DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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Ragionando con Martini di peccato e Resurrezione. Eugenio Scalfari interroga il cardinale Martini

di EUGENIO SCALFARI

QUANDO fissammo la data del nostro incontro il cardinale Carlo Maria Martini mi disse che il tema sul quale desiderava si svolgesse la conversazione era la Resurrezione. Ne rimasi un po' stupito e anche preoccupato; gli feci osservare che su quell'argomento avremmo avuto assai poco da dirci. Se c'è un punto sul quale il non credente non ha alcuna possibilità di contatto con un cristiano doc come Martini è proprio quello. Ma il cardinale insistette. "Vedrà - mi disse - avremo tutti e due molte idee da scambiarci su quell'argomento. Del resto la Resurrezione è da tempo il fulcro della mia vita e ho molta voglia di discuterne con lei".

Ci siamo incontrati il 10 maggio scorso a Gallarate, nella casa di riposo della Compagnia di Gesù dove Martini alloggia da qualche anno dopo i mesi passati a Gerusalemme. In due anni questa è la terza volta che vado a trovarlo. Nel frattempo ci siamo scritti e sentiti, ormai siamo in confidenza. Io gli voglio bene e credo che me ne voglia anche lui.

Il tempo, è vero, passa con grande rapidità, ma lui non mi è parso cambiato. La voce si è affievolita, quella sì, è meno sonora o io son più duro d'orecchio; abbiamo avvicinato di più le poltrone sulle quali eravamo seduti.

"Lei ha scritto un libro di recente".

"Sì, un viaggio nella modernità. Temo che, se avrà voglia di leggerlo, non sarà d'accordo su molte cose".

"Non ne sia così sicuro: tra un credente come me e un non credente come lei i punti d'incontro sono molti, l'abbiamo già verificato".

"È vero - ho risposto - lei però me ne ha proposto uno, la Resurrezione, che ha più l'aria d'una sfida che di un terreno d'incontro. Chi come me non crede nell'oltremondo, tantomeno crede nella Resurrezione di Gesù e nella nostra. Lei però vede nel Resurrecturis il fulcro della sua vita spirituale. Può spiegarmene la ragione? In fondo si tratta di un miracolo. Pensavo che lei fosse piuttosto scettico sui miracoli".

"La Resurrezione del Cristo non è un miracolo. Il Dio che attraverso il Figlio ha assunto natura umana, dopo la morte sulla croce riassume la sua natura divina e immortale".

"Capisco. Ma la Resurrezione dei morti? Quello è un miracolo".

"È un mistero, un mistero della fede. Lei mi ha chiesto perché rappresenta, per me e per tutta la comunità dei fedeli, il fulcro della nostra vita. Cercherò di spiegarlo. La Resurrezione dei morti è un fatto storicamente positivo. Lo Spirito risorge in tutti noi. Risorge ogni giorno, risorge quando preghiamo, quando ci comunichiamo mangiando il pane e bevendo il vino del Signore, quando risorgono in noi la carità e la speranza del futuro, quello terreno e quello extraterreno. La storia del mondo non sarebbe quella che è se la speranza non alimentasse i nostri sforzi e la carità non illuminasse la nostra vita quotidiana. La Resurrezione dello Spirito è la fiamma che spinge le ruote del mondo. Lei può immaginare un mondo senza carità e senza speranza?".

"Non lo immagino infatti. Ma speranza e carità illuminano anche la vita dei non credenti o almeno di molti di essi. Noi non abbiamo bisogno della fede, l'amore del prossimo, secondo me, deriva da un istinto che opera in ciascuno di noi. È l'istinto della vita, l'istinto della socievolezza, l'istinto della sopravvivenza della specie".

"Lei pensa che quell'istinto sia sempre presente in ogni individuo?".

"Penso che sia sempre latente, ma sempre in contrasto con l'amore di sé. La vita non è che un eterno contrasto tra questi due elementi. La natura umana poggia sulla dinamica di questi due elementi".

"Ogni volta che l'amore del prossimo vince sull'egoismo dell'amore di sé, quello è il momento in cui lo Spirito risorge. Il fatto che lei lo chiami istinto non cambia la tessitura della vita: per me è la Resurrezione".

"Ma non la Resurrezione dei morti".

"Quello è un mistero della fede, un di più che ci aiuta. Io non lo chiamo miracolo, lo chiamo necessità. La necessità di vivere con carità e speranza".

"Cardinal Martini lei ha conosciuto il teologo Hans Küng? Conosce la sua teologia?".

"Eravamo tutti e due nel Concilio Vaticano II. Abbiamo la stessa età, eravamo molto giovani allora, della stessa età di papa Wojtyla. Poi l'ho incontrato varie volte, abbiamo discusso spesso, abbiamo un buon rapporto".

"Küng fa un'affermazione molto netta nel suo ultimo libro. Dice che la fede illumina la vita ma che per raggiungere la fede occorre una condizione preliminare: bisogna innanzitutto amare la vita. Amarla d'un amore profondo. L'amore per la vita è una condizione non sufficiente ma necessaria per la maturazione della coscienza. Lei è d'accordo con questa posizione?".

"Sì, sono d'accordo con Küng. Penso anch'io che bisogna amare profondamente la vita per essere poi illuminati dalla grazia e dalla fede".

"Tutto sta nel capire che cosa s'intenda quando si dice "amare profondamente la vita"".

"Lei che cosa ne pensa? Che cosa vuol dire?".

"Penso a un amore responsabile. Penso a una vita che non umilii la vita degli altri, non le rechi danno ma anzi l'arricchisca di sentimenti e maturi l'umanità che è in ciascuno di noi".

"Questo è anche il mio pensiero di cristiano. L'amore per la vita concepito in questo modo è appunto la condizione necessaria anche se insufficiente che può condurre alla fede. Oppure fermarsi a quella tappa iniziale".

"Una tappa imperfetta? Non perfettamente matura"?

Capii che gli costava molto rispondere a questa mia domanda. Poi disse con un soffio di voce: "Una stilla di divino c'è in ogni uomo. Siamo le foglie dissimili di un unico albero. Non spetta a me distinguere le foglie meglio riuscite. Cristo ha detto: non giudicate".

Pioveva a scroscio fuori dalla finestra. Portarono le pillole per il cardinale e una tazza di tè per me. Le tendine sui vetri erano orlate con un ricamo che mi ricordò la mia casa di bambino e l'immagine di mia madre. Le preghiere che mi faceva recitare la sera prima del sonno. Pensai che i credenti, quelli veri, erano rimasti un po' bambini, ma poi scacciai subito quel pensiero. Ti senti superiore? Mi dissi. Sei polvere e polvere tornerai, perciò lui ha ragione: non giudicare.

Gli dissi: "Alla Resurrezione non credo, ma credo nel Golgota".

"Stavo appunto per domandarglielo. Mi dica".

"Credo nel Golgota perché lì fu celebrato il sacrificio di un giusto, di un debole, di un povero. Quel sacrificio si ripete ogni giorno ed è il vero ed unico peccato del mondo: il sacrificio, la sopraffazione, l'umiliazione del povero, del debole, del giusto. Il Golgota raffigura il peccato del mondo".

Il cardinale mi guardò come si guarda un catecumeno, uno sguardo che mi parve una carezza. Notai che aveva un tic frequente all'occhio sinistro, spesso lo chiudeva ma quando lo riapriva era ancor più espressivo dell'altro. Credo fosse l'effetto della sua sindrome parkinsoniana, la stessa malattia di papa Wojtyla.

Poi mi disse: "Sì, il Golgota rappresenta il peccato del mondo. A volte la Chiesa si occupa di troppi peccati e non tutti nella Chiesa sanno e sentono che quello è il solo, vero peccato: la sopraffazione, l'umiliazione, il disconoscimento del proprio simile tanto più se è debole se è povero se è escluso. E se è un giusto. Uno che non farebbe mai cose che umiliano la dignità della persona. Il Golgota dovrebbe essere l'inizio di un percorso penitenziale che dura tutta la vita".

Questa frase mi colpì; non avevo pensato ad un percorso penitenziale. Chi era coinvolto in quel percorso di penitenza? Glielo chiesi. Rispose: "Tutto il mondo".

"Ma il vostro Cristo non era venuto per annunciare la salvezza? Un patto rinnovato tra il Signore e gli uomini?".

"Appunto. Portò la consapevolezza del peccato che era stato commesso e la necessità di espiarlo attraverso la penitenza".

"In un altro nostro incontro lei mi parlò della necessità per la Chiesa di rivisitare il sacramento della confessione. C'è un nesso fra quel suo desiderio e quanto mi ha appena detto?".

"La confessione dev'essere per i cristiani l'inizio di un percorso penitenziale che dura tutta la vita. Se il peccato è quello che abbiamo definito come il vero peccato del mondo, l'espiazione non richiede soltanto il risarcimento materiale del danno; l'espiazione comporta molto di più: comporta la rieducazione del peccatore, la scoperta da parte sua di una vita diversa. È la scoperta della gioia e del gaudio che quella vita nuova e diversa si effonde nella sua anima".

"Cardinale, ha presente il romanzo Resurrezione di Tolstoj?".

"Ha ragione di richiamarlo. Quel romanzo racconta esattamente questo percorso. Il protagonista era un ricco e giovine signore che approfitta e stupra una minorenne. Passano gli anni e alla fine il protagonista ha perso tutto il suo patrimonio ed è condannato e deportato in Siberia, ma nella sua coscienza si è fatta strada la sofferenza per quanto ha commesso e la necessità di espiarlo. Quando l'espiazione tocca il culmine la sua anima si apre alla consolazione e alla gioia".

"Lei ha richiamato Tolstoj; anche Manzoni racconta un processo analogo e la gioia che viene dall'espiazione".

"L'Innominato, il suo pentimento, l'affanno di espiare e la pace dell'anima che provoca l'espiazione".

"La pedofilia è uno di quei peccati?".

Non avevo ancora introdotto quel tema, mi pareva che fosse imbarazzante per un porporato affrontarlo in un colloquio con chi fa professione di giornalismo. Ma in un certo senso era lui che mi ci aveva portato. Infatti rispose senza esitazione.

"La pedofilia è il più grave dei peccati, non umilia soltanto la persona e il debole, ma viola addirittura l'innocente. Aggiungo: nei casi che si sono verificati nella Chiesa i colpevoli sono addirittura sacerdoti e vescovi che hanno come primo compito quello di educare i giovani e i giovanissimi e quindi debbono frequentarli per adempiere il loro magistero. Ci può essere peccato più grave di questo?".

"La Chiesa però condanna il peccato ma perdona il peccatore. Non c'è contraddizione? Il Papa ha assunto un atteggiamento assai rigoroso in questi ultimi mesi e ha anche imposto un criterio di trasparenza invitando i vescovi e i parroci a informare l'autorità giudiziaria distinguendo il reato dal peccato. Vorrei capire se tutto ciò rappresenta un'innovazione del diritto canonico".

"Non mi occupo di diritto canonico perché in questo caso ha ben poco rilievo. Quanto alla denuncia del reato all'autorità giudiziaria, direi che si tratta di un atto assolutamente dovuto, la pedofilia è un grave reato in tutti i codici del mondo e va perseguito. Ma, trattandosi di solito di persone avanti negli anni, è lecito prevedere che la pena inflitta dall'autorità giudiziaria avrebbe un'esecuzione relativamente breve. Comunque non è quello il punto. Ritorno al tema della penitenza e dell'espiazione. Si perdona il peccatore che compia un percorso penitenziale che durerà quanto dura la sua vita terrena. L'espiazione dev'essere così intensa da colmare quell'anima e da farle assumere il compito di risarcire chi ha subito il sopruso. Dico risarcire ma non mi riferisco a risarcimenti materiali che pure sono dovuti. Mi riferisco a un rapporto di anime. L'anima del peccatore non avrà altro fine che redimersi, risarcire i sentimenti violati, risorgere. Solo in quel modo ritroverà la pace e la gioia".

Aveva parlato tutto d'un fiato gesticolando e agitandosi sulla sua poltrona; anche la voce era salita di tono, tanto che poi si abbandonò affannato e socchiuse per un momento gli occhi.

Il suo assistente, un giovane prete con un volto intelligente e modi pieni di premura, fece capolino per la seconda volta: quella pausa nella nostra conversazione lo aveva forse allarmato. "Forse è stanco", dissi, ma a quel punto il cardinale fece un gesto per dire che non era affatto stanco e voleva continuare. Gli chiesi se c'erano stati nella storia della Chiesa dei santi che prima erano stati peccatori. "Molti" rispose. "Il fatto più significativo della loro vita è stata appunto la loro conversione dal peccato alla grazia della fede insieme all'inizio di quel percorso penitenziale che li ha accompagnati fino alla morte". Gli chiesi qualche nome. "Gliene dico uno per tutti, il fondatore della nostra Compagnia, Sant'Ignazio. Lo ha raccontato lui stesso, peccò a lungo e fortemente, per dirla con Lutero; la sua conversione fu totale, la sua espiazione lunghissima, accompagnata da un amore per la vita e per le opere tra le quali appunto la fondazione d'una Compagnia che dopo quattrocent'anni è ancora uno dei pilastri della nostra Chiesa".

Era passata più di un'ora e capii che il nostro incontro si avviava alla fine ma avevo ancora molte cose da chiedere. In particolare c'era un tema che mi stava a cuore: il rapporto tra la missione pastorale della Chiesa e la sua organizzazione istituzionale e gerarchica. Insomma la Chiesa come missione e la Chiesa come centro di potere.

"Ricorda, cardinal Martini? Lei mi raccontò, in un nostro precedente incontro, che all'inizio del Conclave che elesse cinque anni fa l'attuale Pontefice lei ricordò ai suoi confratelli riuniti nella Sistina che il Conclave doveva eleggere il Vescovo di Roma. Il Papa infatti ha quella funzione in quanto Vescovo di Roma e tale deve sempre rimanere. Lei non mi spiegò allora il senso di quel suo discorso, vuole dirmelo adesso?".

"Il senso può risultare oscuro per chi non opera nella Chiesa e per la Chiesa, ma per noi è chiarissimo. I Vescovi sono i successori degli apostoli e ad essi Gesù dettò una sola missione: andate e predicate alle genti la verità e la carità, diffondete il Verbo, indicate la via. Questa è la missione dei Vescovi, pastori di anime. Ma Gesù sapeva anche che quella missione doveva essere racchiusa entro una guaina che ne proteggesse l'essenza e la preservasse nel corso dei secoli e dei millenni. Quella che lei chiama istituzione è appunto la guaina organizzativa, le Congregazioni, la Curia, la finanza, i tribunali ecclesiastici. Servono a preservare la missione pastorale che rappresenta l'essenza della Chiesa".

"Il Papa è il Vescovo di Roma ed è il capo della missione pastorale e dell'istituzione. E così?".

"Il Papa è il Vescovo che siede sulla sedia che fu di Pietro. La missione pastorale è il suo compito prevalente. Il fatto che sia anche un teologo o un diplomatico o un organizzatore è secondario. È e dev'essere soprattutto un pastore di anime che esercita quella vocazione insieme a tutti gli altri Vescovi".

"Tuttavia per gran parte della sua storia la Chiesa è stata soprattutto dominata dal potere dell'istituzione, i Papi sono stati dei capi di Stato e perfino dei guerrieri. Il potere temporale ha soverchiato la missione pastorale".

"Non penso che l'abbia soverchiata, ma certo spesso è accaduto che il potere e la sua conservazione abbiano avuto un'importanza eccessiva e la missione pastorale ne abbia subito i contraccolpi".

"È ancora così anche oggi?".

"Questi difetti sussistono ancora, il potere temporale, in altre forme, è ancora una tentazione all'interno della Chiesa. Ma quello che noi chiamiamo il popolo di Dio, i fedeli, il clero con cura di anime, le associazioni e il volontariato cattolico, costituiscono la vera guaina di custodia della nostra essenza".

"Le faccio un'ultima domanda perché sto abusando del suo tempo. La Chiesa per compiere la sua missione deve avere contatti con i poteri pubblici che incontra nel suo cammino. Talvolta incontra regimi di dittatura e tirannide, altre volte regimi democratici. Sono forme politiche indifferenti per la Chiesa oppure essa è chiamata a fare una scelta tra di loro?".

