori naturali nel loro essere naturale, rinuncia anche a ciò per cui il singolo individuo andò oltre se stesso”.
Solo l’umanità del secondo Adamo è la vera umanità, solo l’umanità che è passata attraverso la croce mette in luce il vero uomo. L’umanesimo che sostiene la nobiltà del puro umano termina, in conclusione, nell’autoaffermazione, nell’autodivinizzazione dell’uomo e nel rifiuto di fronte alla nuova realtà di Dio. Ascoltiamo ancora una volta Lubac: “L’umanesimo cristiano dev’essere un umanesimo convertito. Nessun amore naturale può esistere senza irruzione nel soprannaturale. Ci si deve perdere per trovarsi. Dialettica spirituale, la cui inesorabilità si impone all’umanità come al singolo, vale a dire sia al mio amore per l’uomo e per gli uomini come al mio amore per me stesso. Legge dell’exodus, legge dell’ekstasis...”.
Non si possono certo lasciar perdere gli altri aspetti del problema. L’ordine di creazione della vera umanità non è più l’ordine concreto dell’uomo, ma non è neppure semplice astrazione, puro nome. Esso si protende di continuo anche nella realtà. Si deve ricordare questo ammonimento davanti ad una spiritualità eccentrica. Di fronte ad essa esiste nella realtà qualcosa come il buon senso umano, nel quale si svela la coscienza dell’ordine di creazione che è rimasto e dal quale l’uomo deve lasciarsi continuamente correggere e riportare sul terreno della realtà. Questa conoscenza della forza persistente degli ordinamenti creativi deve dare all’ethos cristiano della croce una salutare positività, la quale preservi da ogni esaltazione, eccentricità e stravaganza; a partire da qui un santo ottimismo illuminerà la vita cristiana e difenderà da ogni falsa malinconia la via, spesso abbastanza ardua, della pascha; e imprimerà la vittoriosa letizia che si addice al cristiano ed alla sua speranza.
Forse qui si può fare ancora un passo avanti. Noi abbiamo riconosciuto prima come la “natura” dello spirito va al di là di ogni natura, consiste nel superamento di sé. E’ caratteristica essenziale dello spirito il non bastare a se stesso, il portare in sé un’indicazione direzionale che porta oltre se stesso. Una filosofia moderna sempre più chiaramente riconosce come essenza dello spirito il far-riferimento-al-di-là-di-sé, dove in primo luogo si costituisce come spirito. Se questo è vero, allora l’ “exi” con il quale inizia la rivelazione in Abramo, questa legge fondamentale ed invariabile dell’esodo, che si completa nel mistero cristiano della pasqua e si conferma come la legge definitiva della rivelazione, è anche, nello stesso tempo, la vera legge costitutiva dello spirito, il reale esaudimento del grido di desiderio che si alza dalla sua natura. La croce non è più allora la “crocifissione dell’uomo” nel senso di Nietzsche, ma la sua vera salvezza, che lo strappa dal fallace autocompiacimento, nel quale può soltanto perdere se steso, trascurare la promessa di infinità, presente in lui, per amore della minestra di lenticchie della sua supposta naturalità. La via pasquale della croce, questa demolizione di tutte le sicurezza terrene e delle loro false soddisfazioni è il vero ritorno a casa dell’uomo, la vera armonia cosmica, nella quale Dio sarà “tutto in tutti” (ICor15,28), nella quale il mondo intero è un inno di lode a Dio e all’Agnello pasquale immolato (Ap5).
La croce, in effetti, non è la distruzione dell’uomo, essa fonda in primo luogo la vera umanità, della quale il Nuovo Testamento parla in termini di una bellezza imperscrutabile: “Si manifestò la bontà e l’amorevolezza di Dio nostro salvatore” (Tt3,4). La vera umanità dell’uomo, infatti, è l’umanità di Dio, la grazia, che riempie la natura.
(da Dogma e predicazione di Joseph Ratzinger, Queriniana, Brescia, 1974, pagg.137-154)
Entrambe le parti (N.d.C. quella cattolica e quella luterana nella Dichiarazione ufficiale comune sulla giustificazione, corredata da un Allegato che ne è parte integrale) hanno sottolineato il fatto che non si ha semplicemente un consenso sulla dottrina della giustificazione come tale, ma su verità fondamentali della dottrina della giustificazione. Quindi ci sono settori dove c’è realmente un’intesa, ma rimangono altri problemi che non sono ancora risolti... Non si tratta delle formule prese in se stesse, ma considerate nel loro contesto, come nel caso di quella simul iustus et peccator. Per Lutero, perseguitato dal timore della condanna eterna, era importante sapere che, anche se era un peccatore, era tuttavia amato da Dio e giustificato. Per lui c’è questa contemporaneità: di essere vero peccatore e di essere totalmente giustificato E’ una espressione della sua esperienza personale, che poi è stata approfondita anche con riflessioni teologiche. Mentre per la Chiesa cattolica è importante sottolineare che non c’è un dualismo. Se uno non è giusto non è neanche giustificato. La giustificazione, cioè la grazia che ci viene data nel sacramento, rende il peccatore nuova creatura, come dice san Paolo. Ma rimane, come afferma il Concilio di Trento, la concupiscenza, cioè una tendenza al peccato, uno stimolo che porta al peccato, ma che, come tale, non è peccato. Queste sono controversie classiche. Il problema diventa più reale se prendiamo in considerazione la presenza della Chiesa nel processo della giustificazione, la necessità del sacramento della penitenza. Qui si rivelano le vere divergenze.
Sì. In questo senso è importante notare che Dio agisce realmente nell’uomo. Lo trasforma, crea qualcosa di nuovo nell’uomo, non dà soltanto un giudizio quasi giuridico, esterno all’uomo. Ciò ha una portata molto più generale. C’è una trasformazione del cosmo e del mondo. Penso ad esempio all’Eucarestia. Noi cattolici diciamo che c’è una transustanziazione, che la materia diventa Cristo. Lutero parla invece di coesistenza: la materia rimane tale e coesiste con Cristo. Noi cattolici crediamo che la grazia è una vera trasformazione dell’uomo e una trasformazione iniziale del mondo e non è... soltanto una copertura aggiunta che non entra realmente nel vivo della realtà umana.
E’ importante questa operazione della grazia. Noi siamo tutti contagiati un po’ dal deismo. Dio rimane un po’ fuori. Mentre la fede cattolica – questa grande fiducia, questa grande gioia che Dio, facendosi uomo, entrando nella carne, unendosi alla carne, continua a operare nel mondo trasformandolo – ha la potenza, la volontà, la radicalità dell’amore, per entrare nel nostro essere e trasformarlo.
Nella Risposta della Chiesa cattolica dello scorso anno stava scritto: “Dovrebbe essere preoccupazione comune di luterani e cattolici trovare un linguaggio capace di rendere la dottrina della giustificazione più comprensibile anche agli uomini del nostro tempo”. Penso che la quasi assenza di questa dottrina è causata da un indebolimento del senso di Dio. Se Dio è preso sul serio, il peccato è una cosa seria. E così era per Lutero. Adesso Dio è abbastanza lontano, il senso di Dio è molto attenuato e perciò anche il senso della grazia è attenuato. Adesso dobbiamo trovare insieme in questo contesto attuale il modo di annunciare Dio, Cristo, di annunciare così la bellezza della grazia. Perché se non c’è senso di Dio, se non c’è senso del peccato, la grazia non dice niente. E mi sembra questo il nuovo compito ecumenico: che insieme possiamo capire e interpretare in un modo accessibile, che tocca il cuore dell’uomo di oggi, cosa vuol dire che il Signore ci ha redenti, ci ha dato la grazia.