"La Chiesa deve fare una scelta anche se deve includere sistemi politici estranei alla sua concezione. Anzi è proprio nei territori dove la libertà e l'eguaglianza sono negate che la testimonianza della Chiesa diventa preziosa. Ma per me non c'è dubbio: la Chiesa che rivendica la libertà religiosa, per ciò stesso condivide principi di libertà, di eguaglianza, di inclusione, di rispetto della dignità delle persone. Questi principi valgono, debbono valere, anche all'interno della Chiesa dove il Papa esercita la sua missione insieme all'Episcopato e al popolo di Dio, nelle varie forme conciliari che la nostra organizzazione prevede".

L'incontro era finito. Il giovane sacerdote era rientrato per aiutare il cardinale ad alzarsi. Io gli dissi: "La prossima volta voglio vederla saltare alla corda". Mi guardò sorridendo e disse: "Torni presto". Poi mi accarezzò il viso con un tocco leggero. Feci altrettanto con lui. Eravamo tutti e due un po' commossi. Fuori continuava a piovere.

(13 maggio 2010)

© Copyright La Repubblica

Don Giovanni collezionista del nulla. La lussuria come ricerca malata dell'assoluto

Pubblichiamo stralci di uno degli articoli contenuti nel numero appena uscito della rivista "La Civiltà Cattolica".

di Giovanni Cucci

Si può dire che il vizio della lussuria, a prima vista proprio della sfera biologica, presenti caratteristiche soprattutto culturali. La lussuria è infatti legata essenzialmente alla fantasia e all'immaginazione, trovando stimoli e suggestioni nei mezzi di comunicazione: televisione, romanzi, riviste, film. Gli stessi comportamenti tradizionalmente legati a tale vizio confermano la sua indole propriamente culturale. Si pensi alla celebre descrizione letteraria del personaggio di Don Giovanni: egli mette in atto le sue seduzioni con un criterio strettamente intellettuale e non sembra succube di passioni o sentimenti particolari. L'unica cosa che lo interessi veramente è accrescere la propria "collezione" di donne. Significativa è al riguardo una celebre declamazione del "catalogo" di Don Giovanni, compiuta dal servo Leporello.
Quello che colpisce in tale descrizione è la totale assenza di passione e di umanità: la lussuria viene qui presentata come una specie di catena di montaggio della libidine, ciò che importa è la quantità e la velocità di produzione delle conquiste, subito dissolte nella dimenticanza. Questa predilezione per il numero mostra come alla base della lussuria non si trovi affatto l'eros, ma piuttosto un gretto calcolo, come nota acutamente Mathieu: "Non c'è dubbio che la smania di seduzione di Don Giovanni sia più cerebrale che sensuale. Lo stesso catalogo delle conquiste lo dimostra (...). Esso fa pensare che la tentazione diabolica sia di natura intellettuale".
Il rapporto tra lussuria e immaginazione diviene ancora più evidente qualora si prendano in considerazione i disturbi da dipendenza da internet. Qui l'immagine, e soprattutto la sua rielaborazione fantastica, finiscono per assorbire completamente la mente del "navigatore", fino a spegnere del tutto, non solo il desiderio sessuale, ma ogni altro tipo di interesse e attività: "La più immediata ed evidente conseguenza della pornodipendenza è il calo drastico della tensione sessuale, sia per gli uomini sia per le donne e per gli uomini una insorgente impotenza parziale o totale. La pornodipendenza modifica in modo negativo tutti gli aspetti della vita di un individuo: rapporti di lavoro, capacità di applicazione e attenzione al proprio lavoro, applicazione allo studio, rapporti di amicizia e di amore, progressiva sfiducia in se stessi (...), condizionamento a guardare i potenziali partner soltanto ed esclusivamente come oggetti pornografici". La pornografia rivela grandi paure nell'ambito affettivo, perché conduce alla fuga dalle difficoltà legate a una relazione reale e stabile e a rifugiarsi in una fantasia irreale ma rassicurante.
Nell'uomo, l'organo sessuale per eccellenza è il cervello, il suo universo culturale; in tale sede trovano la loro radice i comportamenti devastanti della lussuria, una cosa d'altronde ben nota alla tradizione filosofica: "L'appetito che gli uomini chiamano concupiscenza, e la frustrazione che ad esso è relativa, è un piacere sensuale, ma non solo quello (...), ma un piacere o gioia della mente consistente nell'immaginazione del potere di piacere, che essi posseggono in tanta misura".
La lussuria è dunque il vizio della quantità, non del piacere, della compulsione, non dell'amore, dell'atto, non del corpo; parlare dunque di "paralisi della mente", a opera della passione, può essere forse appropriato per l'ira, ma non per la lussuria. Ci può essere certamente una passione irrefrenabile, ma questo sarà semmai proprio di una caduta occasionale, non del ripetersi continuo di un atto, fino a diventare vizio, come nella lussuria. Si potrà avvertire la passione per una persona, ma in tal caso essa avrà piuttosto i connotati dell'innamoramento e dell'interesse personale il che, di nuovo, è ben diverso dalla "collezione anonima" del lussurioso, che cerca il piacere, non una specifica persona, subito dimenticata.
Il fatto che la lussuria non cessi con l'arrivo della "pace dei sensi", senile o virtuale come nelle dipendenze da internet, mostra il carattere spirituale di questo vizio, vizio intellettuale, di fantasia e immaginazione perché malato di assoluto. Don Giovanni nelle sue peripezie cerca la bellezza assoluta, totale, perfetta, eterna, senza riuscire mai a trovarla. Egli si illude di rinchiudere ogni cosa nel numero: il numero del catalogo delle sue conquiste rispecchia la sua visione del mondo: il "due più due fa quattro" è anche il suo modo di vedere la vita, all'insegna del materialismo. Bosch aveva colto molto bene questo elemento spirituale, raffigurando in maniera strana questo vizio, mediante un'arpa dimenticata dagli amanti, un dettaglio apparentemente secondario, che il pittore pone tuttavia al centro della scena, come a mettere in evidenza in questo smarrimento la deriva più grave della lussuria.
Un autore commenta questo dettaglio: "Che significa tale abbandono? Semplicemente che i protagonisti del quadro, presi come sono dal loro gioco "terreno", non hanno tempo per volgere almeno un pensiero al cielo, cioè a quell'amore divino che è la forza motrice di tutte le cose e di cui l'arpa, appunto, è lo strumento per cantarne le lodi (...). La lussuria, infatti, è il vizio che caratterizza chi, rinnegando Dio, fa del corpo umano l'idolo a cui rendere un esclusivo omaggio. In un certo senso, il suo peccato di fondo è l'uso distorto di quell'amore che, secondo Dante, muove il sole e le altre stelle".
Questa richiesta di assoluto si nota anche nella tendenza a idealizzare la sessualità e a rivolgere all'altro richieste eccessive, non accettandone la finitezza. Una sessualità promiscua e discontinua, oltre a rendere più difficile la conoscenza dell'altro, passa con facilità agli estremi, ugualmente irreali, dell'idealizzazione e della svalutazione. È una conseguenza della cultura detta del narcisismo, in cui l'essere umano vorrebbe mettersi al posto di Dio, credendosi il centro dell'universo: "I rapporti personali sono diventati sempre più rischiosi, perché non offrono più alcuna garanzia di stabilità. Uomini e donne avanzano reciprocamente richieste esagerate e se a tali richieste non corrisponde una risposta adeguata si abbandonano a sentimenti irrazionali di odio e astio".
Nella lussuria si è smarrita la "decorazione", rappresentata dall'arpa; in altre parole l'elemento culturale, simbolico, spirituale e religioso, cioè quanto di umano si trova nella sessualità. Chi cade in questo vizio si ritrova solo con le sue fantasie, incapace di incontrare l'altro.



(©L'Osservatore Romano - 21 aprile 2010)

Assassini che mangiano di magro. Lo scandalo della morale cattolica. Peccato, reato e la vocazione della chiesa alla severità e alla misericordia