(da Il mistero e l’operazione della grazia, intervista di G.Cardinale al card.J.Ratzinger, in 30giorni, 6, giugno 1999, pagg.11-14)
Il diavolo, dissoluzione dell’essere persona
Il vangelo della prima domenica di quaresima, che riferisce la tentazione di Gesù ad opera di «Satana», dà occasione di anno in anno di meditare su quella misteriosa potenza, che si nasconde dietro il nome di «Satana». Un ulteriore impulso a questo problema venne alcuni anni fa da Tubinga; nel 1969 Herbert Haag, professore di Antico Testamento, vi aveva pubblicato un libretto con il significativo titolo di La liquidazione del diavolo?. Questo libretto culmina nella frase: «Noi abbiamo già compreso che nel Nuovo Testamento il concetto di 'diavolo' sta semplicemente al posto del concetto di 'peccato'» (p. 52). Al papa, che aveva sottolineato la reale esistenza di Satana e si era dichiarato contrario alla sua dissoluzione in qualcosa di astratto, Haag ha di recente rimproverato di ricadere nella visione del mondo giudaica dei primi tempi; Paolo VI farebbe confusione, nella Sacra Scrittura, tra visione del mondo ed espressione della fede. Cosa si può dire di ciò? E' importante qui, anzitutto, una precisazione metodologica. Neppure Haag può negare che nel Nuovo Testamento Satana e i demoni giochino un ruolo importante. Non può contestare nemmeno il fatto che nel Nuovo Testamento il termine «diavolo» non rappresenta affatto un sinonimo di peccato, ma allude ad una potenza esistente; l'uomo è abbandonato ad essa e ne viene liberato per opera di Cristo, perché solo lui, nella sua qualità di «più forte» può legare l'uomo «forte» (Lc11,22; cfr. Mc. 3,27). La supposizione che si avrebbe conosciuto la possibilità di sostituire diavolo con peccato sorge in Haag per via induttiva, senza un vero e proprio fondamento; il «fondamento» si nasconde in una formulazione, che per la sua ovvietà potrebbe indurre a rinunciare ad un esame più preciso: «Nel significato delle forme di pensiero giudaiche di allora il diavolo appare nel Nuovo Testamento come l'esponente del male. Gesù e gli apostoli si muovono entro queste forme di pensiero allo stesso modo del loro ambiente» (p. 47)...
Anche se non esiste criterio alcuno, che in tutti i singoli casi indichi automaticamente, volta per volta, dove termina la fede e dove inizia la visione del mondo, esistono tuttavia una serie di aiuti per giudicare, i quali indicano la strada da seguire nella ricerca di delucidazioni. Io ne nomino quattro. Un primo criterio deriva dal rapporto dei due Testamenti. La Bibbia non esiste in uniformità, ma nell'accordo tra Antico e Nuovo Testamento, che nel loro porsi di fronte e nella loro unità si commentano a vicenda. Si deve affermare anzitutto che l'Antico Testamento ha valore soltanto in unione col Nuovo, sotto i suoi segni, per mezzo della sua rapportabilità, come pure che il Nuovo Testamento dischiude il suo contenuto solo grazie al suo continuo riferirsi all'Antico. Questo dato di fatto è generalmente riconosciuto per quanto riguarda le prescrizioni legislative dell'Antico Testamento; esse non hanno valore di legge nella loro letteralità, ma valgono in quanto sono una parte della storia che porta a Cristo, che è terminata in lui. La stessa regola di base, che Paolo ha chiaramente formulato per la questione della legge, determina in generale la relazione dei Testamenti. Se nell'ultimo secolo la si avesse avuta così chiaramente davanti agli occhi come l'ebbero i padri della chiesa, si sarebbe evitata tutta la disputa sul racconto della creazione. In base ad essa, infatti, il racconto della creazione della Genesi non ha valore diretto, come testo veterotestamentario, nella sua nuda letteralità, ma in quanto viene accolto nella prospettiva del Nuovo Testamento, nell'ambito della cristologia. Se si usa questo criterio, si vede che Gv. 1,1 è l'assunzione neotestamentaria del testo della Genesi, la cui vivace descrizione viene riassunta nell'unica affermazione: in principio era il Verbo. Tutto il resto viene così rimandato nel mondo delle immagini. Ciò che rimane è la provenienza della creazione dalla parola, la quale si rispecchia nell'Antico Testamento in molte parole. Che senso ha questo criterio per le nostre questioni? Chi lo usa va incontro ad un risultato sconcertante. Mentre noi nel problema della creazione e nella questione della legge trovavamo, nel porre il Nuovo Testamento di fronte all'Antico, la tendenza alla concentrazione, al riassunto in un semplice punto centrale, qui appare esattamente il contrario, la tendenza cioè all'espansione; la presentazione di potenze demoniache appare nell'Antico Testamento soltanto gradualmente; nella vita di Gesù invece possiede un peso incredibile, che rimane immutato in Paolo e si mantiene fino agli ultimi scritti del Nuovo Testamento, nelle lettere della prigionia e nel vangelo di Giovanni. Questo processo di intensificazione, di estrema cristallizzazione del demoniaco — che avviene nel passaggio dall'Antico al Nuovo Testamento, proprio in contrapposizione alla figura di Gesù — e la persistenza del tema nell'intera testimonianza neotestamentaria possiedono una notevole forza espressiva. A partire da qui si potrà dire che nella storia iniziale della fede veterotestamentaria l'affermazione di potenze demoniache doveva rimanere in disparte, perché si doveva far accettare, in primo luogo, contro ogni dualità, la fede nel Dio uno ed unico. In un ambiente saturo di dei, che osservava incerto i cambiamenti tra dei buoni e cattivi, il richiamo a Satana avrebbe tolto la sua chiarezza alla decisiva professione religiosa. Solo quando la tesi dell'unico Dio, con tutte le sue conseguenze, era divenuta possesso imperturbabile di Israele, fu possibile allargare lo sguardo a delle potenze che superavano la dimensione dell'uomo, senza poter mettere in discussione Dio, nella sua unicità. Questo processo storico rimane importante in quanto anche oggi dà un parere vincolante sull'ordine gerarchico della conoscenza di fede. Al primissimo posto sta l'essere Dio di Dio, la sua unicità. La fede cristiana va verso Dio e, a partire da lui, vede il mondo; il cristiano, come dice Gregorio di Nissa a proposito del libro di Qohelet (2,14), ha i suoi occhi nella testa, cioè in alto, non in basso. Egli sa che colui che teme Dio non deve temere niente e nessuno e il timore di Dio è fede, qualcosa di molto diverso da un timore servile, da una paura dei demoni. Ma esso è anche qualcosa di molto diverso da un coraggio millantatore, che non vuol vedere la serietà della realtà. E' proprio del vero coraggio non nascondersi le dimensioni del pericolo, ma essere in grado di percepire la realtà nel suo insieme. E ciò chiarifica anche il fenomeno dell'intensificazione: quanto più l'uomo sta dalla parte di Dio, tanto più egli diventa realistico; quanto più chiari si mostrano i confini della realtà, tanto più chiara diventa anche la contrapposizione a ciò che è santo: le belle maschere del demonio non ingannano più colui che le osserva partendo da Dio. Questo porta già ad un secondo criterio. Si deve indagare di volta in volta in quale rapporto sta un'asserzione con la realizzazione interiore della fede e della vita del credente. Delle affermazioni che rimangono soltanto modi di vedere teoretici, ma non entrano nel vero e proprio svolgersi dell'esistenza, in via normale non potranno venir annoverate tra ciò che è essenzialmente cristiano. Viceversa ciò che non si presenta come un puro modo di vedere teoretico, ma sta nello spazio dell'esperienza di fede, appare nella vita di fede come dato dell'esperienza, ha una posizione del tutto diversa. L'idea del sorgere e del tramontare del sole, della posizione centrale della terra, poteva essere quindi un modo di vedere naturale e variamente interpretabile della fede, non apparteneva alle sue specifiche esperienze. La mistica, con la sua via dell'unione, portava piuttosto alla relativizzazione di tutti gli schemi di visione del mondo. In questa questione mi sembra di straordinaria importanza il fatto che la lotta con la potenza dei demoni appartiene allo specifico cammino religioso di Gesù stesso. La Bibbia è a conoscenza delle sue tentazioni (Lc. 22,28), non soltanto di quelle che vengono