di Francesco Valenti
Le polemiche suscitate dalla campagna
contro la pedofilia nella
chiesa cattolica sono animate da diverse
motivazioni, che vanno dal sentimento
antiromano alla richiesta di
purificazione e di ammodernamento,
quando non di sottomissione a chi comanda
nel mondo. Una questione
spesso sottaciuta, e tuttavia ardente
sotto le ceneri di ogni contesa, riguarda
la presunta superiorità della chiesa
nel campo della carità e dell’educazione,
o, più in generale, della formazione
dell’uomo, investendo, da
qui, anche la richiesta di revoca dello
status particolare che la chiesa cattolica
si è conquistata. Quanto avviene
non è forse la dimostrazione, anche
per esperienza, dell’inferiorità e della
pericolosità della morale cattolica?
Della sua incapacità di educare l’uomo,
perfino laddove lo tenga ancora
in pugno dalla culla alla bara? Di più,
del suo essere fonte di corruzione e
costrizione disumana, cui necessariamente
deve conseguire l’impulso incontrollabile
del desiderio represso?
L’accusa non si limita a questo, ma
investe anche i gesti di pietà e pentimento,
posti sempre in relazione col
rigore dei principi: pur di non lasciare
spazio a quanto rimprovera come
errore, perché la chiesa perdona e facilmente
giustifica l’errante, accompagnando
l’asprezza della dottrina
con una pratica del tutto formalista e
esteriore? Perché tanta intransigenza
sulla vita e tanto lassismo quando si
tratta di far pagare la pena? Perché
impedire l’esercizio delle libertà, salvo
poi fornire indulgenze e perdono,
mentre all’uomo di oggi è necessario
permettere tutto ma è anche indispensabile
poterlo sanzionare con
multe, castigo e galera?
Se la morale cattolica intende far
vivere meglio l’uomo, perché si ostina
a negare gli affetti degli individui, i
progressi della cultura e le disposizioni
della legge civile e penale? Davvero
la chiesa cattolica non si rende
conto che la più consistente dimostrazione
del suo anacronismo, se non
della sua falsità, consiste nel fallimento
dell’uomo che essa ha creato?
Non è sotto gli occhi di tutti che l’uomo
moderno, per cui la morte di Dio
è un dato, deve liberarsi anche dall’immagine
di Cristo e dalla cultura
morta del cattolicesimo? Che l’uomo
singolo, che vuole vivere i suoi desideri
non repressi, e l’uomo sociale dei
diritti disciplinati sono la più grande
dimostrazione della qualità del mondo
relativista?
La lotta riformatrice contro l’oscurantismo
delle indulgenze non si è
mai conclusa, e la speranza di molti
che l’esito di questa nuova infuocata
offensiva contro la chiesa cattolica sia
analogo a quello del Cinquecento è
tutt’altro che celata tra le righe delle
polemiche giornalistiche di queste
settimane. Per esse, il vizioso è l’inevitabile
espressione del virtuoso apparente,
inchiodato alle sue responsabilità
reali dal processo demistificatorio
che mostra come, sotto ogni atto
gratuito, si annidano interessi, morbosità
e secondi fini. Nessun uomo è sano
perché il nostro essere, non il nostro
esistere, è intrinsecamente malato.
L’uomo di oggi non deve essere più
chiamato da nessuno a risorgere nella
conversione personale, e perciò ad
accettare Colui che fa nuove tutte le
cose, ma a regolamentare, semplicemente,
i permessi alla sua illimitata
libertà.
Come avviene da almeno due secoli,
è ancora essenziale, per la morale
moderna individuale e collettiva, risolvere
lo scandalo della morale cattolica.
E’ questo scandalo, precisamente,
il tema che venne affrontato
da Alessandro Manzoni nelle “Osservazioni
sulla morale cattolica”, dove,
sin dalle prime righe, rivolgendosi al
lettore, afferma che “se la morale che
la chiesa insegna portasse alla corruttela,
converrebbe rigettarla”; e che,
perciò, “si tratta di decidere se una
morale professata da milioni d’uomini,
e proposta a tutti gli uomini, deva
essere abbandonata, o conosciuta meglio,
e seguita più e più fedelmente”.
mento di chi a lei s’affida e, in particolare,
del popolo italiano, che appare
vivere in modo ipocrita, costantemente
in bilico “tra il sicario e il certosino”
(cap. XIII). La chiesa è dunque
immorale? “Di quelle sante e solenni
parole che sono come la parte
essenziale del vocabolario morale di
tutti i tempi e di tutti i luoghi – giustizia,
dovere, virtù, benevolenza, diritto,
coscienza, premio, pena, bene, felicità
–, quale, Dio bono! è stata cancellata
o lasciata fuori dalla chiesa?”
(cap. III). E’ la verifica di questa disposizione
della morale cattolica a
elevare tutto l’uomo che innalza l’argomentare
con indicazioni non certo
di trita apologia quanto accurate e
sottili. Manzoni aveva come avversarie
le morali di Locke, Bentham,
Rousseau, nonché, implicitamente, di
Kant e altri; la distanza di quelle morali
con l’etica del disordine di oggi è
notevole, ma le sue argomentazioni
usano parole così accurate nell’esplicitazione
delle ragioni che non hanno
smarrito forza persuasiva. Tanto Manzoni
ebbe a cuore il tema, che una seconda
edizione del libro vide la luce
nel 1855, con alcune novità. Postuma,
infine, fu stampata la seconda parte,
già scritta sin dal 1820, ma lasciata
fuori anche dalla definitiva pubblicazione
e parzialmente incompiuta.
Non che, ieri come oggi, si possa
trovare la fede e seguire la chiesa studiandone
la morale, perché sarebbe
come voler iniziare una scalata dalla
cima. Ma la morale cattolica è, per
Manzoni, la verifica umana della novità
e della verità cristiana; è la dimostrazione
della grandezza della sua
visione antropologica, derivando questa
da Cristo, che ha rivelato l’uomo
all’uomo, e non da una presunta convenzione
umana, come volevano le
morali borghesi. Senza la possibilità
di poter parlare, specialmente ai semplici,
di quanto le è stato rivelato, la
chiesa tradirebbe, pertanto, la sua essenziale
funzione di guida e di certezza
anche nel campo delle più elementari
verità. “[La chiesa] potrà supporre
un momento che ci siano due vie,
due verità, due vite? Le sono stati affidati
de’ precetti; e depositaria infedele,
ministra diffidente, dispenserà
de’ dubbi? Lascerà da una parte la
parola eterna, e s’avvilupperà ne’ discorsi
dell’uomo, per riuscire a trovare
forse che la virtù è più ragionevole
del vizio, forse che Dio dev’essere
adorato e ubbidito, forse che bisogna
amare i suoi fratelli?” (cap. III).
Siamo ancora nel 1819, e Manzoni
si sente costretto a dedicare diverse
parti a illustrare ex novo singoli
aspetti ormai già sconosciuti della
morale cattolica, facendolo talora in
modo eccessivamente minuto, con
parti sui decreti della chiesa, sull’elemosina,
la sobrietà, l’astinenza, la
continenza e la verginità, la modestia
e l’umiltà. Ma la qualità dell’analisi e
dello stile delle “Osservazioni” si innalza
sempre, e soprattutto laddove
Manzoni introduce la controversia tra
la morale della chiesa e la cultura del
suo, e del nostro, tempo, analizzando
gli argomenti con quella precisione
profonda che ritroveremo in numerose
pagine dei “Promessi sposi”, quando
la morale si fa arte e narrazione,
perché, come afferma Alasdair MacIntyre,
“i mezzi principali dell’educazione
morale consistono nel raccontare
storie”.
Manzoni conosce e descrive troppo
bene la condotta libertina dei bravi,
dei don Rodrigo e del primo Innominato
per poter concedere al mondo la
palma della vittoria nella costruzione
di una vita più morale; di quel mondo
che, come l’Innominato, è destinato a
vivere senza “quel Dio di cui aveva
sentito parlare, ma che da gran tempo,
non si curava di negare né di riconoscere,
occupato soltanto a vivere
come se non ci fosse” (“I promessi
sposi”, cap. XX). Infatti, quanto il libertinismo
permissivo esclude è propriamente,
per Manzoni, il fondamento
stesso della nostra e di ogni civiltà,
vale a dire la carità religiosa, quella
che sola permette a ciascuno la semplice
e mirabile scoperta che il proprio
bene coincide con quello fatto
agli altri. Ma è importante notare come
Manzoni estenda la propria critica
anche all’autonomia della morale
borghese, che possiede “due vizi innati
e irrimediabili: mancanza di bellezza,
ossia di perfezione, e mancanza
di motivi”; essa è dunque caratterizzata
da quella “urbanità, la quale, separata
dalla carità religiosa, è piuttosto
le leggi della guerra che un trattato
di pace” (cap. III).
Alla capacità di contentarsi di una
felicità analgesica, esemplificata nel
romanzo da donna Prassede, il cui
unico “studio era di secondare i voleri
del cielo”, ma che “faceva spesso
uno sbaglio grosso, ch’era di prender
per cielo il suo cervello” (“I promessi
sposi”, cap. XXV), Manzoni contrappone
la fede religiosa autentica,
“quella che, facendo intendere che i
beni temporali non sono il fine dell’uomo,
li fa con ciò stesso conoscere
come mezzi; e nella quale trovano per
conseguenza una ragione evidente
del pari e il giusto disprezzo e la giusta
stima di essi; il procurarli agli altri,
e il trascurarli per sé, quando il
trascurarli sia un mezzo più conducente
al fine, che il possederli; e la
pazienza senza avvilimento, e l’attività
senza inquietudine!” (cap. III). In
tale direzione egli può riprendere
l’affermazione di Montesquieu, secondo
il quale “la religione cristiana, la
quale pare che non abbia altro oggetto,
se non la felicità dell’altra vita, ci
rende felici anche in questa” (appendice
al cap. III).
Manzoni vede con certezza la prospettiva
funesta di una vita destinata
a operare come se Dio non fosse, e
perciò ribalta le accuse alla chiesa,
impegnato a svalutare l’assurdità di
una morale lontana da Dio e di una
conseguente giustizia senza Paradiso.
Egli sa fin troppo bene che il Vangelo
è escluso “quasi del tutto dai discorsi
degli uomini, che non è lecito che parlarne
qualche volta generalissimamente
purché non si faccia mai applicazione,
eccetto alcuni casi, p.e. di afflizione”
(parte seconda cap. IV). E sa
che il popolo potrebbe abbandonare
la chiesa: “Ah! Se quegli che si chiamano
popolo adottassero un giorno la
filosofia miscredente, che Dio non voglia”
(parte seconda, cap. VI). Manzoni
ha conosciuto e descritto anche il
dramma a noi contemporaneo della
coscienza solitaria, come in alcuni
versi di “Ermengarda” o del “Cinque
maggio” o in certi momenti d’angoscia
disperata nell’innominato, cui fa da
contraltare l’affezione a sé nel grande
cap. XV delle “Osservazioni”. Il paradosso,
che diremmo lombardo, del
Manzoni, e che lo rende assai più vicino
di quanto non appaia nel suo stile
a Leopardi o a Baudelaire, è quello di
un cattolico liberale, integrato apparentemente
nel suo tempo e con il limite
di una visione più morale che
metafisica, ma che legge il comportamento
come l’affiorare dell’essere, in
questo percependo una permanenza
ma anche il cuore della grande difficoltà.
Lo stile che ne consegue lo preserva
dalla facile apologia trionfalistica
e lo impegna nella scoperta iniziale
di parole e argomentazioni, e nella
dimostrazione di dove le idee e gli uomini
vadano a finire, una volta allontanatisi
dalla pietà di un’accettazione.
All’opposizione nei fatti tra la morale
cattolica e lo spirito del secolo è
riservato un capitolo della seconda,
incompiuta, parte; ma alcuni elementi
di tale opposizione Manzoni ha tenuto
costantemente presenti in tutta
l’opera, nella quale difende la morale
cattolica accusata di doppiezza, di ipocrisia
nei riguardi della giustizia e di
assurdità per il suo riferirsi a elementi
tanto impuri per lo spirito religioso,
e tra questi anzitutto ai preti. Confutazione
senza appello, che il mondo pretende
di assegnare allo scandalo di
una chiesa anacronistica. Per il mondo,
la morale cattolica deve rinunciare
alla religione dei preti e delle suore,
a una fede non intima e con troppi
segni esteriori, a una credenza esclusa
dai tratti dell’uomo civile, alla giustificazione
che non sia esclusivamente
culturale della grandezza del cristianesimo
passato. Entrando nel cuore
di questa imputazione, Manzoni così
si esprime: “una accusa che si fa comunemente
ai nostri giorni alla religione
cattolica, è ch’ella sia in opposizione
collo spirito del secolo. Questa
accusa può in un senso essere dalla
religione ricevuta come un elogio: se
per spirito del secolo s’intende la tendenza
violenta ad alcune cose transitorie
come beni da ricercarsi per sé,
l’amore e l’odio insomma delle creature
non diretto ai fini voluti da Dio, la
religione si protesta, come sempre si è
protestata, nemica di questo spirito; e
quando venisse a far tregua con esso,
allora si potrebbe trovarla in contraddizione
e diffidare di essa. Guai alla
chiesa se ella facesse un giorno pace
col mondo! se desistesse dalla guerra
che il Vangelo ha intimata, e che ha
lasciata alla chiesa come la sua occupazione
e il suo dovere; ma questo timore
non può mai esser fondato, perché
l’espressa parola di Gesù Cristo
assicura il contrario” (parte seconda,
cap. II).
Tra le doppiezze del cattolico e del
carattere del popolo italiano, che della
morale cattolica è, secondo il Sismondi,
diretta conseguenza, una finzione
suona particolarmente incomprensibile,
oggi, alla cultura progressista
e liberale: quella relativa al rapporto
tra pentimento e remissione dei
peccati. Per questa cultura, ieri come
oggi, “un complesso di discipline meditate,
promulgate, venerate da una
società come la chiesa, non meriterebbe
attenzione, se non per l’ubbidienza
di qualche omicida, di qualche prostituta,
di qualche spergiuro!”; di qui il
pregiudizio nordico, al quale gli italiani
appaiono come degli “assassini che
mangiano di magro” (cap. XIV). Come
sempre Manzoni riconduce l’argomento
a quello che c’è in gioco nelle decisioni
della vita, ribaltando l’accusa e
facendo anzi della modalità con cui la
chiesa cattolica spiega, vive e accompagna
l’errore umano uno dei più formidabili
segni della sua grandezza. E’
la decisiva questione del Male, che
Manzoni affronta seguendone non tanto
le tracce metafisiche o filosofiche,
quanto osservandone tutte le connessioni
morali, in modo tale, però, da far
risaltare in parole quali peccato, pentimento,
giustizia, cambiamento la
concretezza dei principi, preludio a
numerose pagine del romanzo.
Il peccato è una parte inevitabile e
dolorosa del combattimento cristiano
e la sua remissione ne è l’accompagnamento.
Manzoni sa bene che il dialogo
con le filosofie umane si fa, su
questo punto, contrapposizione, perché
il peccato non è il reato: la contrapposizione
tra questi due elementi
è tanto essenziale quanto inevitabile.
“Le filosofie puramente umane, richiedendo
molto meno, sono molto
più esigenti: non fanno nulla per educar
l’animo al bene difficile, prescrivono
solo azioni staccate, vogliono
spesso il fine senza i mezzi: trattano
gli uomini come reclute, alle quali
non si parlasse che di pace e di divertimenti,
e che si conducessero alla
sprovvista contro de’ nemici terribili.
Ma il combattimento non si schiva col
non pensarci; vengono i momenti del
contrasto tra il dovere e l’utile, tra l’abitudine
e la regola; e l’uomo si trova
a fronte una potente inclinazione da
vincere, non avendo mai imparato a
vincere le più fiacche. Sarà forse stato
avvezzo a reprimerle per motivi
d’interesse, per una prudenza mondana;
ma ora l’interesse è appunto quello
che lo mette alle prese con la coscienza.
Gli è stata dipinta la strada
della giustizia come piana e sparsa di
fiori; gli è stato detto che non si trattava
se non di scegliere tra i piaceri, e
ora si trova tra il piacere e la giustizia,
tra un gran dolore e una grand’iniquità.
La religione, che ha reso il suo
allievo forte contro i sensi, e guardingo
contro le sorprese, la religione, che
gli ha insegnato a chieder sempre de’
O SCANDALO DELLA MORALE CATTOLICA
zioni sullo scontro tra la chiesa e l’etica dei moderni. Ripartendo dal cattolico liberale Manzoni
ANNO XV NUMERO 87 - PAG III IL FOGLIO QUOTIDIANO MERCOLEDÌ 14 APRILE 2010
soccorsi che non sono mai negati,
gl’impone ora un grand’obbligo, ma
l’ha messo in caso d’adempirlo; e avergli
chiesto un gran sacrifizio, sarà un
dono di più che gli avrà fatto. La religione,
chiedendo all’uomo cose più
perfette, chiede cose più facili, vuole
che arrivi a una grand’altezza, ma gli
ha fatta la scala, ma l’ha condotto per
mano: le filosofie umane, contentandosi
che tocchi un punto molto meno
elevato, pretendono spesso di più;
pretendono un salto che non è della
forza dell’uomo.” (cap. XIV).
La differenza tra peccato e reato, e
l’assoluta indispensabilità della loro
separazione, nasce da qui: alla legge
che può solo vietare e colpire, la morale
cattolica ha affiancato la ben più
forte carità, che propone sempre, che
comanda il cambiamento e che lo
premia, che sa accompagnare l’uomo
in tutta la vita e oltre. “La giustizia
umana ha pur troppo con sé l’orgoglio
del Fariseo che si paragona col Pubblicano,
che prende un posto lontano
da lui; che non s’immagina che quello
possa diventare un suo pari; che, se
potesse, lo terrebbe sempre nell’abiezione
del peccato” (cap. VIII, 3). Se
per il pensiero protestante la relazione
tra pentimento e remissione dei
peccati poteva essere infranto dal rigore
della fede, che pure plasmava la
durezza della vita, ai predestinati
senza fede del mondo moderno, la
confusione e l’incapacità di vivere
questa caratteristica apre le porte a
un’ingerenza della legge in ogni particolare
della vita umana.
Si valutino, invece, le splendide parole
con le quali Manzoni esalta il
cammino di conversione di un uomo
colpevole, i.e. di tutti, e la funzione
del sacerdote in questo percorso: “la
religione ha ricevuto dalla società un
vizioso, e le restituisce un giusto: essa
sola poteva fare un tal cambio. Chi
avrebbe tentato, chi avrebbe pensato
d’istituire de’ ministri per aspettare il
peccatore, per invitarlo, per insegnar
la virtù, per richiamare a quella chi
ricorre a loro, per parlargli con quella
sincerità che non si trova nel mondo,
per metterlo in guardia contro
ogni illusione, per consolarlo a misura
che diventa migliore?” (cap. VIII,
3). Anche per questi motivi, “quello
che la chiesa vuole evitare prima di
tutto, è il male orribile d’un popolo
senza cristianesimo, e l’assurdità d’un
cristianesimo senza ministero” (cap.
X). Avere il senso del peccato e al
tempo stesso vivere e accompagnare
l’amore, tale è la condizione umana
che il cattolicesimo ha reso sacramento.
E’ questo lo scandalo più consistente
introdotto dalla morale cattolica.
Come può ancora sussistere?
Eppure, nel mondo che non concepisce
più il peccato e la sua speranza,
le sembianze dell’errore assumono
sempre e solo le fattezze del reato irrimediabile.
Se poi tale peccato s’annida
nel sacerdote, quel povero Cristo
tanto limitato, la contraddizione risulta
ipocrisia insanabile. “Per non giudicare
precipitosamente in ciò, un
cristiano deve, a mio credere, non
perder mai di vista due cose: una, che
l’uomo può abusare delle cose più
sante; l’altra, che il mondo suol dare
il nome d’abuso anche alle cose più
sante” (cap. XVIII). La morale cattolica
trova in questi argomenti uno dei
suoi vertici: è l’intervento della redenzione
nella condizione dualistica
e contraddittoria dell’umanità. Esso
segnala che Cristo ha operato il riscatto
nella carne e nelle ossa, nella
sua concreta e permanente possibilità,
nel cambiamento (“l’idea della
conversione si deve, non meno che la
parola, alla religione cristiana”, cap.
VIII), perciò, sempre possibile, e nella
speranza sempre incontrabile, in
qualsiasi condizione.
A tale riguardo, le osservazioni del
Manzoni, preludio a tante pagine del
suo romanzo, sono davvero mirabili.
Si considerino queste del capitolo
VIII, 2: “Quanto più l’uomo conosce
che debole, che incerto, che sproporzionato
assegnamento possa fare sulle
proprie forze, e insieme sa e crede
che gli è, non già permesso, ma comandato
di sperare; tanto più si sente
mosso a volgersi e, direi quasi, a
buttarsi, con un lieto abbandono, da
quella parte dove tutto è forza, tutto
è fedeltà, tutto è previdenza, tutto è
assistenza”. Oppure le parole che già
anticipano la conversione dell’innominato:
“Il rimorso, quel sentimento
che la religione con le sue speranze
fa diventar contrizione, e che è tanto
fecondo in sua mano, è per lo più o
sterile o dannoso senza di essa. Il reo
sente nella sua coscienza quella voce
terribile: non sei più innocente; e
quell’altra più terribile ancora: non
potrai esserlo più; e riguardando la
virtù come una cosa perduta, sforza
l’intelletto a persuadersi che se ne
può far di meno, che è un nome, che
gli uomini l’esaltano perché la trovano
utile negli altri, o perché la venerano
per pregiudizio; cerca di tenere
il core occupato con sentimenti viziosi
che lo rassicurino, perché i virtuosi
sono un tormento per lui. Ma per lo
più quelli che vanno dicendo a sé
stessi che la virtù è un nome vano,
non ne sono veramente persuasi: se
una voce interna annunziasse loro
autorevolmente, che possono riconquistarla,
la crederebbero una verità,
o, per dir meglio, confesserebbero a
se stessi d’averla, in fondo, creduta
sempre tale. Questo fa, la religione in
chi vuole ascoltarla: essa parla in nome
d’un Dio che ha promesso di buttarsi
dietro le spalle le iniquità del
pentito: essa promette il perdono, e
offre il mezzo di scontare il prezzo
del peccato. Mistero di sapienza e di
misericordia! mistero, che la ragione
non può penetrare, ma che tutta la
occupa nell’ammirarlo; mistero che,
nell’inestimabilità del prezzo della
redenzione, dà un’idea infinita e dell’ingiustizia
del peccato e del mezzo
d’espiarlo, un’immensa ragione di
pentimento, e un’immensa ragione di
fiducia” (cap. VIII, 3).
Il rifiuto del perdono cristiano, la
richiesta di pentirsi senza sperare,
non sfocia, dunque, nell’autentica afflizione,
ma nella maledizione della
legge. Come ha scritto Rodolfo Quadrelli,
invece, “la religione attende
l’uomo nel momento in cui la tregua o
la disfatta mondana potrebbero portarlo
a una ragionevolezza che è lecito
definire scettica, perché ispirata
da “stanchezza o per una specie di disperazione”.
La religione cambia di
segno a questi momenti, e tutta l’opera
creativa del Manzoni è lì per testimoniarlo”.
E’ quanto Manzoni ha fatto diventare
narrazione nella figura dell’innominato
e in quella di Gertrude. Nel
capitolo XXXVII dei “Promessi sposi”,
Lucia viene a sapere di Gertrude
“cose che, dandole la chiave di molti
misteri, le riempiron l’animo d’una
dolorosa e paurosa maraviglia. Seppe
dalla vedova che la sciagurata, caduta
in sospetto d’atrocissimi fatti, era
stata, per ordine del cardinale, trasportata
in un monastero di Milano;
che lì, dopo molto infuriare e dibattersi,
s’era ravveduta, s’era accusata;
e che la sua vita attuale era supplizio
volontario tale, che nessuno, a meno
di non togliergliela, ne avrebbe potuto
trovare un più severo”. Lungi dal
rappresentare una facile scorciatoia,
a colei che aveva a tutto acconsentito
senza sapersi ribellare, che aveva accettato
una vocazione non sua, che
aveva tradito e ucciso, che non era
riuscita nemmeno a preservare quel
minimo di amore che le era sorto per
Lucia, il pentimento cristiano permette
di capire e, soprattutto, di cambiare;
e poiché è sempre accompagnato
dalla speranza, le consente di concludere
la sua vita, finalmente, con un atto
tanto volontario quanto eroico: sappiamo
dalla “Storia” del Ripamonti
che Gertrude non uscì più dalla cellaprigione
del monastero di Santa Valeria,
a Milano, dove si fece rinchiudere
sino alla morte.
Alla religione senza i preti e le suore,
protesa a ottenere una religione
razionale e misurata, Manzoni oppone
la verità tutta intera del Vangelo, il
cui richiamo è nel semplice esistere
di un solo sacerdote. A quella senza
segni esteriori, garanzia di una sincerità
interiore contro i formalismi, egli
contrappone la verifica nel comportamento
della conversione personale.
La redenzione della carne impedisce,
così, la giustificazione del fallimento
come prospettiva; e quando la persona,
lasciata a se stessa, trova esclusivamente
giustificazioni alla propria
impossibilità, le risorse derivanti da
una grazia accordatele la rincuorano
sino al cambiamento. La morale cattolica
contrasta anche l’affermazione
del puro spirito che è nulla, oggi in
senso letterale, derivante dalla stanchezza
smarrita; e impedisce che l’allontanamento
definitivo di Cristo tra
le morte gore delle discussioni cerebrali
vada di pari passo con quella
della chiesa. “Il Verbo avrà assunta
questa carne mortale, e attraversate
l’angosce ineffabili della redenzione,
per meritare alla società fondata da
Lui un posto tra l’accademie filosofiche?”
(cap. III).