esplicitamente descritte; essa va così avanti da poter affermare che Gesù è venuto nel mondo per distruggere le opere del diavolo (1Gv 3,8). Questa formula compendia ciò che Gesù stesso dice — nella serie di detti sull'uomo più forte e sull'uomo forte — della potenza dei demoni, il cui regno egli, nella forza dello Spirito Santo, porta alla rovina (Mc. 3,20-30). Sorprende che egli, che non voleva lasciarsi trasformare in uomo del miracolo, ritenesse la lotta contro i demoni la parte centrale del suo incarico (vedi ad esempio Mc 1,35-39) e che, di conseguenza, i pieni poteri su di essi costituiscano il nucleo del potere, che egli conferisce ai suoi discepoli: essi vengono mandati «a predicare col potere di cacciare i demoni» (Mc. 3,14s). La lotta spirituale contro le potenze che rendono schiavi, l'esorcismo su un mondo abbacinato da demoni è una componente inseparabile dell'iter spirituale di Gesù e sta al centro sia della sua particolare missione che di quella dei suoi discepoli. La figura di Gesù, la sua fisionomia spirituale non cambia se il sole gira attorno alla terra oppure se la terra si muove attorno al sole, se il mondo si è formato per evoluzione oppure no, ma viene decisamente cambiata, se si esclude da essa la lotta con la sperimentata potenza del regno dei demoni. A questo secondo criterio è strettamente collegato il terzo. Una Bibbia senza chiesa sarebbe soltanto una raccolta letteraria. Perciò quando, al di là della necessaria ricerca scientifica di ciò che è strettamente storico, la Bibbia viene esaminata come libro della fede, quando viene cercata la distinzione tra fede e non fede, deve venir in ballo questa unità di Bibbia e chiesa. Come già dicemmo, la fede può venir realizzata soltanto nel credere insieme con tutti; essa svanisce dove viene superata dalla volontà del singolo individuo. Come ulteriore criterio è necessario quindi ricercare in che misura le affermazioni sono state accolte nella fede della chiesa. Ma la fede della chiesa non è un qualcosa del tutto univoco e circoscrivibile, altrimenti la questione sarebbe semplice. Si deve dunque discernere con più esattezza ed adoperarsi per scoprire in quale misura qualcosa è entrato a far parte della vera ed interiore realizzazione della fede, nella forma di base della preghiera e della vita stessa, al di là delle deviazioni della tradizione. Così, ad esempio, la disputa sulla filiazione divina di Gesù, sulla divinità dello Spirito Santo, sulla unità e trinità di Dio, è stata portata avanti a motivo delle conseguenze per la liturgia battesimale, per la liturgia eucaristica e quindi per il significato della conversione cristiana, quale si presenta nel battesimo. Basilio, ad esempio, che portò a conclusione l'ultima disputa sulla divinità dello Spirito Santo, ha discusso questo problema con molta rigorosità, partendo dall'intima pretesa del battesimo e della sua forma liturgica. Lui sostenne che il battesimo non è un trastullo liturgico, ma la solenne forma ecclesiale della decisione esistenziale, supposta dall'essere cristiano. Si deve poter prenderla alla lettera, soprattutto nel suo avvenimento centrale. Essa specifica cosa avviene nel divenire cristiani e cosa non avviene. Ma, per ritornare alla nostra questione, l'esorcismo e la rinuncia a Satana fanno parte dell'avvenimento centrale del battesimo; quest'ultima, assieme alla promessa a Gesù Cristo, costituisce l'essenziale porta d'ingresso al sacramento. Il battesimo introduce così l'uomo nel modello di esistenza di Gesù Cristo, nella sua lotta e nella sua libertà. Viene a contatto con la sua esperienza spirituale e la trasferisce in colui, che inizia ad imitare Cristo. Quando l'uomo cammina nella luce di Gesù Cristo il demonio viene trasportato dall'altra parte e diventa così superabile. Ritorna con pieno valore l'affermazione che se si volesse annullare la realtà della potenza demoniaca, si cambierebbe il battesimo e con esso la realizzazione della vita cristiana. Nella ricerca sulla chiesa, d'altronde, si dovrebbe includere l'esperienza dei santi, di coloro che credono in forma esemplare; parlo della loro esperienza, non di tutte le loro idee. Questa esperienza corrisponde all'esperienza di Gesù; con quanta maggior forza diventa visibile e potente ciò che è santo, tanto meno il demonio può nascondersi. Per questo si potrebbe dire senz'altro che lo scomparire dei demoni, il presunto divenire innocuo del mondo vanno di pari passo con lo scomparire di ciò che è santo. Infine, come ultimo criterio, deve venir ricordato il problema della «visione del mondo», della conciliabilità con una conoscenza scientifica. La fede diventerà di continuo la critica di ciò che di volta in volta ha valore di certezza in quanto moderno e nuovo; però essa non può contraddire una conoscenza scientifica garantita, anche se questa deve stabilire dei segni negativi così notevoli. Si sarebbe curiosi di sapere in base a quali ragioni Haag decide «che questa concezione non è più conciliabile col nostro mondo». E' evidente che essa si oppone al gusto medio della gente; è altrettanto palese che essa non trova nessun appoggio in un mondo considerato funzionalisticamente. Ma in un puro funzionalismo non c'è posto neppure per Dio né per l'uomo come uomo, ma soltanto per l'uomo come funzione; qui dunque crolla molto di più della sola idea del «diavolo». Rimane difficile cercar di sapere in nome di quale filosofia Haag esprima il suo verdetto; secondo le apparenze egli parte da uno schema personalistico fortemente semplificato. Ma le forme del personalismo più approfondite hanno riconosciuto senz'altro che con le sole categorie di io e tu non è possibile spiegare l'intera realtà; proprio il «rapporto» che unisce l'un l'altro i due poli è una realtà caratteristica ed autonoma. Alcuni suggerimenti tratti dal pensiero asiatico fanno oggi risaltare ancor di più questa coesione. Una malattia psichica, così dicono ad esempio, non è un semplice modo di sentirsi dell'io, ma si basa proprio su una perturbazione del «rapporto»; dal momento che il rapporto non è in ordine, è spezzato, sviato, rovesciato, anche l'io stesso è fuori fase. Il rapporto è una forza decisiva del destino della quale il nostro io non può affatto disporre completamente. Il ritenere questo è un razionalismo di una sincerità quasi fantastica. Qui il pensiero moderno mette a disposizione, mi sembra, una categoria che ci può aiutare a comprendere di nuovo e con più esattezza la potenza dei demoni, la cui esistenza è di certo indipendente da tali categorie. Essi sono una potenza del «rapporto», col quale l'uomo è confrontato ad ogni pié sospinto, senza che egli lo possa arrestare. Paolo intende esattamente questo quando parla dei «signori di questo mondo tenebroso»; quando dice che la nostra lotta è diretta contro di essi, contro le potenze celesti del male, non contro la carne e il sangue (Ef 6,12). Essa si dirige contro quel «rapporto» saldamente stabilito, che lega gli uomini l'uno all'altro e nello stesso tempo li separa uno dall'altro, che usa loro violenza mentre fa da preludio alla loro libertà. Qui si chiarifica una particolarità tutta specifica del demoniaco, cioè la sua assenza di fisionomia, la sua anonimità. Quando si chiede se il diavolo sia una persona, si dovrebbe giustamente rispondere che egli è la non-persona, la disgregazione, la dissoluzione dell'essere persona e perciò costituisce la sua peculiarità il fatto di presentarsi senza faccia, il fatto che l'inconoscibilità sia la sua forza vera e propria. In ogni caso rimane vero che questo rapporto è una potenza reale, meglio, una raccolta di potenze e non una pura somma di io umani. La categoria dell'intermedio, che ci aiuta così a ricomprendere l'essere del demonio, si presta inoltre per un altro servizio parallelo; rende possibile spiegare meglio la vera potenza opposta, che diventa anch'essa sempre più estranea alla teologia occidentale, lo Spirito Santo cioè. Noi potremmo dire, partendo da quella categoria, che egli è quell'intermediario, nel quale Padre e Figlio costituiscono una cosa sola, l'unico Dio; nella forza di questo intermediario il cristiano si pone di fronte a quell'intermediario demoniaco, che sta ovunque «fra mezzo» ed ostacola un'unità.
(da Liquidazione del diavolo, ripubblicato in J.Ratzinger, Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia, 1974, pp.189-197)
Gesù Cristo è il Salvatore: il significato redentivo della croce
Nel corso dell’evoluzione storica della fede cristiana, si sono andate palesemente distaccando una dall’altra due branchie dottrinali, che assunsero correntemente il nome di ‘cristologia’ e ‘soteriologia’. Con la prima si indicava la dottrina concernente l’essere di Gesù, che si andò man mano sempre più incapsulando come un’eccezione ontologica, trasformandosi così in un oggetto di speculazione, diventando qualcosa di specialissimo, d’incomprensibile, di limitato unicamente a Gesù. Col termine di ‘soteriologia’ s’indicava invece la dottrina concernente la redenzione. Dopo aver esaminato a fondo il cruciverba ontologico per scoprire come uomo e Dio potessero sussistere insieme in Gesù, si passò a domandarsi, separatamente, che cosa Gesù avesse realmente fatto e come gli effetti della sua opera risultassero applicabili a noi. Il fatto che le due questioni si siano dissociate una dall’alta, portando la persona e l’opera da essa compiuta a formare il contenuto di due trattati nozionali separati, ha finito per renderle ambedue incomprensibili e irrealizzabili. Basta solo sfogliare un pochino i manuali di dogmatica, per rilevare subito quanto si complicassero le teorie vertenti sulle due branche; e tutto, semplicemente perché si era dimenticato che solo abbinandole assieme si possono davvero comprendere. Mi limito soltanto a ricordare la forma in cui la dottrina concernente la redenzione per lo più si presenta alla coscienza cristiana. Essa si basa ancora sulla cosiddetta ‘teoria della soddisfazione’, che è stata sviluppata alle soglie del medioevo da Anselmo di Canterbury, e da allora in poi ha sempre condizionato in maniera esclusiva le coscienze del cristianesimo d’Occidente. Essa, già solo nella sua classica configurazione, non va immune da unilateralità. Qualora poi la si veda nella rozza e grossolana veste in cui l’ha insaccata la coscienza popolare, ci appare come un crudele meccanismo, per noi sempre più inutilizzabile. Anselmo di Canterbury (1033-1109 circa) si era preoccupato di evincere l’opera di Cristo con argomenti obbligati (rationibus necessariis), dimostrando così irrefragabilmente come tale opera dovesse tassativamente svolgersi così, come di fatto s’è svolta. A grandi linee, il suo pensiero si potrebbe abbozzare nel seguente modo. Per colpa del peccato dell’uomo, che è stato un atto di ribellione contro Dio, l’ordine della giustizia è stato infinitamente sovvertito, e Dio infinitamente offeso. Dietro questa concezione, sta l’idea che la misura dell’offesa si valuti badando all’offeso: le conseguenze sono ben differenti – si dice – se io offendo un accattone o invece il presidente della repubblica. L’offesa assume un peso diverso, a seconda di chi ne è la vittima. Siccome Iddio è infinito, anche l’offesa a lui fatta dall’umanità col peccato riveste un peso infinito. Ora, il diritto in tal modo violato deve venire risarcito, perché Iddio è il Dio dell’ordine e della giustizia, anzi, la Giustizia per antonomasia. Ma corrispondentemente alla misura dell’offesa, è necessaria una riparazione infinita. E l’uomo non è assolutamente in grado di offrirla. Può sì offendere in maniera infinita, perché le sue facoltà arrivano a tanto; ma non riesce a soddisfare in maniera infinita: siccome è un povero essere finito, qualunque cosa egli esibisca, sarà sempre e soltanto una cosa finita. La sua forza distruttiva sopravanza di molto le sue facoltà ricostruttive. Sicché, tra tutte le riparazioni che l’uomo tenterà di offrire, e la grandezza della sua colpa, continuerà a sussistere un margine infinito, un divario incolmabile: ogni gesto d’espiazione non può che mostrargli la sua assoluta impotenza a colmare l’infinito abisso scavato dalle sue stesse mani. E allora, l’ordine dovrà rimanere per sempre distrutto, l’uomo dovrà restare eternamente sprofondato nel baratro della sua colpa? Ecco che a questo punto Anselmo s’imbatte nella figura di Cristo. Allora la sua risposta suona così: Dio stesso lava l’ingiustizia da noi commessa; ma non (come pur potrebbe fare) accordandoci una semplice amnistia, la quale non è in grado di liquidare intrinsecamente l’accaduto, bensì subentrando al posto nostro. L’infinito stesso si fa uomo, e poi in quanto uomo, appartenente alla stirpe degli offensori eppure sempre in possesso dell’energia capace di infinita riparazione negata al semplice uomo, offre la richiesta espiazione. Si ha così la redenzione, che avviene interamente per via di grazia, ma al contempo anche in forma di ripristino della giustizia lesa. Anselmo credeva d’aver così risolto in maniera convincente il grave problema del Cur Deus homo?, d’aver trovato il perché dell’Incarnazione e della croce; la sua concezione ha decisamente improntato l’intero secondo millennio del cristianesimo occidentale; ai suoi occhi, era ovvio che Cristo era dovuto morire sulla croce per riparare l’infinita offesa arrecata alla Maestà divina, ristabilendo così l’ordine un dì violato. Non si può certo negare che in questa teoria siano contenuti decisivi spunti biblici ed umani: chi ne segue con un po’ di pazienza l’argomentazione, riuscirà a scorgerlo senza difficoltà. Pertanto, nella sua qualità di tentativo mirante ad armonizzare i singoli elementi della narrazione biblica in un grande sistema di pensiero, compatto e radicale, andrà pur sempre tenuta in considerazione. Non è poi difficile vedere come, nonostante tutti gli ammennicoli filosofici e giuridici qui adoperati, il tema conduttore rimanga pur sempre quella verità che viene espressa dalla Bibbia nella piccola preposizione ‘per’, con la quale essa ci dimostra come noi uomini non viviamo solo attingendo la linfa direttamente da Dio, ma anche gli uni dagli altri, e in definitiva da quell’Unico che è vissuto per tutti. E non c’è chi non veda come, in questo schema presentatoci dalla teoria della soddisfazione, rimanga sempre bene in vista l’ampio respiro del pensiero biblico dell’elezione, per il quale la vocazione non è un privilegio accordato all’eletto, bensì una sua chiamata ad essere per gli altri. Essa è infatti una vocazione a quel ‘per’, in cui l’uomo s’abbandona con animo sollevato, cessa di aggrapparsi convulsamente a se stesso, ed osa spiccare quel balzo verso l’Infinito unicamente rischiando il quale riesce a raggiungere se stesso. Ma pur concedendo tutto questo, non si può d’altra parte negare che il sistema giuridico divino-umano e perfettamente logico, escogitato da Anselmo, alteri le prospettive, finendo magari con la sua ferrea logica per mettere in una luce sinistra l’immagine di Dio. Dovremo tornare diffusamente sull’argomento, quando sarà il momento di parlare sul significato della croce. Per ora, può anche bastare l’accenno al fatto che le cose si presentano in maniera tutta diversa allorché, invece di istituire una separazione fra l’opera e la persona di Gesù, si vede chiaramente come in Gesù Cristo non si tratti di un’opera staccata da lui stesso, non d’una prestazione tassativamente richiesta da Dio perché egli stesso è tenuto a rispettare l’ordine; allora infatti apparirà chiaro che – per dirla con Gabriel Marcel – in lui non si tratta d’un avere bensì d’un essere nei confronti dell’umanità. Come del resto tutt’altro aspetto presentano le cose, quando si è afferrata la chiave dell’argomentazione paolina, che s’insegna a comprendere Cristo come l’ ‘ultimo uomo’ (εσχατος αδαμ: 1Cor15,45), vale a dire come l’uomo definitivo, che introduce l’uomo nel suo futuro, consistente nel fatto che egli non è soltanto uomo, ma forma invece un tutto unico con Dio.