© Copyright Il Foglio 14 aprile 2010

Meno senso di colpa e più senso del peccato. A colloquio con l'arcivescovo Fortunato Baldelli, penitenziere maggiore

di Nicola Gori

Diminuire nei fedeli il senso di colpa e far riscoprire il senso del peccato. Sensibilizzare le coscienze nei confronti degli aspetti sociali di una condotta non conforme ai valori evangelici. Far prendere coscienza all'uomo di oggi della sua enorme responsabilità verso quelli che saranno i suoi discendenti sul pianeta. Garantire loro una vita dignitosa e possibilmente migliore dell'attuale, evitando di compiere azioni improntate all'egoismo e al disprezzo delle leggi divine che possano compromettere l'integrità e l'armonia del tessuto sociale. Sono alcuni degli obiettivi che la Penitenzieria Apostolica si propone di raggiungere nel prossimo futuro attraverso varie iniziative. Ne abbiamo parlato con l'arcivescovo Fortunato Baldelli, penitenziere maggiore, in quest'intervista al nostro giornale.

Da qualche mese lei è alla guida della Penitenzieria Apostolica. Quali progetti e impegni avete per l'anno in corso?

I progetti della Penitenzieria Apostolica non sono pochi né di poco conto. Tra questi spicca il corso sul foro interno, giunto alla ventunesima edizione, che si sta svolgendo in questi giorni, alla luce di quanto Benedetto XVI ebbe a dire il 16 marzo 2007 ai partecipanti a quel corso: "Oggi pare che si sia perso il "senso del peccato", ma in compenso sono aumentati i "complessi di colpa"". La sollecitudine di questo dicastero è far riscoprire il senso del peccato e ridurre i complessi di colpa, e di mettere al contempo in rilievo gli aspetti sociali di tale risposta che non possono che contribuire a rapporti più sereni e fecondi. Il che avrà luogo attraverso una seria presa di coscienza della nostra condotta troppo superficiale e simultaneamente attraverso la riscoperta del volto misericordioso di Dio. È il duplice obiettivo che la Penitenzieria Apostolica si propone con le sue iniziative. Tra queste iniziative, di grande respiro, è il secondo Simposio a fine anno - dal 4 al 5 novembre - sul tema "La Penitenzieria tra il primo e il secondo millennio", dopo il primo incontro internazionale, celebrato nel gennaio dello scorso anno intorno ai percorsi storici, giuridici, teologi e alle prospettive pastorali.

Il tema del messaggio di Benedetto XVI per la Quaresima è: "La giustizia di Dio si è manifestata per mezzo della fede in Cristo". Qual è secondo lei il senso di questo testo paolino?

La giustizia, di cui parla Paolo, sulla quale il Santo Padre ci invita a riflettere in occasione della Quaresima di quest'anno, non è quella retributiva, proporzionata alle opere umane, ma quella che viene concessa gratuitamente a tutti i credenti, senza differenze di statuti etnico-religiosi. La giustizia o meglio la giustificazione non dipende dalle opere dell'uomo, ma dalla morte di Cristo, alla quale corrispondiamo con la nostra fede. Evento-Cristo e fede, come accoglimento: questi i due momenti attraverso cui si realizza la nostra giustizia. Dunque, si tratta di una giustizia unica nel suo genere, priva di confronti, perché tutta favorevole al peccatore, e dunque estranea ai presupposti delle comuni categorie umane. Questa giustizia non è da attendere, perché si è già "manifestata" in Cristo. Occorre solo disporci a farci lavare da questo sangue che sgorga dalla Croce.

Ha senso parlare di penitenza all'uomo di oggi o parlare di digiuno nel periodo quaresimale? Cosa differenzia quest'ultimo dalla dieta così di moda?

Il digiuno quaresimale è per il potenziamento dello spirito, mentre la dieta è per lo snellimento del corpo. Sono due prospettive, una interiore e una esteriore, una riguarda il nostro rapporto con Dio, l'altra riguarda l'immagine che vogliamo lasciare negli altri. Non è arduo cogliere l'asimmetria tra il digiuno quaresimale e la dieta dimagrante.

Di fronte al dilagare dell'edonismo e dell'egoismo, cosa può indicare un confessore per far crescere nelle coscienze l'attenzione ai bisogni degli altri?

L'edonismo è un modo di interpretare la vita, senza profondità, e l'egoismo una chiusura di sé in sé, senza luce e senza futuro. Il confessore ha il compito di aprire le coscienze e di renderle partecipi delle necessità del prossimo, cercando di fare capire che chi dà non si impoverisce, ma si arricchisce. Resta vero che "si riceve donando". È questa la grande esperienza che il penitente è chiamato a fare sotto la guida illuminata del confessore.

La necessità di dare un'anima etica all'economia è stata più volte raccomandata dal Papa. Quali penitenze dovrebbe fare chi si macchia di peccati che danneggiano i beni comuni dei cittadini?

Dare un'anima etica all'economia è ormai un precetto per tutti. Le conseguenze disastrose di un'economia che persegue il puro profitto sono davvero devastanti. Quanti non favoriscono il bene comune e non operano per incrementarlo, più che ricevere delle particolari penitenze, devono essere indotti a rendersi conto dell'impoverimento della propria coscienza morale e insieme della vita civile che causano e quindi della distorsione dei rapporti sociali che provocano. Qui il problema è il cambio di prospettiva o, meglio, di un'autentica "metanoia" o mutamento del modo di leggere la realtà. È questa la grande penitenza a cui occorre sottoporre chi lascia cadere l'invito del Papa a porre l'economia sui binari del bene comune.

Vi è una maggiore sensibilità tra i fedeli nei confronti dei peccati sociali: evasione delle tasse, frodi, truffe sul lavoro, inquinamento colpevole dell'ambiente. Secondo lei ciò avviene a scapito dell'attenzione rivolta ai peccati individuali?

La particolare sensibilità per i cosiddetti peccati sociali è indice di un cambio di sensibilità e dunque una crescita di responsabilità. Il che non significa che ci sia minore attenzione per i peccati cosiddetti tradizionali. Si tratta invece di una interpretazione di questi in chiave sociale. Infatti, i peccati hanno sempre delle conseguenze che vanno oltre il circuito della nostra esistenza individuale. Oggi la vita privata è giudicata in questo nuovo registro, e ciò in rapporto ai riflessi sulla vita degli altri o in genere, in relazione al pianeta. Il grande dovere che incombe su tutti è che occorre vivere in modo da garantire a quanti vengono dopo di noi una vita dignitosa e possibilmente più ricca di possibilità della nostra. Questo sguardo al futuro sta penetrando lentamente nel cuore dei cristiani.

Si celebra l'Anno sacerdotale, occasione per riscoprire l'importanza del sacramento della confessione. Quanto tempo ed energie dovrebbero dedicare i preti alla confessione?

L'Anno sacerdotale è propizio per l'approfondimento del sacramento della penitenza. In realtà, l'obiettivo primario che occorre perseguire è la consapevolezza che chi vive in pace con Dio vive in pace con se stesso e con gli altri. Il sacramento della penitenza riguarda questo aspetto profondo del nostro essere, in grado di assicurare questa pace o quiete spirituale, quale premessa per una vita personale e sociale fruttuosa e produttiva. Rimane alla solerzia del pastore, nelle molteplici sollecitazioni ministeriali, dare un tempo privilegiato al confessionale. Dopo l'Eucaristia, questo è l'obbligo prioritario del sacerdote e la consolazione più alta che possa avere e donare.


(©L'Osservatore Romano - 11 marzo 2010)

Il mistero di una chiesa abitata da peccatori, ma senza peccato. Il teologo Cottier spiega perché le polemiche di questi giorni non sono inedite.

Forse non è il caso di scomodare i Borgia
per una vicenda intrisa di piccole
vanità, ripicche e carrierismo. Grazie a
Dio, i pugnali sono solo metaforici anche
se la caduta di stile ha fatto arricciare il
naso a un colonnello della vecchia guardia
diplomatica come Achille Silvestrini,
braccio destro di Agostino Casaroli (“Ai
nostri tempi non sarebbe mai successo”).
In qualche commentatore, però, il ricorso
agli intrighi della Grande Babilonia papalina
è la premessa per un appassionato richiamo
alla purezza della fede, finalmente
sciolta da vincoli istituzionali. Sarebbe
infatti troppo pesante, per il credente di
oggi, il fardello della chiesa post tridentina
con i suoi occhiuti tribunali della coscienza,
i confessionali, e tutto l’enorme
apparato di controllo dispiegato da una
christianitas ormai tramontata. Meglio affrancarsi
il più possibile – ragiona un certo
cattolicesimo corrivo e sfiduciato – da
una struttura in cui la grazia e il peccato
sono pericolosamente mescolati.
Ecco, la chiesa vergine e puttana, casta
meretrix. L’ossimoro è usato spesso in questi
giorni per far intendere che queste bagattelle
di cronaca vaticana sono la riprova
che, in fondo, la chiesa è sempre stata
così: Francesco d’Assisi e le crociate, l’inquisizione
e Savonarola, Marcinkus e Madre
Teresa. Come se santi e peccatori si
annullassero a vicenda, due piatti della bilancia
in perfetto equilibrio. Una banale
simmetria che elude la sostanza teologica
del discorso. Ce la spiega il domenicano
George Cottier, cardinale e teologo emerito
della casa pontificia. “Casta meretrix è
un’espressione che risale ai Padri della
chiesa rimessa in circolazione da Hans
Urs von Balthasar; anche il cardinale Biffi
ha scritto un testo interessante sul tema.
Più precisamente, è la rilettura che
sant’Ambrogio fa di un passo dell’Antico
Testamento: la prostituta che accoglie gli
esploratori inviati da Giosuè in avanscoperta
nella Terra promessa è la figura della
chiesa fatta di peccatori ma che, in
quanto tale, è santa. Su questo sono d’accordo
con Charles Journet: la chiesa non è
senza peccatori ma è senza peccato.
Journet aggiungeva che la frontiera
della chiesa attraversa il nostro
cuore. In questo trovo una
certa corrispondenza con quanto
ha scritto Giovanni Paolo II
nella ‘Tertio millennio adveniente’,
laddove parla
della domanda di perdono
della chiesa per i
peccati dei cristiani.
La vita cristiana comporta
la testimonianza,
cioè vivere secondo il
Vangelo e la grazia di
Cristo. Se non c’è testimonianza c’è scandalo.
Il grande predicatore Bossuet diceva
che la chiesa è ‘Jésus-Christ répandu et
communiqué’, Gesù Cristo diffuso e comunicato.
Il peccato come tale, quindi, è offesa
a Cristo e alla chiesa, è un’infedeltà”.
Chiedere mea culpa alla chiesa è però
diventata una moda. “Quando facevo parte
della commissione che se ne occupava –
ricorda Cottier – abbiamo organizzato convegni
sull’antisemitismo e sull’inquisizione.
Ebbene, uno storico ci disse: non si
chiede perdono dei miti ma della realtà.
Ma per farlo ci vuole un’analisi storica seria.
Ciò che oggi non accettiamo non sempre
è stato peccato. Il criterio di discernimento
non è l’epoca storica ma il Vangelo”.
La chiesa a volte sembra non sia fiera
della propria storia. “Certo, la fierezza è
una virtù e noi dobbiamo sentirci fieri di
essere cristiani, anche se siamo sempre in
difetto di fronte a questa vocazione. La rilettura
seria della storia aiuta molto la
chiesa a fare progressi, in senso escatologico:
approfondire le esigenze del Vangelo.
E’ questo che insegnano
le vite dei santi”. Eppure
l’opinione pubblica è scettica,
e a volte lo sono anche
i cristiani. “Certo alcuni
mettono l’accento più
su meretrix che su casta… –
sorride il cardinale ginevrino
– anche se Ambrogio
non intendeva questo.
La grazia di Cristo
raggiunge tutti. Essere
cristiani è vivere un
cammino continuo di conversione.
La fierezza cristiana
non è orgoglio né arroganza ma testimonianza
di valori che stanno sopra di noi”.
E poi il Novecento ha crudelmente dimostrato
come ci siano altri che devono fare
mea culpa. Invece c’è una cultura che
non ha fatto i conti con la radice illuminista
delle tragedie totalitarie, un’eclissi di
Dio pagata a caro prezzo, come ha ricordato
qualche tempo fa Benedetto XVI.
Cottier osserva come “Giovanni Paolo II
ha pensato alla chiesa, ma anche nell’ordine
politico si deve fare qualcosa di analogo.
La comunità deve ripensare il proprio
passato, altrimenti è destinata a ripeterlo
nelle sue forme malsane. L’Europa
del secolo scorso ha commesso crimini orrendi,
il nazismo certo ma anche il comunismo.
Ci vuole lucidità sugli sbagli commessi,
sulle complicità e i compromessi.
Non dobbiamo essere prigionieri del passato,
ma non si guarda bene l’avvenire senza
avere una coscienza in ordine davanti
alla storia”.
Le polemiche di questi giorni attorno al
potere ecclesiastico non sono certo inedite.
Storicamente la chiesa ha sempre resistito
alla tentazione di escludere i peccatori
perché rimanessero solo i giusti, i perfetti.
Da qui la condanna di novaziani,
montanisti, donatisti, catari, albigesi, hussiti
fino al pronunciamento vaticano contro
il giansenista Quesnel. Nel post Concilio
il dibattito si è riacceso, sulla formula
casta meretrix hanno scritto due personaggi
antitetici come il cardinale emerito di
Bologna, Giacomo Biffi, e il padre della
scuola di Bologna, Giuseppe Alberigo.
La posta in gioco è la sorte del cristianesimo
nella modernità e oltre, non certo
il trascurabile destino di qualche carriera.
Benedetto XVI, intuendo le possibili distorsioni
della formula “santa e peccatrice”,
preferisce parlare di una chiesa “santa
e composta di peccatori”. L’altroieri ha
messo in guardia dalla “tentazione della
carriera, del potere, una tentazione da cui
non sono immuni neppure coloro che hanno
un ruolo di animazione e di governo
nella chiesa”.
Un richiamo salutare e molto più pratico
di quella specie di donatismo strisciante
che serpeggia nel mondo cattolico e, inconsapevolmente,
nei mass media, per cui
il sacerdote indegno squalifica senza rimedio
il sacro

Il Foglio 5 febbraio 2010

Il digiuno, la preghiera, l’illuminazione, i peccati, la consapevolezza e la confessione

San Nettario di Egina

San Nettario di Egina

Il mezzo adatto per prepararsi alla confessione e alla Santa Comunione, come stabilito dai santi Padri, è certamente il digiuno. Ma un digiuno effettivo, non farisaico; un digiuno cristiano, come delineato dalla Chiesa, che ha come scopo di soggiogare le passioni dell’anima e del corpo, raccogliere la nostra mente dispersa ed elevare la mente dalla bassa materia che attrae tutta la nostra attenzione e che ci preoccupa con cose vane che fanno male all’anima. Ogni cristiano deve, infatti, capire che se non eleva la propria mente e il proprio cuore verso Dio attraverso il digiuno cristiano e la preghiera, se il cuore non si umilia attraverso il digiuno e la lotta, è impossibile per qualcuno raggiungere una consapevolezza che sia profonda del proprio stato peccaminoso, stimare il valore dei propri peccati, chiedere perdono per questi peccati con zelo e desiderio, soddisfare la Giustizia Divina e propiziarsi Dio. Perché dovrebbe esserci noto che noi siamo consci dei nostri peccati nella misura in cui siamo illuminati dall’alto. Siamo illuminati dall’alto nella misura in cui il nostro cuore e la nostra mente sono innalzati a Dio. E siamo innalzati nella misura in cui lo spirito diviene più leggero attraverso il digiuno e la preghiera.