(da J.Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia, 1979, pagg.182-185)
a) Giustizia e grazia.
Come abbiamo rilevato poc’anzi, in questo campo la coscienza cristiana è in genere ancora largamente improntata ad una grossolana ed irrozzita idea della teologia d’espiazione risalente ad Anselmo di Canterbury... Per molti cristiani, e specialmente per quelli che conoscono la fede solo piuttosto da lontano, le cose stanno come se la croce andasse vista inserita in un meccanismo, costituito dal diritto offeso e riparato. Sarebbe la forma in cui la giustizia di Dio infinitamente lesa verrebbe nuovamente placata da un’infinita espiazione. Sicché la vicenda della croce appare all’uomo come l’espressione d’un atteggiamento, che poggia su un esatto conguaglio tra dare e avere; ma nello stesso tempo, si ha la sensazione che questo conguaglio si basi per altro su un piedestallo fittizio. Di conseguenza, si dà segretamente con la mano sinistra, ciò che poi si ritoglie solennemente con la destra. Col risultato che la ‘infinita espiazione’ su cui Dio sembra reggersi, si presenta in una luce doppiamente sinistra. Da molti libri di devozione, s’infiltra così nella coscienza proprio l’idea che la fede cristiana nella croce immagini un Dio, la cui spietata giustizia abbia preteso un sacrificio umano, l’immolazione del suo stesso Figlio. Per cui si volgono con terrore le spalle ad una giustizia, la cui tenebrosa ira rende inattendibile il messaggio dell’amore. Quanto diffusa è un’immagine del genere, altrettanto è sbagliata e falsa. Nella Bibbia, la croce non si presenta affatto come ingranaggio d’un meccanismo di diritto leso; la croce vi compare invece proprio come espressione indicante la radicalità dell’amore che si dona interamente, come un processo in cui uno è ciò che fa, e fa esattamente ciò che è: come palese simbolo d’una vita vissuta integralmente per gli altri. Agli occhi di chi osserva attentamente, nella teologia della croce sviluppata dalla Scrittura, si esprime un’autentica rivoluzione rispetto alle idee di espiazione e di redenzione riscontrabili nelle religioni non cristiane della storia; non si può per altro negare che, nella coscienza cristiana dei tempi successivi, tale rivoluzione si sia di nuovo largamente neutralizzata, e sia stata ben di rado riconosciuta in tutta la sua portata. Nelle religioni mondiali, espiazione significa normalmente riparazione e ripristino dei rapporti perturbati esistenti con la divinità, ottenuti tramite azioni propiziatrici degli uomini. Quasi tutte le religioni ruotano attorno al problema dell’espiazione; nascono dalla consapevolezza che l’uomo ha della propria colpa di fronte a Dio, e denotano il tentativo di eliminare questo sentimento di colpa, cancellando il peccato mediante opere d’espiazione offerte a Dio. L’azione espiatrice con la quale gli uomini mirano a conciliarsi e propiziarsi la divinità, sta al centro della storia delle religioni. Nel Nuovo Testamento, invece, la situazione è quasi esattamente l’inversa. Non è l’uomo che s’accosta a Dio tributandogli un dono compensatore, ma è Dio che s’avvicina all’uomo per accordarglielo. Per iniziativa stessa della sua potenza amorosa, egli restaura il diritto leso, giustificando l’uomo colpevole mediante la sua misericordia creatrice e richiamando alla vita la creatura morta. La sua giustizia è grazia: è giustizia attiva, che raddrizza l’uomo distorto, riportandolo allo stato lineare, giustificandolo. Qui ci troviamo davvero di fronte alla svolta portata dal cristianesimo nella storia delle religioni: il Nuovo Testamento non dice che gli uomini si riconcilino con Dio, come del resto dovremmo attenderci, perché sono essi che hanno sbagliato, non Dio. Ci dice invece che “Dio in Cristo ha riconciliato con sé il mondo” (2Cor5,19). Ora, ciò è qualcosa di veramente inaudito, qualcosa di assolutamente nuovo: è la base di lancio dell’esistenza cristiana e il centro focale della teologia della croce, sviluppata dal Nuovo Testamento. Dio non aspetta che i colpevoli si facciano avanti, riconciliandosi con lui, ma va loro incontro per primo riabilitandoli. In questo grande evento si vede delinearsi il vero indirizzo orientativo dell’incarnazione, della croce.
Di conseguenza, nel Nuovo Testamento la croce si presenta primariamente come un movimento discendente, dall’alto in basso. Essa non ha affatto l’aspetto d’una prestazione propiziatrice che l’umanità offre allo sdegnato Iddio, bensì quello d’un’espressione di quel folle amore di Dio, che s’abbandona senza riserve all’umiliazione pur di redimere l’uomo; è un suo accostamento a noi, non viceversa. Con questa inversione di rotta nell’idea dell’espiazione, che viene a spostare addirittura l’asse dell’impostazione religiosa in genere, nel cristianesimo anche il culto e l’intera esistenza ricevono un nuovo indirizzo. Nella sfera cristiana, l’adorazione si estrinseca in primo luogo nel ricevere con animo grato l’azione salvifica di Dio. La forma essenziale del culto cristiano si chiama quindi a ragion veduta Eucarestia, cioè rendimento di grazie. In questa cerimonia cultuale, non si offrono a Dio tributi umani, ma si porta invece l’uomo a lasciarsi inondare di doni; noi non glorifichiamo Iddio offrendogli qualcosa di presumibilmente nostro – quasi che ciò non fosse già per principio suo! -, bensì facendoci regalare qualcosa di Suo, e riconoscendolo così come l’unico Signore. Lo adoriamo lasciando cadere la finzione d’un campo in cui noi saremmo in grado di presentarci a lui come contrattatori autonomi, mentre in realtà noi possiamo esistere soltanto in lui e in derivazione da lui. Il sacrificio cristiano non consiste in un dare a Dio ciò che Egli non avrebbe senza di noi, bensì nel nostro farci completamente ricettivi nei suoi confronti e nel lasciarci integralmente assorbire da lui. Permettere a Dio di operare su di noi: ecco la quintessenza del sacrificio cristiano.
b) La croce come adorazione e sacrificio.