La preghiera e il digiuno, il digiuno cristiano, sono utili a esamire noi stessi, a diagnosticare il nostro reale stato etico, a stimare i nostri peccati, e a capire il loro vero carattere. Senza digiunare e senza pregare noi ci priviamo dei mezzi dell’auto-conoscenza, siamo incapaci di acquisire il vero quadro dei nostri peccati, la completa coscienza e la contrizione del cuore, e conseguentemente, la confessione vera e fruttuosa. Quindi, dal momento che il digiuno cristiano e la preghiera sono l’unico metodo per prepararci alla vera confessione, siamo obbligati a osservare questi comandamenti della Chiesa diligentemente, siamo obbligati a confessare con sincerità, e con fede per riconciliarci con Dio così che manchiamo il traguardo che è il bene ultimo tanto desiderato.

Venite, dunque! Rinunciamo al peccato; restituiamo le cose acquisite con ingiustizia; riconciliamoci con i nostri nemici e realizziamo opere degne di pentimento così che possiamo propiziarci Dio e attrarre la Sua grazia divina, e dunque divenire degni recipienti del Regno Celeste. Che noi tutti possiamo essere trovati degni di esserne eredi. Amen.

San Nettario di Egina
da “Pentimento e confessione”


Il tema del Demonio in Joseph Ratzinger. “Dogma e predicazione”, pp. 189-197



Il Card. Ratzinger argomenta una riposta ad H. Haag, offrendo nello stesso tempo il criterio di come utilizzare positivamente il metodo storico - critico in un orizzonte, però, propriamente teologico cioè di fede.
Tesi di H. Haag:
  • “Noi abbiamo compreso che nel Nuovo Testamento il concetto di diavolo sta semplicemente al posto del concetto di peccato”.
  • Il diavolo altro non è che l’immagine del peccato in una visione del mondo che facilmente accettava l’azione di esseri invisibili negativi.
  • Haag critica Paolo come uno che legge la Scrittura in modo troppo letterale e che ancora non si è liberato da vecchi pregiudizi culturali passati.
  • “Nel significato delle forme giudaiche di pensiero di allora il diavolo appare nel Nuovo testamento come l’esponente del male. Gesù e gli apostoli si muovono entro queste forme di pensiero allo stesso modo del loro ambiente”.
  • Questa forma di vedere (che accetta i demoni come realtà esistenti) “non è più conciliabile con la mentalità secolarizzata contemporanea e quindi, va rifiutata”.


Risposta del Card. Ratzinger:
  • Non si può negare la massiccia testimonianza sul diavolo del Nuovo Testamento.
  • La negazione di Haag non poggia su criteri interni esegetici ai testi dell’Antico Testamento, ma su un criterio esterno: “questo modo di pensare non è conciliabile con i criteri odierni”.
  • In realtà molte forme di pensiero del Nuovo testamento non sono più conciliabili con il pensiero odierno. Forse anche la stessa idea di Dio è per alcuni inconciliabile con il mondo contemporaneo di pensare. Dobbiamo allora rinunciare alla fede in Dio, assolutizzando la mentalità contemporanea?
  • C’è talvolta la paura di “altri casi Galileo”. Ma spesso sono molto più dannosi per la Chiesa criteri conformistici.


L’Antico Testamento ha solo valore in unione con il Nuovo e il Nuovo Testamento dischiude il suo contenuto nel suo riferirsi all’Antico. Ad es. Genesi 1,1 va letto alla luce di Gv 1,1: “All’inizio era il Verbo”, la Ragione creativa personale: lettura cristologica della creazione. Nel Nuovo Testamento si trova una intensificazione della figura del diavolo e la ragione è che l’Antico Testamento vuole salvaguardare la fede monoteista dal rischio di una fede in potenze demoniache.
La lotta contro il diavolo appartiene al nucleo della vita religiosa di Gesù. Egli è venuto a distruggere le opere del diavolo (1 Gv 3,8). Ritiene la lotta contro i demoni la parte centrale della sua missione (Mc 1,35-39). Gli Apostoli sono inviati a cacciare i demoni (Mc 3, 14s). “La figura di Gesù - argomenta Ratzinger -, la sua fisionomia spirituale non cambia se il sole gira intorno alla terra oppure se la terra si muove attorno al sole, se il mondo è formato per evoluzione oppure no, ma viene decisamente cambiata, se si esclude da essa la lotta con la sperimentata potenza del regno dei demoni”.
Il Battesimo cristiano introduce l’uomo nel modo di esistenza di Gesù come figli nel Figlio per opera dello Spirito Santo e nel Battesimo, come nella Cresima, si richiede una esplicita rinuncia a Satana. “Se si volesse - sempre Ratzinger - annullare la realtà della potenza demoniaca, si cambierebbe il battesimo e con esso la realizzazione della vita cristiana (p.185). L’esperienza dei santi parla di questa lotta con i demoni come in Gesù, descritta in forme diverse.
Nella richiesta quotidiana del Padre nostro, c’è “liberaci dal male-Maligno”. Il diavolo vuole ostacolare il disegno di Dio e della sua opera di salvezza e ognuno ne fa quotidianamente esperienza. Chi si affida a Dio non teme il diavolo. Cristo sulla croce ha vinto in modo definitivo il diavolo. La Chiesa partecipa alla vittoria di Cristo sul diavolo: “La Chiesa esercita tale potere vittorioso mediante la fede in Cristo e la preghiera, che in casi speciali può assumere la forma di esorcismo” (Giovanni Paolo II). La storia continua sotto l’influsso dello spirito ribelle (Ef 2,2) e “man mano che se ne avvicina il termine, diventa in certo senso, più violenta”. Ma il trionfo definitivo è dalla parte di Cristo.


Gli Apostoli e i discepoli di Gesù, all’origine della Chiesa, annunciatori del bene ed esorcisti del male
L’insegnamento della Chiesa sulla presenza del male richiede da noi la fede in Dio, Signore del mondo e della storia, accompagnata dalla convinzione che le vie della sua provvidenza, da cui viene solo il bene, spesso ci rimangono sconosciute: Solo alla fine, quando avrà termine la nostra conoscenza imperfetta e vedremo Dio “faccia a faccia” (1 Cor 13, 12), conosceremo pienamente le vie lungo le quali, anche attraverso i drammi del male e del peccato, Dio avrà condotto la sua creazione fino al riposo di quel Sabato definitivo, in vista del quale ha creato il cielo e la terra (CCC 314).
Benedetto XVI nel suo libro Gesù di Nazaret, ha affrontato due volte il tema del male, offrendoci una straordinaria pagina di lettura attualizzante della Scrittura e dell’insegnamento di Gesù al riguardo.
Parlando della chiamata dei Dodici, il Papa rivela che Gesù istituisce i Dodici, la Chiesa con una duplice destinazione: per stare con Lui e quindi per mandarli ad annunciare il bene ed esorcizzare cioè liberare dal male: “Devono stare con Lui per conoscerlo; per giungere a quella conoscenza di Lui che non poteva dischiudersi alla “gente”, che lo vedeva solo dall’esterno e Lo considerava un profeta, un grande della storia delle religioni, ma non poteva percepire la sua unicità (Mt 16,13ss). I Dodici devono stare con Lui per conoscere Gesù nel suo essere uno con il Padre e poter così diventare testimoni del suo mistero. Devono essere stati con Lui - come dirà Pietro prima dell’elezione di Mattia - “per tutto il tempo in cui il Signore Gesù ha vissuto in mezzo a noi” (At 1.8.21). Verrebbe da dire: dalla comunanza esteriore devono arrivare alla comunione interiore con Gesù” (pp. 206-207).
“Diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e d’infermità” (Mt 10,1). Il primo incarico è quello di predicare: donare agli uomini la luce della Parola, il messaggio di Gesù. Gli apostoli sono innanzitutto evangelisti” (p. 207).
Lo stare con Gesù, allora nella sua fase terrena oggi da crocifisso risorto, prepara i discepoli alla missione, perché essere con Gesù, lasciarci assimilare a Lui nell’amore comporta la dinamica della missione. E la finalità di questa missione è l’annuncio del Vangelo, far incontrare sacramentalmente, liturgicamente, la Persona del Risorto con il conseguente dono dello Spirito, con il potere di scacciare i demoni cioè esorcizzare, liberare dal male: “Diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e di infermità” (Mt. 10,1). Prega e curati! Non pregare soltanto occorre anche curarsi, non solo curarsi ma anche pregare!
Il primo incarico è quello di donare agli uomini Gesù che parla e la possibilità sacramentale di incontrarlo col dono dello Spirito del Risorto. Quindi gli apostoli sono tutti evangelisti e sacerdoti. E la Persona del risorto che parla attraverso il loro annuncio, la mediazione della Scrittura per giungere all’incontro sacramentale e quindi al dono dello Spirito del Risorto, oltre che illuminare la mente con la verità del Dio vivente che parla e agisce qui e ora come parlava e agiva allora, è anche una lotta contro il male da ogni parte venga: “Poiché il mondo è dominato dalle potenze del male, questo annuncio è allo stesso tempo una lotta contro queste potenze. “I messaggeri di Gesù mirano, al suo seguito, ad una esorcizzazione (o liberazione) del mondo, alla formazione di una nuova forma di vita nello Spirito Santo, che liberi dall’ossessione diabolica. Di fatto, il mondo antico ha vissuto l’irruzione della fede cristiana come liberazione dalla paura dei demoni, una paura che nonostante lo scetticismo e l’illuminismo dominava tutto; e lo stesso accade anche oggi ovunque il cristianesimo prende il posto delle antiche religioni tribali e, trasformando i loro elementi positivi, li assume in sé. Si sente tutto l’impeto di questa irruzione nelle parole di Paolo, quando dice: “Nessuno è Dio se non uno solo. E in realtà, anche se vi sono cosiddetti dèi sia nel cielo sia sulla terra, e difatti ci sono molti dèi e molti signori, per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per Lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per Lui” (1 Cor 8,4ss). In queste parole c’è un potere liberatorio - il grande esorcismo che purifica il mondo. Per quanti dèi possano fluttuare nel mondo - Dio è uno solo e uno solo è il Signore. Se apparteniamo a Lui, tutto il resto non ha più potere, perde lo splendore della divinità” (pp. 207-208).
“Esorcizzare” per Benedetto XVI significa collocare il mondo nella luce della retta ratio che proviene dall’eterna Ragione creatrice e risanatrice attraverso soprattutto la preghiera: “San Paolo nella Lettera agli Efesini, ha descritto una volta, da un’altra prospettiva, questo carattere esorcistico (liberatorio) del cristianesimo, dicendo: “Attingete forza nel Signore e nel vigore della sua potenza! Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” (Ef 6,10-12). Heinrich Schlier ha spiegato così questa rappresentazione della lotta del cristiano, che oggi ci appare sorprendente o anche strana: “I nemici non sono questo o quell’altro e nemmeno io stesso, non sono carne e sangue (…), il contrasto va più nel profondo. Si rivolge contro una quantità innumerevole di nemici che sono instancabilmente all’attacco, avversari non ben definibili che non hanno veri nomi, ma solo denominazioni collettive; sono anche a priori superiori all’uomo e questo per la loro posizione superiore, per la loro posizione “nei cieli” dell’esistenza, superiori anche per l’impenetrabilità e l’inattaccabilità della loro posizione. La loro posizione è, appunto, “l’atmosfera” dell’esistenza, una atmosfera che essi stessi diffondono intorno a sé, essendo infine tutti ricolmi di una malvagità sostanziale e mortale” (p. 291).
Il Papa parla di una atmosfera malvagia per cui è assurdo pensare a Dio; è assurdo osservare i comandamenti di Dio; è superstizione pensare al demonio, a preghiere di liberazione; sono cose del passato. Vale soltanto vivere la vita per sé. Prendere in questo breve momento della vita tutto quanto ci è possibile prendere. Vale solo il consumo, l’egoismo, il divertimento. Questa è la vita. Così dobbiamo vivere poiché siamo un semplice prodotto della natura, e come tale non realmente libero e suscettibile di essere trattato come ogni altro animale. L’etica viene ricondotta al relativismo e all’utilitarismo, con l’esclusione di ogni principio morale che sia valido e vincolante per se stesso. Il male oggi non è solo azione di singoli o di gruppi ben individuabili, non proviene solo dai limiti della natura corporea, psichica, ma proviene da centrali oscure, da laboratori di opinioni false, da potenze anonime che martellano le nostre menti con messaggi falsi potenziati dai mass media, giudicando ridicolo e retrogrado un comportamento non solo conforme al Vangelo ma anche semplicemente religioso. Quale urgenza di esorcizzare, di liberare il mondo per quella speranza di cui non possiamo far a meno.
“E chi non vedrebbe che ci sono avvelenamenti mondiali del clima spirituale che minacciano l’umanità nella sua dignità, addirittura nella sua esistenza? La singola persona, anzi, le stesse comunità umane sembrano irrimediabilmente abbandonate all’azione di queste potenze. Il cristiano sa che, da solo, neppure lui può riuscire a dominare questa minaccia. Ma nella fede, nella comunione con l’unico vero Signore del mondo, gli è donata “l’armatura di Dio”, con cui - nella comunione dell’intero Corpo di Cristo (che è la Chiesa) - può opporsi a queste potenze, sapendo che il Signore ci restituisce nella fede l’aria depurata da respirare - il soffio del Creatore, il soffio dello Spirito Santo, nel quale soltanto il mondo può essere risanato” (p.210).
Oltre il compito di esorcizzare o liberare da questo potere malefico satanico, i discepoli hanno anche la missione di guarire ogni sorta di malattie e infermità (Mt 10,1), pregando e curando. Il cristianesimo ha anche una componente terapeutica, di guarigione dal male fisico: “Il potere di scacciare i demoni e di liberare il mondo dalla loro oscura minaccia in vista dell’unico e vero Dio - questo potere esclude al contempo ogni concezione magica della guarigione, in cui si cerca di servirsi proprio di queste potenze misteriose. Le guarigione magiche sono sempre legate anche all’arte di volgere il male contro il prossimo e di mettergli i “demoni” contro. Signoria di Dio, regno di Dio significa propriamente l’esautoramento di queste forze mediante il sopraggiungere dell’unico Dio, che è buono, il Bene in persona” (p. 211).