Con i rilievi sin qui fatti, non abbiamo però detto ancora tutto. Quando si legga il Nuovo Testamento dal principio alla fine, non è possibile soffocare la domanda se esso non ci presenti l'azione espiativa di Gesù come l'offerta d'un sacrificio al Padre, additandoci la croce come l'olocausto che Cristo in tutta obbedienza esibisce al Padre. In una lunga serie di testi, l'azione di Cristo ci vien indicata nonostante tutto come un movimento ascendente intrapreso dall'umanità verso Dio; sicché sembra proprio tornare alla ribalta tutto quanto abbiamo testé spazzato via dalla scena. Enucleando la sola linea discendente, per altro, non è possibile cogliere integralmente il senso del Nuovo Testamento. E allora, come dobbiamo spiegarci il rapporto intercorrente fra le due linee? Dobbiamo forse escludere l'una a beneficio dell'altra? E qualora lo volessimo davvero fare, quale scala di valori ci autorizzerebbe ad intraprendere tale selezione? È quindi chiaro che in questa direzione non possiamo procedere: finiremmo inevitabilmente per elevare il puro e semplice arbitrio della nostra opinione a parametro per commisurare la fede.
Per riuscir ad andare avanti su questo terreno, dobbiamo ampliare la nostra domanda, cercando di appurare dove sia situato il punto d'avvio dell'interpretazione neotestamentaria della croce. Occorre innanzitutto avvertire che la croce di Gesù è apparsa di primo acchito ai discepoli come la fine, come il fallimento dell'opera da lui intrapresa. Essi avevano creduto d'aver trovato in lui un re. che non avrebbe più potuto esser detronizzato, e s'erano invece trovati improvvisamente ad essere soltanto i compagni di sventura d'un giustiziato. La risurrezione aveva sì dato loro la certezza che Gesù era malgrado tutto davvero un re; ma a che cosa sarebbe servita la croce, dovettero imparare a capirlo solo lentamente, per gradi. Il mezzo per comprenderlo glielo offerse la Scrittura, vale a dire l'Antico Testamento, ricorrendo alle cui immagini simboliche, ai cui concetti, si sforzarono d'interpretare l'accaduto. Essi tirarono quindi in campo anche i suoi testi e le sue prescrizioni liturgiche, nella convinzione che tutto quanto vi si diceva si era effettivamente realizzato in Gesù, anzi, che solo guardando a lui si poteva ora capire veramente quale fosse in realtà il senso riposto di quelle parole e di quei fatti. Ed ecco perché, nel Nuovo Testamento, noi troviamo spiegata la croce, anche con pensieri tratti dalla teologia cultuale vetero-testamentaria.
La più logica e coerente elaborazione in questo senso possiamo riscontrarla nella Lettera agli Ebrei, che mette in rapporto la morte di Gesù in croce col rito e con la teologia della festa ebraica dell'espiazione, presentandocela come l'autentica festa della riconciliazione cosmica. La linea di pensiero sviluppata in questa lettera si potrebbe sintetizzare press'a poco così: ogni vittima offerta dalla umanità, ogni tentativo da essa intrapreso per propiziarsi Iddio tramite il culto rituale, di cui il mondo rigurgita, dovevano per forza restare pura e semplice opera umana priva di mordente, perché Iddio non cerca vitelli e capri o qualsiasi altra cosa gli venga offerta per via rituale. Si possono presentare a Dio, in ogni parte del mondo, intere ecatombi di animali; egli però non ne ha affatto bisogno, perché tutto gli appartiene lo stesso e quindi al Signore dell'universo non si dà un bel nulla, anche quando si brucia tutto ciò in suo onore: «Non ti sottraggo di casa il giovenco, né i capretti dagli ovili tuoi. Ché mia è ogni fiera della selva, gli animali sui monti a mille a mille. Mi è noto ogni volatile nell'alto, ciò che vive nei campi è in mia mano. Se avrò fame, a te non verrò a dirlo, ché mio è l'orbe e ciò che esso contiene. Mangio io forse la carne dei tori, ovvero bevo il sangue dei capretti? Offri a Dio la tua lode in sacrificio...» - così dice un'esortazione di Dio contenuta nell'Antico Testamento (Sal50[49],9-14). L'autore della Lettera agli Ebrei si pone proprio sulla linea spirituale di questo e di altri testi affini. Con decisione ancor più energica egli ribadisce l'inutilità del conato rituale. Dio non cerca vitelli e capri, bensì l'uomo; il libero assenso dell'amore è l'unico elemento che Dio deve attendersi, l'adorazione e il ‘sacrificio’ che soli siano suscettibili di avere un senso. L'assenso dato a Dio, con cui in pratica l'uomo si ridona al Signore, non si potrà mai sostituire e surrogare col sangue dei giovenchi e degli arieti. «E che cosa mai potrà dare l'uomo, quale prezzo, per il riscatto della sua anima» (Mc. 8,37)? La risposta non può suonare che così: egli non è in grado di dare proprio nulla che sia atto a controbilanciare la sua carenza.
Siccome però tutto il culto pre-cristiano poggia sull'idea della sostituzione, della rappresentanza, tentando di sostituire l'insostituibile, esso doveva per forza rimanere un conato inutile e vano. Alla luce della fede in Cristo, la Lettera agli Ebrei può osar tirare questo fallimentare bilancio della storia della religione, anche se solo il presentarlo, in un mondo saturo di offerte sacrificali, doveva apparire un crimine mostruoso. Essa ha il coraggio di affermare senza riserve questo completo fallimento delle religioni, perché sa come in Cristo l’idea della sostituzione, della supplenza, abbia acquisito un senso integralmente nuovo. Egli, che agli effetti della religione legale era un laico, non rivestiva alcun ufficio nel servizio cultuale d’Israele – dice il testo - era invece l’unico vero sacerdote del mondo. La sua morte che, vista sotto l’aspetto puramente interno alla storia, rappresentò un evento meramente profano – l’esecuzione capitale d’un uomo condannato come delinquente politico - fu invece l’unico atto liturgico della storia universale. Il suo supplizio è stato una liturgia cosmica, tramite la quale Gesù, non in quel settore limitato dell’azione liturgica che era il tempio, bensì al cospetto dell’intero mondo, attraversando l’atrio della morte è penetrato nell’autentico tempio, ossia alla presenza di Dio stesso, e per sacrificargli non delle cose, sangue di animali od altro, bensì addirittura se stesso (Ebr9,11 ss.).