La preghiera del cristiano: “Ma liberaci dal male-Maligno”
La preghiera del cristiano, “questione di vita o di morte”, è l’invocazione al Padre misericordioso di essere liberati cioè esorcizzati dal male e dal tentatore, che è il maligno. Come Gesù, anche il cristiano è soggetto alla tentazione, agli assalti quotidiani e alle persecuzioni a lungo termine del drago dell’Apocalisse (cap. 12-13), della “bestia” uscita dal mare, salita dagli oscuri abissi del male, con gli attributi del potere politico assoluto.
Per non essere ingoiati da questo moloch vorace e maligno, il cristiano deve pregare con tutte le sue forze: Signore, liberaci dal male, liberaci dal maligno.
A questo proposito - sottolinea mons. Angelo Amato in un suo intervento pubblicato in Cristianità,n. 341-341, da cui abbiamo tratto queste riflessioni -, nel capitolo quinto del suo libro, il Papa annota: “Anche se l’impero romano e le sue ideologie non esistono più - quanto è ancora attuale tutto ciò! Anche oggi ci sono, da un lato, le potenze del mercato, del traffico di armi, di droghe e di uomini - potenze che gravano sul mondo e trascinano l’umanità in vincoli ai quali non ci si può sottrarre. Anche oggi c’è, dall’altro lato, l’ideologia del successo, del benessere, che ci dice: Dio è solo una finzione, ci fa solo perdere tempo e ci toglie la voglia di vivere. Non ti preoccupare di Lui! Cerca da solo di carpire la vita quanto puoi! Anche a queste tentazioni sembra impossibile sottrarsi. Il Padre nostro nella sua interezza, e questa domanda in particolare, vogliono dirci: solo quando hai perduto Dio, hai perduto te stesso; allora sei ormai soltanto un prodotto casuale dell’evoluzione. Allora il “drago” ha vinto davvero. Finché egli non riesce a strapparti da Dio, tu, nonostante tutte le sventure che ti minacciano, sei ancora rimasto intimamente sano…Questo dunque chiediamo nel più profondo: che non venga strappata la fede che ci fa vedere Dio, che ci unisce a Cristo. Chiediamo che per i beni non perdiamo il Bene stesso; che anche nella perdita dei beni non vada perso per noi il Bene, Dio; che non andiamo persi noi: liberaci dal male!” (pp. 198-199). Il Papa si richiama al commento del Padre nostro di san Cipriano, il vescovo martire, che dovette sostenere di persona la situazione descritta nell’Apocalisse: “Quando diciamo “liberaci dal male”, non resta niente che dovremmo ancora oltre ciò chiedere. Una volta ottenuta la protezione chiesta contro il male, noi siamo sicuri e custoditi contro tutto ciò che diavolo e mondo possono mettere in atto. Quale paura potrebbe ancora sorgere dal mondo per colui, il cui protettore nel mondo è Dio stesso?” (p. 199).
E’ la fiducia che ha sostenuto i martiri e che san Paolo ha espresso con queste straordinarie parole: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?...Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?...In tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,31-39).
Nella preghiera quindi oltre a confermare la nostra obbedienza alla sua divina volontà, noi chiediamo al Padre celeste anche di porre un limite alle tribolazioni e ai mali che devastano il mondo e la nostra vita. Anzi nella liturgia romana, questa domanda “liberaci dal male”viene ulteriormente ampliata e specificata: “Liberaci, o Signore, da tutti i mali, passati, presenti e futuri. Per l’intercessione di tutti i santi, concedi la pace ai nostri giorni, affinché, con l’aiuto della tua misericordia, viviamo sempre liberi dal peccato e sicuri da ogni turbamento”.
Conclude il Papa: “Si percepisce l’eco delle necessità in tempi turbolenti, si percepisce il grido per una redenzione completa. Questo “embolismo”, con cui nelle liturgie viene rafforzata l’ultima domanda del Padre nostro, mostra l’aspetto umano della Chiesa. Sì, noi possiamo, noi dobbiamo pregare il Signore anche di esorcizzare cioè di liberare il mondo, noi stessi e i molti uomini e popoli sofferenti dalle tribolazioni che rendono la vita quasi insopportabile” (p. 200).


La libertà dalla paura dei demoni portata dal cristianesimo
In occasione del IX Convegno Internazionale degli esorcisti a Collevalenza dal 14 al 18 luglio 2008 risuonano profetiche e ammonitrici le parole dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, oggi papa Benedetto XVI: “La cultura atea dell’Occidente moderno vive ancora grazie alla libertà dalla paura dei demoni portata dal cristianesimo. Ma, se questa luce redentrice del Cristo dovesse spegnersi, pur con tutta la sua sapienza e con tutta la sua tecnologia, il mondo ricadrebbe nel terrore e nella disperazione: ci sono segni di questo ritorno di forze oscure, mentre crescono nel mondo secolarizzato i culti satanici”.
Perché oggi si irride chi parla di Satana e dell’Inferno, di esorcismi e di preghiere di liberazione ma si affollano come non mai maghi e astrologhi, sette sataniche ed esoteriche?
Possiamo affermare che, grazie alla presenza ecclesiale, sacramentale della Persona di Gesù Cristo risorto e alla sua potenza operante nella preghiera di liberazione e negli esorcismi, la cultura dell’Occidente è stata liberata sia dalla paura, sia dal dominio dei demoni che Egli è venuto a debellare e a sconfiggere. Chi vuole che non si parli più di Satana e di diavoli, di preghiere di liberazione e di esorcismi, anzi che non vengano più praticati, data la cultura secolarizzata, in realtà favorisce nuovamente il diffondersi di una cultura di paura e di dominio di Satana, dal quale Cristo è venuto a liberarci insegnandoci a pregare ogni giorno, soprattutto nella celebrazione eucaristica: non indurci, non abbandonarci nella tentazione, liberaci dal Male-Maligno. Nella preghiera di liberazione di tutti i sacramenti, della confessione in particolare, negli esorcismi sacramentali, il potere delle tenebre è annientato da Colui che è la vera luce e la vera pace del mondo. Ecco perché la preghiera di liberazione, l’attività esorcistica è per Gesù un’attività di estrema importanza: sciogliendo l’umanità dalla schiavitù di Satana, Cristo che era esorcista e il Vangelo documenta numerose liberazioni che egli ha operato a beneficio degli indemoniati dando agli apostoli il potere di cacciare i demoni, dimostra, infatti, di essere il Signore della vita attraverso il dono di Lui risorto cioè lo Spirito santo, immagine dello splendore del Padre, il Liberatore e il Redentore degli uomini. Questa è la visione obiettivamente cristiana della vita di ogni uomo e della storia; “ora - scrive mons. Luigi Negri nella Prefazione al libro di Francesco Bamonte Gli Angeli Ribelli che consiglia a tutti, ai sacerdoti in particolare -, non c’è concezione cristiana esatta della vita dell’uomo e della storia cristiana se si oblitera un particolare fondamentale come quello del centro dell’opposizione all’avvenimento di Cristo che permane nella storia, non più certo, con la possibilità di vincere che ha avuto prima dell’incarnazione del Signore, ma per la possibilità che egli largamente esercita di contestare e rendere difficoltosa l’affermazione della gloria di Cristo risorto nella storia… Con la paura del devozionismo, dello psicologismo, del riduzionismo spirituale … noi corriamo il rischio di perdere la natura profonda e cattolica della fede e di non averne una visione adeguata; proprio l’assenza di questa visione adeguata ci rende poi particolarmente vulnerabili nei confronti della storia. Non è un caso che sia questa difficoltà di tipo culturale ad avere chiaro il valore di Satana e della sua azione contro Cristo e contro il mondo, che rende poi il popolo cristiano così subalterno a questo tremendo proliferare di sette deviate, di forme deviate di cristianesimo fino a un satanismo a buon mercato che comunque è un satanismo che si sta diffondendo a larghissime ondate e che condiziona certamente la vita dei giovani italiani, almeno tanto quanto la tradizione cristiana”. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ricorda che l’esistenza degli angeli e dei demoni “è una verità di fede”. La testimonianza della Sacra Scrittura è tanto chiara quanto l’unanimità della Tradizione (CCC 328). Il Magistero ecclesiastico su questi problemi è stato capace di conservare una continuità dinamica o Tradizione, valorizzando argomentazioni diverse e una straordinaria unità intellettuale e morale come ha saputo sintetizzare C. Vagaggini ne Il senso teologico della liturgia, pp. 303-304: “Concretamente e storicamente parlando, il male morale e fisico si è abbattuto sull’uomo non già per semplice effetto della sua disobbedienza, ma per effetto della volontà dell’uomo stesso dietro l’istigazione e l’influsso di Satana. Il peccato si colloca non nella cornice di una generica lotta tra il bene e il male, ma nello scontro tra Dio e Satana, tra il regno di Dio e il regno di Satana. Lo stato di spoliazione dei beni della grazia e dei doni preternaturali, in cui l’uomo è caduto per influsso di Satana, è uno stato di vero peccato, di vera avversione a Dio e di schiavitù sotto la potestà di Satana. Ogni conseguenza del peccato, alla quale tuttora noi sottostiamo, è sempre esercizio del potere di Satana sopra il mondo e sopra di noi. Tale signoria si evidenzia non solo nei nostri peccati personali, ma anche in tentazioni di ogni sorta, in persecuzioni, tribolazioni, influssi nocivi degli elementi infraumani, infortuni, malattie di ogni genere, morte. Nell’infinita scala dei mali fisici, psichici, morali, che noi subiamo, e a cui è sottoposto il mondo, si manifesta effettivamente l’influsso di Satana, il suo potere, la sua lotta incessante contro il regno di Dio. L’uomo, in virtù della grazia e dei doni preternaturali, nel paradiso terrestre godeva dell’immunità da tutti questi mali. La stessa redenzione di Cristo ci ridona la grazia, ma non ancora i doni preternaturali; ci reintegra nuovamente sin d’ora nelle file del regno di Dio, ma non ci sottrae ancora alla lotta e al possibile influsso di Satana e dei suoi “satelliti”. Tale influsso si esercita ogni volta che ci colpisce un qualsiasi male, fisico o morale. La nostra lotta non è solo contro la carne e il sangue, ma - ci ricorda san Paolo - anzitutto contro Satana e contro gli spiriti ribelli, che operano anche attraverso le molestie che la carne e il sangue ci infliggono. Dietro ogni male fisico e morale che ci colpisce si cela effettivamente l’influsso personale di Satana”.
Da parte di chi esercita il ministero dell’esorcismo come di chi parla e scrive sull’esorcismo c’è il rischio, analogo alla riduzione individualistica moderna della speranza cristiana, di restringere l’azione di Satana e dei suoi diavoli sugli effetti personali senza l’attenzione sulla storia, soprattutto oggi. Nel momento in cui san Giovanni scrisse l’Apocalisse il potere senza grazia, senza amore, dell’egoismo assoluto, del terrore, della violenza di Satana, del Dragone, come egli lo chiama, si inseriva nel potere degli imperatori romani anticristiani, da Nerone a Domiziano. “Vediamo - ha osservato Benedetto XVI nell’omelia dell’Assunta del 2007 - di nuovo realizzato questo potere, questa forza del dragone rosso nelle grandi dittature del secolo scorso: la dittatura del nazismo e la dittatura di Stalin avevano tutto il potere, penetravano ogni angolo, l’ultimo angolo. Appariva impossibile che, a lunga scadenza, la fede potesse sopravvivere davanti a questo dragone così forte, che voleva divorare Dio fattosi bambino e la donna, la Chiesa. Ma in realtà, anche in questo caso alla fine l’amore fu più forte di lui. Anche oggi esiste il dragone in modi nuovi. Esiste nella forma di ideologie materialiste che dicono: è assurdo pensare a Dio; è assurdo osservar i comandamenti di Dio; è cosa del tempo passato. Vale soltanto vivere la vita per sé. Prendere in questo breve momento della vita tutto quanto ci è possibile prendere. Vale solo il consumo, l’egoismo, il divertimento. Questa è la vita. Così dobbiamo vivere. E di nuovo, sembra assurdo, impossibile opporsi a questa mentalità dominante, con tutta la forza mediatica propagandistica. Sembra impossibile oggi ancora pensare a un Dio che ha creato l’uomo e che si è fatto bambino e che sarebbe il vero dominatore del mondo. Anche adesso questo dragone appare invincibile, ma anche adesso resta vero che Dio è più forte del dragone, che l’amore vince e non l’egoismo”. Solo questa fede libera, salva.
Avere chiaro culturalmente il ruolo di Satana e della sua azione contro Cristo su ogni persona e sulla storia, pregare sapendo e pensando cosa significa non abbandonarci alla tentazione, liberaci dal Male-Maligno a livello personale e storico, vuol dire evitare di cadere nel terrore e nella disperazione e liberare il mondo secolarizzato da un satanismo a buon mercato e i giovani da un condizionamento pericoloso nell’ambito educativo.

Il problema del male e la salvezza cristiana. A partire da testi dell’allora cardinal J.Ratzinger

La chiesa non si da vita da sola: creazione e peccato originale

L'uomo non si fida di Dio. Egli, tentato dalle parole del serpente, cova il sospetto che Dio, in fin dei conti, gli tolga qualcosa della sua vita, che Dio sia un concorrente che limita la nostra libertà e che noi saremo pienamente esseri umani soltanto quando l'avremo accantonato; insomma, che solo in questo modo possiamo realizzare in pienezza la nostra libertà. L'uomo vive nel sospetto che l'amore di Dio crei una dipendenza e che gli sia necessario sbarazzarsi di questa dipendenza per essere pienamente se stesso. L'uomo non vuole ricevere da Dio la sua esistenza e la pienezza della sua vita. Vuole attingere egli stesso dall'albero della conoscenza il potere di plasmare il mondo, di farsi dio elevandosi al livello di Lui, e di vincere con le proprie forze la morte e le tenebre. Non vuole contare sull'amore che non gli sembra affidabile; egli conta unicamente sulla conoscenza, in quanto essa gli conferisce il potere. Piuttosto che sull'amore punta sul potere col quale vuole prendere in mano in modo autonomo la propria vita. E nel fare questo, egli si fida della menzogna piuttosto che della verità e con ciò sprofonda con la sua vita nel vuoto, nella morte. Amore non è dipendenza, ma dono che ci fa vivere. La libertà di un essere umano è la libertà di un essere limitato ed è quindi limitata essa stessa. Possiamo possederla soltanto come libertà condivisa, nella comunione delle libertà: solo se viviamo nel modo giusto l'uno con l'altro e l'uno per l'altro, la libertà può svilupparsi. Noi viviamo nel modo giusto, se viviamo secondo la verità del nostro essere e cioè secondo la volontà di Dio. Perché la volontà di Dio non è per l'uomo una legge imposta dall'esterno che lo costringe, ma la misura intrinseca della sua natura, una misura che è iscritta in lui e lo rende immagine di Dio e così creatura libera. Se noi viviamo contro l'amore e contro la verità – contro Dio –, allora ci distruggiamo a vicenda e distruggiamo il mondo. Allora non troviamo la vita, ma facciamo l'interesse della morte. Tutto questo è raccontato con immagini immortali nella storia della caduta originale e della cacciata dell'uomo dal Paradiso terrestre.
Cari fratelli e sorelle! Se riflettiamo sinceramente su di noi e sulla nostra storia, dobbiamo dire che con questo racconto è descritta non solo la storia dell'inizio, ma la storia di tutti i tempi, e che tutti portiamo dentro di noi una goccia del veleno di quel modo di pensare illustrato nelle immagini del Libro della Genesi. Questa goccia di veleno la chiamiamo peccato originale. Proprio nella festa dell'Immacolata Concezione emerge in noi il sospetto che una persona che non pecchi affatto sia in fondo noiosa; che manchi qualcosa nella sua vita: la dimensione drammatica dell'essere autonomi; che faccia parte del vero essere uomini la libertà del dire di no, lo scendere giù nelle tenebre del peccato e del voler fare da sé; che solo allora si possa sfruttare fino in fondo tutta la vastità e la profondità del nostro essere uomini, dell'essere veramente noi stessi; che dobbiamo mettere a prova questa libertà anche contro Dio per diventare in realtà pienamente noi stessi. Con una parola, noi pensiamo che il male in fondo sia buono, che di esso, almeno un po', noi abbiamo bisogno per sperimentare la pienezza dell'essere. Pensiamo che Mefistofele – il tentatore – abbia ragione quando dice di essere la forza "che sempre vuole il male e sempre opera il bene" (J.W. v. Goethe, Faust I, 3). Pensiamo che patteggiare un po' col male, riservarsi un po' di libertà contro Dio, in fondo, sia bene, forse sia addirittura necessario.
Guardando però il mondo intorno a noi, possiamo vedere che non è così, che cioè il male avvelena sempre, non innalza l'uomo, ma lo abbassa e lo umilia, non lo rende più grande, più puro e più ricco, ma lo danneggia e lo fa diventare più piccolo. Questo dobbiamo piuttosto imparare nel giorno dell'Immacolata: l'uomo che si abbandona totalmente nelle mani di Dio non diventa un burattino di Dio, una noiosa persona consenziente; egli non perde la sua libertà. Solo l'uomo che si affida totalmente a Dio trova la vera libertà, la vastità grande e creativa della libertà del bene. L'uomo che si volge verso Dio non diventa più piccolo, ma più grande, perché grazie a Dio e insieme con Lui diventa grande, diventa divino, diventa veramente se stesso. L'uomo che si mette nelle mani di Dio non si allontana dagli altri, ritirandosi nella sua salvezza privata; al contrario, solo allora il suo cuore si desta veramente ed egli diventa una persona sensibile e perciò benevola ed aperta.
Più l'uomo è vicino a Dio, più vicino è agli uomini.
(Cappella papale nel 40° anniversario della conclusione del Concilio ecumenico Vaticano II, omelia di Sua Santità Benedetto XVI, nella solennità dell’Immacolata concezione della Beata Vergine Maria, giovedì, 8 dicembre 2005)