Facciamo ben attenzione a questa fondamentale conversione di rotta, che costituisce il pensiero centrale della Lettera: ciò che visto con occhi terreni si presentava come un avvenimento meramente profano, è in realtà il vero culto dell’umanità, perché colui che ne fu il protagonista sbrecciò la staccionata chiusa della cerimonia liturgica, trasformando quest’ultima in una genuina realtà: donando e sacrificando se stesso. Egli strappò di mano agli uomini le offerte sacrificali, sostituendovi la sua personalità, il suo stesso ‘io’ donato in olocausto. Se tuttavia nel nostro testo si afferma ancora che Gesù ha operato la redenzione col suo sangue (Ebr9,12), questo sangue non va inteso come un dono materiale, come un mezzo espiativo da misurarsi quantitativamente, bensì come la pura concretizzazione di quell’amore che ci vien additato come spinto sino all’estremo (Gv13,1). Esso è l’espressione della totalità della sua dedizione e del suo servizio, l’implicita asserzione del fatto che egli offre né più né meno che se stesso. Il gesto dell’amore che tutto dona: questo e soltanto questo ha costituito, secondo la Lettera agli Ebrei, l’autentica redenzione del mondo; per cui, l’ora della croce rappresenta il giorno della redenzione cosmica, la vera e definitiva festa della Riconciliazione. Non esiste altro culto né altro Sacerdote all’infuori di quello che lo ha compiuto: Gesù Cristo.
c) L’essenza del culto cristiano.
Stando così le cose, l’essenza del culto cristiano non sta nell’offerta di cose, e nemmeno in una certa qual loro distruzione, come dal secolo XVI in poi si può leggere sempre più insistentemente scritto nei trattati teorici concernenti il sacrificio della messa, ove si afferma che proprio in questo modo bisogna riconoscere la suprema autorità di Dio sull’universo. Tutti gli sforzi fatti dal pensiero in questo senso sono ormai stati decisamente superati dall’avvento di Cristo, e dall’interpretazione che ce ne dà la Bibbia. Il culto cristiano si concretizza nell’assoluta dedizione dell’amore, quale poteva estrinsecarsi unicamente in colui, nel quale l’amore stesso di Dio si era fatto amore umano; e si esplica nella nuova forma di funzione vicaria inclusa in quest’amore: nel fatto che egli s’è incaricato di rappresentarci e noi ci lasciamo impersonare da lui. Esso comporta pure che noi ci decidiamo una buona volta ad accantonare i nostri conati di auto-giustificazione, che in fondo sono solo delle magre scuse, buone unicamente a metterci gli uni contro gli altri; così come il tentativo di giustificazione architettato da Adamo è una mera scusa pretestuosa, un conato di scaricare la colpa sulla compagna, anzi, addirittura un tentativo di accusare Dio stesso: “E’ stata la donna da te datami per compagna, che mi ha presentato il frutto dell’albero...” (Gen3,12). Esso esige che noi, al posto del deleterio scaricabarile dell’auto-giustificazione, accogliamo il dono dell’amore fattoci da Gesù Cristo che intercede per noi, lasciandoci convogliare nel suo flusso, per divenire così in lui e con lui dei veri adoratori. Tenendo ben presenti questi principi, dovrebbe risultarci possibile rispondere stringatamente ad alcuni altri quesiti che ancora si pongono.
1. Guardando al messaggio d’amore lanciato al mondo dal Nuovo Testamento, va oggi sempre più prendendo piede una tendenza a risolvere completamente il culto cristiano nell’amor fraterno, nella ‘fraternità umana’, senza lasciar più alcun posto al diretto amor di Dio, o alla venerazione del Signore: se ne riconosce solo la dimensione orizzontale, mentre si nega invece la dimensione verticale dell’immediato rapporto con Dio. Ora, rifacendoci a quanto abbiamo detto, si vede assai facilmente perché questa concezione, di primo acchito apparentemente così simpatica, finisca invece per svuotare di contenuto, oltre che il cristianesimo, anche il sentimento d’umanità. La fraternità con pretese di autosufficienza si trasformerebbe fatalmente nel più smaccato egoismo di autoaffermazione. Essa infatti rinuncerebbe alla sua benefica apertura, alla sua scioltezza e abnegazione, qualora non accogliesse anche il bisogno di redenzione che tale amore porta in sé da parte di colui, che solo ha saputo realmente amare a sufficienza. E nonostante tutta la buona volontà, finirebbe per fare una grossa ingiustizia a sé ed agli altri, perché l’uomo non si esaurisce unicamente nei rapporti di fraternità umana, ma si realizza invece in tutta la sua estensione solo nei rapporti con quel disinteressato amore, che glorifica Dio stesso. Il disinteresse della pura e semplice adorazione è la suprema possibilità dell’esistenza umana, la sua sola vera e definitiva liberazione.
2. Soprattutto allorché si osservano le forme devozionali consuetudinarie incentrate sulla passione, viene continuamente da domandarsi in qual modo si colleghino fra loro sacrificio (e quindi adorazione) e dolore. Stando ai rilievi testé fatti, il sacrificio cristiano non è altro che l’esodo della ‘funzione vicaria’, che abbandona tutta se stessa, realizzato in pieno nell’uomo che è integralmente ‘esodo’, autosuperamento dell’amore. Pertanto, il principio costitutivo del culto cristiano è questo movimento di esodo, caratterizzato dalla sua duplice e al contempo unitaria polarizzazione su Dio e sul prossimo. Cristo, portando l’essere umano a Dio, lo porta anche alla salvezza. La vicenda della croce è quindi pane di vita “per molti” (Lc22,19; Mt26,27), perché il crocifisso ha trasfuso il corpo dell’umanità nell’assenso dell’adorazione. E’ un fatto spiccatamente ‘antropocentrico’, vale a dire accentrato sull’uomo, proprio perché è stato un radicale teocentrismo, ossia una consegna incondizionata dell’ ‘io’ e quindi dell’essenza dell’uomo a Dio. Ora, siccome questo esodo dell’amore costituisce l’estasi dell’uomo, vale a dire lo slancio con cui egli si proietta fuori di sé protendendosi infinitamente sopra se stesso, quasi strappandosi alla sua natura e librandosi arditamente alto, oltre tutte le sue apparenti possibilità d’impennata, proprio per questo motivo l’adorazione (sacrificio) è sempre simultaneamente anche croce, dolore, dissociazione, morte del granello di frumento, che solo morendo è in grado di portar frutto. Ma così risulta anche perfettamente chiaro come questa componente di sofferenza sia un elemento solo secondario, che fluisce da un preminente fattore primario, dal quale riceve il suo significato e la sua giustificazione. Il principio costitutivo del sacrificio non è la distruzione, bensì l’amore. E solo in quanto questo fattore principale forza il terreno per sbocciare, crocifigge, lacera e fa male, finisce per rientrare pur esso nel sacrificio: come forma assunta dall’amore in un mondo caratterizzato dalla morte e dall’egoismo.
A questo proposito c’è un brano altamente significativo di Jean Daniélou, che per essere esatti riguarda un problema diverso, ma può considerarsi lo stesso adattissimo a lumeggiare ulteriormente l’assunto di cui ci stiamo occupando: “Tra il mondo pagano e il Dio trino esiste un solo ed unico legame: la croce di Cristo. Qualora volessimo egualmente prender posto in questa terra di nessuno, proponendoci di tirare di bel nuovo i fili di collegamento fra il mondo dei pagani e il Dio trino, perché dovremmo meravigliarci di poterlo fare unicamente attraverso la croce di Cristo? Siamo infatti tenuti a renderci simili a questa croce, a portarla dentro di noi, come dice S.Paolo parlando dell’araldo della fede, quando afferma che noi apostoli (cristiani) “portiamo sempre e dovunque nel nostro corpo le sofferenze di Gesù morente” (2Cor4,10). Questa lacerazione che per noi rappresenta una croce, questa impossibilità di amare simultaneamente la ss.Trinità e un mondo completamente estraniato dalla Trinità, da cui il nostro cuore è afflitto, costituisce proprio la sofferenza mortale del Figlio unigenito, a condividere la quale egli ci chiama. Lui, che ha portato in sé questa dissociazione per eliminarla, ma è riuscito ad eliminarla appunto e soltanto per averla prima portata in sé, è davvero in grado di giungere da un termine all’altro. Pur senza abbandonare il seno della Trinità, egli si protende sino al limite estremo della miseria umana, colmando così l’intero spazio intermedio. Questa protensione di Cristo, simboleggiata dalle quattro dimensioni direzionali della croce, è la misteriosa espressione della nostra intima dissociazione e ci conferma a lui”. Il dolore è in ultima analisi il risultato e la palese manifestazione della dilatazione di Gesù Cristo, che si estende dal suo essere in Dio sino al baratro del “Dio mio, perché mi hai abbandonato?” Chi ha stirato la sua propria esistenza in modo tale, da essere contemporaneamente tuffato in Dio e immerso nell’abisso della creatura abbandonata da lui, deve per forza quasi dissociarsi intimamente, trovandosi così realmente ‘crocifisso’. Tale lancinante lacerazione viene però ad identificarsi con l’amore: ne rappresenta la concretizzazione spinta sino al segno supremo (Gv13,1), e è al contempo la tangibile espressione dell’immenso orizzonte da esso aperto. Attingendo a questi dati, è davvero possibile mettere in luce la genuina fondatezza della assennata devozione alla Passione, dimostrando chiaramente come pietà incentrata sulla Passione e spiritualità apostolica si fondino in un mutuo intreccio. Si dovrebbe anche vedere come lo slancio apostolico, il servizio prestato all’uomo ed al mondo, faccia tutt’uno col nucleo centrale della mistica cristiana e con la pietà accentrata sulla Passione. Queste due attività non si eliminano né s’intralciano a vicenda, ma vivono invece attingendo profondamente l’una dall’altra. Con ciò dovrebbe ora apparire chiaro anche come, nel contemplare la croce, l’importante non sia il porre l’accento su una somma di sofferenze fisiche, quasi che il suo valore redentivo stesse nella più forte aliquota possibile di tormenti. Come potrebbe Iddio provare gioia per le pene sofferte da una sua creatura, o addirittura dal suo stesso Figlio, oppure – semmai fosse possibile – vedere in esse addirittura la valuta con la quale va da lui comprata la redenzione? La Bibbia e la fede cristiana rettamente intesa sono ben lontane dal nutrire un’idea del genere. Non è il dolore in quanto tale che conta, bensì la vastità dell’amore, che dilata l’esistenza al punto da riunire il lontano col vicino, da ricollegare l’uomo abbandonato dal Signore con Dio. Soltanto l’amore dà un senso e un indirizzo al dolore. Se così non fosse, i veri sacerdoti dinnanzi a all’ara della croce sarebbero stati i carnefici: proprio essi infatti, che hanno provocato il dolore, sarebbero stati i ministri che hanno immolato la vittima sacrificale. Siccome invece l’accento non cadeva sulla sofferenza, bensì sull’intimo centro propulsore che la regge e la sostanzia, essi non hanno affatto rivestito questa funzione; il vero e autentico Sacerdote è stato Gesù, che ha riunito nell’abbraccio del suo amore i due capi tranciati del mondo (Ef2,13s.).
Fatti questi rilievi, in pratica abbiamo già dato una risposta all’interrogativo da cui siamo partiti, quello cioè che si chiede se non sia farsi un concetto indegno della divinità l’immaginarsi un Dio il quale esige addirittura l’uccisione di suo Figlio, per placare la sua collera. Ad una domanda del genere, si può rispondere solo così: in effetti, Dio non si può affatto immaginare in questo modo. E per di più, un tale concetto di Dio non ha nulla da spartire nemmeno con l’idea di Dio presentataci dal Nuovo Testamento. Questo infatti ci mostra un Dio che di sua spontanea iniziativa ha voluto divenire in Cristo l’Omega – cioè l’ultima lettera – nell’alfabeto della creazione. Si tratta quindi di quel Dio che è l’atto d’amore per antonomasia, la pura ‘funzione vicaria’, e che per adempierla si fa necessariamente avanti in incognito, prendendo l’aspetto d’un misero verme (Sal22[21],7). Ci troviamo di fronte al Dio che s’identifica con la sua creatura, e in questo “contineri a minimo”, ossia in questo suo lasciarsi coartare dalla più infima delle cose, pone in atto quella ‘sovrabbondanza’ che lo manifesta realmente come Dio. La croce è una Rivelazione. Essa non ci rivela una cosa qualsiasi, bensì Dio e l’uomo. Ci palesa chi sia Dio e come sia fatto l’uomo. Nella filosofia greca, si trova un tipico presagio di questo stato di cose: l’immagine del giusto crocifisso, descrittaci da Platone. Il grande filosofo, nella sua opera concernente lo Stato, si chiede come dovrebbe svolgersi la vicenda d’un uomo giusto e tutto d’un pezzo in questo mondo. E giunge alla conclusione che la rettitudine d’un uomo risulterebbe davvero perfetta e collaudata, solo allorché egli si accollasse tutta l’apparenza dell’ingiustizia, perché unicamente allora sarebbe evidente che egli non segue l’opinione degli uomini, ma si allinea invece alla giustizia unicamente per amor di essa. Sicché, secondo Platone, il vero giusto deve necessariamente essere un misconosciuto e perseguitato in questo modo; anzi, Platone non si perita di scrivere: “Direte quindi che stando così le cose, il giusto verrà flagellato, torturato, gettato in catene, accecato col ferro rovente, e infine, dopo tutto questo scempio finirà per esser crocifisso...”. Questo brano, scritto ben 400 anni avanti Cristo, continuerà sempre a commuovere il cristiano. Partendo dal più serio ed acuto pensiero filosofico, qui si presagisce che il perfetto giusto vivente nel mondo sarà il giusto crocifisso; si ha quindi un presentimento di quella rivelazione dell’uomo che si attua sulla croce. Il fatto che il Giusto integrale, allorché apparve quaggiù, abbia finito per divenire il crocifisso, il condannato a morte dalla giustizia, ci dice implacabilmente chi sia l’uomo. Guardati come sei, o uomo: incapace di sopportare il giusto, al punto che il vero amante vien trattato da pazzo, da fallito, da ripudiato! Ingiusto al punto da aver continuamente bisogno dell’ingiustizia altrui per sentirti scusato, al punto di non poter tollerare il giusto che sembra strapparti di mano questa scusa! Ecco, quello che sei! L’evangelista Giovanni ha riassunto tutto ciò nell’ “Ecce homo” (Ecco l’uomo!) di Pilato, che vuol dire appunto questo: ecco le condizioni, la fisionomia dell’uomo! La verità dell’uomo è la sua carenza di verità. L’affermazione dei salmi, secondo cui ogni uomo è un mentitore (Sal116[115],11), che vive in qualche modo contro la verità, palesa già chiaramente quale sia l’aspetto reale dell’uomo. La verità dell’uomo è quella di andar continuamente contro la verità; il giusto crocifisso è quindi lo specchio messo in faccia all’uomo, nel quale egli vede spietatamente riflessi i suoi veri tratti. La croce però non rivela soltanto l’uomo, ma ci palesa anche Dio: ecco Dio, che sprofondato in questo baratro s’identifica con l’uomo, salvandolo nell’istante stesso in cui lo giudica. Nell’abisso del fallimento umano, si rivela l’abisso ancor più insondabile dell’amor divino. La croce è quindi veramente il centro della Rivelazione, che non ci fa conoscere qualche massima sinora a noi ignota, ma ci manifesta noi stessi, svelandoci quali davvero siamo di fronte a Dio e additandoci Dio disceso in mezzo a noi.
(da J.Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia, 1979, pagg.227-238)
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