Il cardinal Ratzinger dice dunque: "Temendo, naturalmente a torto, che l'attenzione sul Padre Creatore possa oscurare il Figlio, certa teologia tende oggi a risolversi in sola cristologia. Ma è una cristologia spesso sospetta, dove si sottolinea in modo unilaterale la natura umana di Gesù, oscurando o tacendo o esprimendo in modo insufficiente la natura divina che convive nella stessa persona del Cristo. Si direbbe il ritorno in forze dell'antica eresia ariana. Difficile, naturalmente, trovare un teologo "cattolico" che dica di negare l'antica formula che confessa Gesù come "Figlio di Dio". Tutti diranno di accettarla, aggiungendo però "in quale senso" quella formula dovrebbe secondo loro essere intesa. Ed è qui che si operano distinzioni che portano spesso a riduzioni della fede in Cristo come Dio. Come già dicevo, sganciata da una ecclesiologia che sia anche soprannaturale, non solo sociologica, la cristologia tende essa stessa a perdere la dimensione del Divino, tende a risolversi nel "progetto-Gesù", in un progetto cioè di salvezza solo storica, umana".
Quanto al Padre come prima Persona della Trinità - continua - la sua "crisi" presso certa teologia è spiegabile in una società che dopo Freud diffida di ogni padre e di ogni paternalismo. Si oscura l'idea del Padre Creatore anche perché non si accetta l'idea di un Dio al quale rivolgersi in ginocchio: si ama parlare solo di partnership, di rapporto di amicizia, quasi tra uguali, da uomo a uomo, con l'uomo Gesù. Si tende poi a mettere da parte il problema di Dio Creatore anche perché si temono (e dunque si vorrebbero evitare) i problemi sollevati dal rapporto tra fede nella creazione e scienze naturali, a cominciare dalle prospettive aperte dall'evoluzionismo. Così, ci sono nuovi testi per la catechesi che partono non da Adamo, dal principio del libro della Genesi; ma partono dalla vocazione di Abramo o dall'Esodo. Ci si concentra cioè solo sulla storia evitando di confrontarsi con l'essere. In questo modo, però - se ridotto al solo Cristo, magari solo all'uomo Gesù - Dio non è più Dio. E difatti, sembra proprio che una certa teologia non creda più a un Dio che può entrare nelle profondità della materia; c'è come il ritorno dell'indifferenza, quando non dell'orrore della gnosi per la materia. Da qui i dubbi sugli aspetti "materiali" della rivelazione, come la presenza reale del Cristo nell'eucaristia, la verginità perpetua di Maria, la risurrezione concreta e reale di Gesù, la risurrezione dei corpi promessa a tutti alla fine della storia. Non è certo per caso che il Simbolo apostolico comincia confessando: "Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra". Questa fede primordiale nel Dio creatore (dunque, un Dio che sia davvero Dio) costituisce come il chiodo a cui tutte le altre verità cristiane sono appese. Se qui si vacilla, tutto il resto cade.

V.Messori: Per tornare alla cristologia, c'è chi dice che essa sia messa in difficoltà anche dalla dimenticanza, se non dalla negazione, di quella realtà che la teologia ha chiamato " peccato originale ". Alcuni teologi avrebbero fatto proprio lo schema di un illuminismo alla Rousseau, con il dogma che è alla base della cultura moderna, capitalista o marxista che sia: l'uomo buono per natura, corrotto solo dalla educazione sbagliata e dalle strutture sociali da riformare. Intervenendo sul " sistema " tutto dovrebbe sistemarsi e l'uomo potrebbe vivere in pace con se stesso e con gli altri.

Il cardinal Ratzinger dice al proposito: "Se la Provvidenza mi libererà un giorno da questi miei impegni, vorrei dedicarmi proprio a scrivere sul "peccato originale" e sulla necessità di riscoprirne la realtà autentica. In effetti, se non si capisce più che l'uomo è in uno stato di alienazione non solo economica e sociale (dunque un'alienazione non risolvibile con i suoi soli sforzi), non si capisce più la necessità del Cristo redentore. Tutta la struttura della fede è così minacciata. L'incapacità di capire e presentare il "peccato originale" è davvero uno dei problemi più gravi della teologia e della pastorale attuali"...

Gli chiedo se il disagio non si manifesti anche a livello linguistico: è ancora adeguata la vecchia espressione, di origine patristica, di "peccato originale"?

"Modificare il linguaggio religioso è sempre molto rischioso. La continuità, qui, è di grande importanza. lo non vedo modificabili le espressioni centrali della fede che derivano dalle grandi parole della Scrittura: ad esempio "Figlio di Dio", "Spirito Santo", "Verginità" e "Maternità divina" di Maria. Concedo invece che possano essere modificabili espressioni come "peccato originale" che, nel loro contenuto, sono anch'esse di diretta origine biblica, ma nell'espressione manifestano già lo stadio della riflessione teologica. In ogni caso, occorre procedere con molta cautela: le parole non sono insignificanti, sono anzi legate in modo stretto al significato. Credo comunque che le difficoltà teologiche e pastorali davanti al "peccato originale"non siano certo solo semantiche ma di natura più profonda".

E cioè?

"In un'ipotesi evoluzionistica del mondo (quella alla quale in teologia corrisponde un certo "theilardismo") non c'è ovviamente posto per alcun "peccato originale". Questo, al massimo, non è che un'espressione simbolica, mitica, per indicare le mancanze naturali di una creatura come l'uomo che, da origini imperfettissime, va verso la perfezione, va verso la sua realizzazione completa. Accettare questa visione significa però rovesciare la struttura del cristianesimo: Cristo è trasferito dal passato al futuro; redenzione significa semplicemente camminare verso l'avvenire come necessaria evoluzione verso il meglio. L'uomo non è che un prodotto non ancora del tutto perfezionato dal tempo, non c'è stata una "redenzione" perché non c'era nessun peccato cui riparare ma solo una mancanza che, ripeto, sarebbe naturale. Eppure, queste difficoltà di origine più o meno "scientifica" non sono ancora la radice della odierna crisi del "peccato originale". Questa crisi non è che un sintomo della nostra difficoltà profonda di scorgere la realtà di noi stessi, del mondo, di Dio. Non bastano di certo, qui, le discussioni con le scienze naturali, come ad esempio la paleontologia, anche se questo tipo di confronto è necessario. Dobbiamo essere consapevoli che siamo di fronte anche a delle precomprensioni e a delle predecisioni di carattere filosofico".

Difficoltà comunque giustificate, osservo, visto l'aspetto davvero "misterioso" del "peccato originale", o come lo si voglia chiamare.

Dice: "Questa verità cristiana ha un aspetto di mistero ma anche un aspetto di evidenza. L'evidenza: una visione lucida, realistica dell'uomo e della storia non può non scoprirne l'alienazione, non può non rivelare che c'è una rottura delle relazioni: dell'uomo con se stesso, con gli altri, con Dio. Ora, poiché l'uomo è per eccellenza l'essere-in-relazione, una simile rottura raggiunge le radici, si ripercuote su tutto. Il mistero: se non siamo in grado di penetrare sino in fondo realtà e conseguenze del peccato originale, è proprio perché esso esiste, perché lo sfasamento è ontologico, sbilancia, confonde in noi la logica della natura, ci impedisce di capire come una colpa all'origine della storia possa coinvolgere in una situazione di peccato comune".

Adamo, Eva, l'Eden, la mela, il serpente... Che dobbiamo pensarne?

"La narrazione della Sacra Scrittura sulle origini non parla alla maniera storiografica moderna ma parla attraverso le immagini. È una narrazione che rivela e nasconde allo stesso tempo. Ma gli elementi fondanti sono ragionevoli e la realtà del dogma va in ogni caso salvaguardata. Il cristiano non farebbe abbastanza per i fratelli se non annunciasse il Cristo che porta la redenzione innanzitutto dal peccato; se non annunciasse la realtà dell'alienazione (la "caduta") e al contempo la realtà della Grazia che ci redime, ci libera; se non annunciasse che per ricostruire la nostra essenza originaria c'è bisogno di un aiuto al di fuori di noi; se non annunciasse che l'insistenza sull'auto-realizzazione, sull'autoredenzione non porta alla salvezza ma alla distruzione. Se non annunciasse, infine, che per essere salvati occorre abbandonarsi all'Amore".
(da Vittorio Messori a colloquio con J.Ratzinger, Rapporto sulla fede, Paoline, Cinisello Balsamo, 1985, pagg.77-82)

La grazia presuppone la natura

Di fronte ad un tomismo decurtato, che giustamente divenne il terreno d’attacco del pensiero protestante, (la riflessione che segue) cerca di richiamare alla memoria quell’altra corrente della scolastica, che forse è caratterizzata più di tutto dal nome di Bonaventura. Essa vuole anche proteggere, di fronte alla unilateralità di Barth, il diritto della “natura” nella fede. Oggi, libero dalle forti opposizioni di allora, sottolineerei ancora più chiaramente questo aspetto: poiché Tommaso non può più venir presupposto, egli dovrebbe ora ritornare espressamente in campo di fronte a Bonaventura...
(Gli) aspetti del problema, che qui viene sviluppato, rappresentano nello stesso tempo (gli) aspetti principali della crisi, dalla quale oggi è travagliata la cristianità. La negazione teologica della natura, per un aspetto, ha potuto collegarsi con facilità all’escatologia marxista, che non conosce nessuna “natura”, ma soltanto delle realtà di fatto, che devono venire modificate, se si vuol portare alla salvezza un mondo pieno di rovine. Come (ulteriore) componente si dovrebbe ricordare il nichilismo esistenzialista di Sartre: l’uomo non possiede essenza ma solo esistenza; egli ricrea continuamente il suo essere per se stesso. Ciò che egli è viene stabilito in base alle sue azioni. Il Creatore e la sua creazione devono venire difesi da queste negazioni della natura e non solo quando il puro arbitrio del pragmatismo astratto si accosta tangibilmente all’individuo, ma a partire dalla più profonda esigenza della fede, la cui grazia non ha bisogno della distruzione della creazione – della natura – per imporre la sua grandezza. L’altro aspetto presenta un naturalismo, per il quale la distinzione fra natura e grazia comporta la costruzione di un ultra-mondo del tutto inutile, che si deve respingere come ideologia a favore di ciò che solo è reale; un cristianesimo dovrebbe interpretare soltanto ciò che è la vita e nulla più. Qui, viceversa, con la scusa di sfuggire all’ideologia, l’uomo è lasciato acriticamente in balia di se stesso, delle forze e potenze, che gli possono suggerire di essere la realtà, la vita. Il naturalismo che rifiuta la grazia in natura porta, in conclusione, allo stesso risultato del soprannaturalesimo, che combatte la natura e, travisando la creazione, rende priva di senso anche la grazia. Il fanatismo degli Omileti, che schernivano la natura, il quale appare in favore della grazia, è sempre terribilmente prossimo ad unirsi al cinismo degli ateisti, che scherniscono Dio per amore della sua creazione. Le osservazioni seguenti si trovano entro questo ambito di problematiche...

L’assioma “gratia praesupponit naturam” vuol dire... anche in accordo con la Bibbia, che la grazia, cioè l’incontro dell’uomo col Dio che lo chiama, non distrugge la vera realtà umana dell’uomo, ma la salva e la completa. Questa vera realtà umana dell’uomo, la condizione creaturale di uomo, non è completamente estinta in nessun uomo; essa sta alla base di ognuna delle persone umane e si esplica in forme svariate anche nella concreta esistenza dell’uomo, incoraggiandolo e guidandolo ininterrottamente. Però non è presente in nessun uomo in forma non deformata e non adulterata; in ognuno invece essa è ricoperta da quello sporco rivestimento che Pascal ha acutamente definito la “seconde nature” dell’uomo. L’uomo ha aggiunto a se stesso una seconda natura, che ha per centro la schiavitù nei confronti dell’io, la concupiscentia. Ne è una conseguenza anche il fatto che sia nelle lingue antiche, sia nelle moderne la parola “uomo” contiene una particolare ambiguità di significati, nella quale si intrecciano fra loro dignità e bassezza, nobiltà e volgarità. Come è tipica questa ambiguità, ad esempio, nell’autoritratto per metà ironico e per metà serio di Goethe:

Da bambino taciturno e ostinato
Da giovane ardito e sorpreso
Da vecchio irresponsabile e capriccioso
Sulla tua lapide si leggerà:
Questo è stato un vero uomo!

In una frase del cardinale Saliège, che io lessi una volta su un calendarietto, si avverte con intensità ancora maggiore l’identica sensazione: “Con l’espressione ‘questo è umano’ oggi si giustifica tutto. Si cerca il divorzio: è umano. Si beve: è umano. Si imbroglia in un esame o in un concorso: umano. Si sciupa la propria giovinezza nel vizio: è umano. Si lavora con indolenza: è umano. Si è gelosi: è umano. Si commette peculato: è umano. Non esiste nessun vizio che non si giustifichi con questa formula. Con il termine ‘umano’ si caratterizza così ciò che di più caduco e meschino esiste nell’uomo. A volte diventa addirittura sinonimo di bestiale. Che bizzarro modo di esprimersi! L’umano è proprio quello che ci distingue dalla bestia. Umano è l’intelletto, il cuore, la volontà, la coscienza, la santità. Questo è umano”.
E questa ambivalenza del termine uomo non è forse assorbita completamente, in un modo veramente attivo, nell’uomo per eccellenza, in colui che è misura, traguardo e compimento di ogni essere umano, in colui che si definì “Figlio di Dio”? Con questa parola egli fece di dignità e miseria una unità di tale dimensione, che si estende dalla sovranità di Dio fino all’abisso creato da ogni trasgressione. E’ evidente che la grazia non arriva all’uomo che per la strada della “seconde nature”, vi giunge soltanto violando il duro involucro dell’autoesaltazione, che copre in lui la magnificenza di Dio. E questo vuol dire che non esiste grazia senza la croce. Lubac lo ha espresso in termini eccellenti: “L’intero mistero di Cristo è un mistero della risurrezione. Ma è anche un mistero della croce. L’uno apre la via all’altro ed ambedue trovano la loro espressione nell’unica ed identica parola: pascha, cioè passaggio. Alchimia di tutto l’essere, totale separazione da se stesso, alla quale nessuno può sperare di sfuggire. Negazione di tutti i valori naturali nel loro essere naturale, rinuncia anche a ciò per cui il singolo individuo andò oltre se stesso”.
Solo l’umanità del secondo Adamo è la vera umanità, solo l’umanità che è passata attraverso la croce mette in luce il vero uomo. L’umanesimo che sostiene la nobiltà del puro umano termina, in conclusione, nell’autoaffermazione, nell’autodivinizzazione dell’uomo e nel rifiuto di fronte alla nuova realtà di Dio. Ascoltiamo ancora una volta Lubac: “L’umanesimo cristiano dev’essere un umanesimo convertito. Nessun amore naturale può esistere senza irruzione nel soprannaturale. Ci si deve perdere per trovarsi. Dialettica spirituale, la cui inesorabilità si impone all’umanità come al singolo, vale a dire sia al mio amore per l’uomo e per gli uomini come al mio amore per me stesso. Legge dell’exodus, legge dell’ekstasis...”.
Non si possono certo lasciar perdere gli altri aspetti del problema. L’ordine di creazione della vera umanità non è più l’ordine concreto dell’uomo, ma non è neppure semplice astrazione, puro nome. Esso si protende di continuo anche nella realtà. Si deve ricordare questo ammonimento davanti ad una spiritualità eccentrica. Di fronte ad essa esiste nella realtà qualcosa come il buon senso umano, nel quale si svela la coscienza dell’ordine di creazione che è rimasto e dal quale l’uomo deve lasciarsi continuamente correggere e riportare sul terreno della realtà. Questa conoscenza della forza persistente degli ordinamenti creativi deve dare all’ethos cristiano della croce una salutare positività, la quale preservi da ogni esaltazione, eccentricità e stravaganza; a partire da qui un santo ottimismo illuminerà la vita cristiana e difenderà da ogni falsa malinconia la via, spesso abbastanza ardua, della pascha; e imprimerà la vittoriosa letizia che si addice al cristiano ed alla sua speranza.
Forse qui si può fare ancora un passo avanti. Noi abbiamo riconosciuto prima come la “natura” dello spirito va al di là di ogni natura, consiste nel superamento di sé. E’ caratteristica essenziale dello spirito il non bastare a se stesso, il portare in sé un’indicazione direzionale che porta oltre se stesso. Una filosofia moderna sempre più chiaramente riconosce come essenza dello spirito il far-riferimento-al-di-là-di-sé, dove in primo luogo si costituisce come spirito. Se questo è vero, allora l’ “exi” con il quale inizia la rivelazione in Abramo, questa legge fondamentale ed invariabile dell’esodo, che si completa nel mistero cristiano della pasqua e si conferma come la legge definitiva della rivelazione, è anche, nello stesso tempo, la vera legge costitutiva dello spirito, il reale esaudimento del grido di desiderio che si alza dalla sua natura. La croce non è più allora la “crocifissione dell’uomo” nel senso di Nietzsche, ma la sua vera salvezza, che lo strappa dal fallace autocompiacimento, nel quale può soltanto perdere se steso, trascurare la promessa di infinità, presente in lui, per amore della minestra di lenticchie della sua supposta naturalità. La via pasquale della croce, questa demolizione di tutte le sicurezza terrene e delle loro false soddisfazioni è il vero ritorno a casa dell’uomo, la vera armonia cosmica, nella quale Dio sarà “tutto in tutti” (ICor15,28), nella quale il mondo intero è un inno di lode a Dio e all’Agnello pasquale immolato (Ap5).
La croce, in effetti, non è la distruzione dell’uomo, essa fonda in primo luogo la vera umanità, della quale il Nuovo Testamento parla in termini di una bellezza imperscrutabile: “Si manifestò la bontà e l’amorevolezza di Dio nostro salvatore” (Tt3,4). La vera umanità dell’uomo, infatti, è l’umanità di Dio, la grazia, che riempie la natura.
(da Dogma e predicazione di Joseph Ratzinger, Queriniana, Brescia, 1974, pagg.137-154)

Entrambe le parti (N.d.C. quella cattolica e quella luterana nella Dichiarazione ufficiale comune sulla giustificazione, corredata da un Allegato che ne è parte integrale) hanno sottolineato il fatto che non si ha semplicemente un consenso sulla dottrina della giustificazione come tale, ma su verità fondamentali della dottrina della giustificazione. Quindi ci sono settori dove c’è realmente un’intesa, ma rimangono altri problemi che non sono ancora risolti... Non si tratta delle formule prese in se stesse, ma considerate nel loro contesto, come nel caso di quella simul iustus et peccator. Per Lutero, perseguitato dal timore della condanna eterna, era importante sapere che, anche se era un peccatore, era tuttavia amato da Dio e giustificato. Per lui c’è questa contemporaneità: di essere vero peccatore e di essere totalmente giustificato E’ una espressione della sua esperienza personale, che poi è stata approfondita anche con riflessioni teologiche. Mentre per la Chiesa cattolica è importante sottolineare che non c’è un dualismo. Se uno non è giusto non è neanche giustificato. La giustificazione, cioè la grazia che ci viene data nel sacramento, rende il peccatore nuova creatura, come dice san Paolo. Ma rimane, come afferma il Concilio di Trento, la concupiscenza, cioè una tendenza al peccato, uno stimolo che porta al peccato, ma che, come tale, non è peccato. Queste sono controversie classiche. Il problema diventa più reale se prendiamo in considerazione la presenza della Chiesa nel processo della giustificazione, la necessità del sacramento della penitenza. Qui si rivelano le vere divergenze.

Sì. In questo senso è importante notare che Dio agisce realmente nell’uomo. Lo trasforma, crea qualcosa di nuovo nell’uomo, non dà soltanto un giudizio quasi giuridico, esterno all’uomo. Ciò ha una portata molto più generale. C’è una trasformazione del cosmo e del mondo. Penso ad esempio all’Eucarestia. Noi cattolici diciamo che c’è una transustanziazione, che la materia diventa Cristo. Lutero parla invece di coesistenza: la materia rimane tale e coesiste con Cristo. Noi cattolici crediamo che la grazia è una vera trasformazione dell’uomo e una trasformazione iniziale del mondo e non è... soltanto una copertura aggiunta che non entra realmente nel vivo della realtà umana.

E’ importante questa operazione della grazia. Noi siamo tutti contagiati un po’ dal deismo. Dio rimane un po’ fuori. Mentre la fede cattolica – questa grande fiducia, questa grande gioia che Dio, facendosi uomo, entrando nella carne, unendosi alla carne, continua a operare nel mondo trasformandolo – ha la potenza, la volontà, la radicalità dell’amore, per entrare nel nostro essere e trasformarlo.

Nella Risposta della Chiesa cattolica dello scorso anno stava scritto: “Dovrebbe essere preoccupazione comune di luterani e cattolici trovare un linguaggio capace di rendere la dottrina della giustificazione più comprensibile anche agli uomini del nostro tempo”. Penso che la quasi assenza di questa dottrina è causata da un indebolimento del senso di Dio. Se Dio è preso sul serio, il peccato è una cosa seria. E così era per Lutero. Adesso Dio è abbastanza lontano, il senso di Dio è molto attenuato e perciò anche il senso della grazia è attenuato. Adesso dobbiamo trovare insieme in questo contesto attuale il modo di annunciare Dio, Cristo, di annunciare così la bellezza della grazia. Perché se non c’è senso di Dio, se non c’è senso del peccato, la grazia non dice niente. E mi sembra questo il nuovo compito ecumenico: che insieme possiamo capire e interpretare in un modo accessibile, che tocca il cuore dell’uomo di oggi, cosa vuol dire che il Signore ci ha redenti, ci ha dato la grazia.
(da Il mistero e l’operazione della grazia, intervista di G.Cardinale al card.J.Ratzinger, in 30giorni, 6, giugno 1999, pagg.11-14)

Il diavolo, dissoluzione dell’essere persona

Il vangelo della prima domenica di quaresima, che riferisce la tentazione di Gesù ad opera di «Satana», dà occasione di anno in anno di meditare su quella misteriosa potenza, che si nasconde dietro il nome di «Satana». Un ulteriore impulso a questo problema venne alcuni anni fa da Tubinga; nel 1969 Herbert Haag, professore di Antico Testamento, vi aveva pubblicato un libretto con il significativo titolo di La liquidazione del diavolo?. Questo libretto culmina nella frase: «Noi abbiamo già compreso che nel Nuovo Testamento il concetto di 'diavolo' sta semplicemente al posto del concetto di 'peccato'» (p. 52). Al papa, che aveva sottolineato la reale esistenza di Satana e si era dichiarato contrario alla sua dissoluzione in qualcosa di astratto, Haag ha di recente rimproverato di ricadere nella visione del mondo giudaica dei primi tempi; Paolo VI farebbe confusione, nella Sacra Scrittura, tra visione del mondo ed espressione della fede. Cosa si può dire di ciò? E' importante qui, anzitutto, una precisazione metodologica. Neppure Haag può negare che nel Nuovo Testamento Satana e i demoni giochino un ruolo importante. Non può contestare nemmeno il fatto che nel Nuovo Testamento il termine «diavolo» non rappresenta affatto un sinonimo di peccato, ma allude ad una potenza esistente; l'uomo è abbandonato ad essa e ne viene liberato per opera di Cristo, perché solo lui, nella sua qualità di «più forte» può legare l'uomo «forte» (Lc11,22; cfr. Mc. 3,27). La supposizione che si avrebbe conosciuto la possibilità di sostituire diavolo con peccato sorge in Haag per via induttiva, senza un vero e proprio fondamento; il «fondamento» si nasconde in una formulazione, che per la sua ovvietà potrebbe indurre a rinunciare ad un esame più preciso: «Nel significato delle forme di pensiero giudaiche di allora il diavolo appare nel Nuovo Testamento come l'esponente del male. Gesù e gli apostoli si muovono entro queste forme di pensiero allo stesso modo del loro ambiente» (p. 47)...
Anche se non esiste criterio alcuno, che in tutti i singoli casi indichi automaticamente, volta per volta, dove termina la fede e dove inizia la visione del mondo, esistono tuttavia una serie di aiuti per giudicare, i quali indicano la strada da seguire nella ricerca di delucidazioni. Io ne nomino quattro. Un primo criterio deriva dal rapporto dei due Testamenti. La Bibbia non esiste in uniformità, ma nell'accordo tra Antico e Nuovo Testamento, che nel loro porsi di fronte e nella loro unità si commentano a vicenda. Si deve affermare anzitutto che l'Antico Testamento ha valore soltanto in unione col Nuovo, sotto i suoi segni, per mezzo della sua rapportabilità, come pure che il Nuovo Testamento dischiude il suo contenuto solo grazie al suo continuo riferirsi all'Antico. Questo dato di fatto è generalmente riconosciuto per quanto riguarda le prescrizioni legislative dell'Antico Testamento; esse non hanno valore di legge nella loro letteralità, ma valgono in quanto sono una parte della storia che porta a Cristo, che è terminata in lui. La stessa regola di base, che Paolo ha chiaramente formulato per la questione della legge, determina in generale la relazione dei Testamenti. Se nell'ultimo secolo la si avesse avuta così chiaramente davanti agli occhi come l'ebbero i padri della chiesa, si sarebbe evitata tutta la disputa sul racconto della creazione. In base ad essa, infatti, il racconto della creazione della Genesi non ha valore diretto, come testo veterotestamentario, nella sua nuda letteralità, ma in quanto viene accolto nella prospettiva del Nuovo Testamento, nell'ambito della cristologia. Se si usa questo criterio, si vede che Gv. 1,1 è l'assunzione neotestamentaria del testo della Genesi, la cui vivace descrizione viene riassunta nell'unica affermazione: in principio era il Verbo. Tutto il resto viene così rimandato nel mondo delle immagini. Ciò che rimane è la provenienza della creazione dalla parola, la quale si rispecchia nell'Antico Testamento in molte parole. Che senso ha questo criterio per le nostre questioni? Chi lo usa va incontro ad un risultato sconcertante. Mentre noi nel problema della creazione e nella questione della legge trovavamo, nel porre il Nuovo Testamento di fronte all'Antico, la tendenza alla concentrazione, al riassunto in un semplice punto centrale, qui appare esattamente il contrario, la tendenza cioè all'espansione; la presentazione di potenze demoniache appare nell'Antico Testamento soltanto gradualmente; nella vita di Gesù invece possiede un peso incredibile, che rimane immutato in Paolo e si mantiene fino agli ultimi scritti del Nuovo Testamento, nelle lettere della prigionia e nel vangelo di Giovanni. Questo processo di intensificazione, di estrema cristallizzazione del demoniaco — che avviene nel passaggio dall'Antico al Nuovo Testamento, proprio in contrapposizione alla figura di Gesù — e la persistenza del tema nell'intera testimonianza neotestamentaria possiedono una notevole forza espressiva. A partire da qui si potrà dire che nella storia iniziale della fede veterotestamentaria l'affermazione di potenze demoniache doveva rimanere in disparte, perché si doveva far accettare, in primo luogo, contro ogni dualità, la fede nel Dio uno ed unico. In un ambiente saturo di dei, che osservava incerto i cambiamenti tra dei buoni e cattivi, il richiamo a Satana avrebbe tolto la sua chiarezza alla decisiva professione religiosa. Solo quando la tesi dell'unico Dio, con tutte le sue conseguenze, era divenuta possesso imperturbabile di Israele, fu possibile allargare lo sguardo a delle potenze che superavano la dimensione dell'uomo, senza poter mettere in discussione Dio, nella sua unicità. Questo processo storico rimane importante in quanto anche oggi dà un parere vincolante sull'ordine gerarchico della conoscenza di fede. Al primissimo posto sta l'essere Dio di Dio, la sua unicità. La fede cristiana va verso Dio e, a partire da lui, vede il mondo; il cristiano, come dice Gregorio di Nissa a proposito del libro di Qohelet (2,14), ha i suoi occhi nella testa, cioè in alto, non in basso. Egli sa che colui che teme Dio non deve temere niente e nessuno e il timore di Dio è fede, qualcosa di molto diverso da un timore servile, da una paura dei demoni. Ma esso è anche qualcosa di molto diverso da un coraggio millantatore, che non vuol vedere la serietà della realtà. E' proprio del vero coraggio non nascondersi le dimensioni del pericolo, ma essere in grado di percepire la realtà nel suo insieme. E ciò chiarifica anche il fenomeno dell'intensificazione: quanto più l'uomo sta dalla parte di Dio, tanto più egli diventa realistico; quanto più chiari si mostrano i confini della realtà, tanto più chiara diventa anche la contrapposizione a ciò che è santo: le belle maschere del demonio non ingannano più colui che le osserva partendo da Dio. Questo porta già ad un secondo criterio. Si deve indagare di volta in volta in quale rapporto sta un'asserzione con la realizzazione interiore della fede e della vita del credente. Delle affermazioni che rimangono soltanto modi di vedere teoretici, ma non entrano nel vero e proprio svolgersi dell'esistenza, in via normale non potranno venir annoverate tra ciò che è essenzialmente cristiano. Viceversa ciò che non si presenta come un puro modo di vedere teoretico, ma sta nello spazio dell'esperienza di fede, appare nella vita di fede come dato dell'esperienza, ha una posizione del tutto diversa. L'idea del sorgere e del tramontare del sole, della posizione centrale della terra, poteva essere quindi un modo di vedere naturale e variamente interpretabile della fede, non apparteneva alle sue specifiche esperienze. La mistica, con la sua via dell'unione, portava piuttosto alla relativizzazione di tutti gli schemi di visione del mondo. In questa questione mi sembra di straordinaria importanza il fatto che la lotta con la potenza dei demoni appartiene allo specifico cammino religioso di Gesù stesso. La Bibbia è a conoscenza delle sue tentazioni (Lc. 22,28), non soltanto di quelle che vengono esplicitamente descritte; essa va così avanti da poter affermare che Gesù è venuto nel mondo per distruggere le opere del diavolo (1Gv 3,8). Questa formula compendia ciò che Gesù stesso dice — nella serie di detti sull'uomo più forte e sull'uomo forte — della potenza dei demoni, il cui regno egli, nella forza dello Spirito Santo, porta alla rovina (Mc. 3,20-30). Sorprende che egli, che non voleva lasciarsi trasformare in uomo del miracolo, ritenesse la lotta contro i demoni la parte centrale del suo incarico (vedi ad esempio Mc 1,35-39) e che, di conseguenza, i pieni poteri su di essi costituiscano il nucleo del potere, che egli conferisce ai suoi discepoli: essi vengono mandati «a predicare col potere di cacciare i demoni» (Mc. 3,14s). La lotta spirituale contro le potenze che rendono schiavi, l'esorcismo su un mondo abbacinato da demoni è una componente inseparabile dell'iter spirituale di Gesù e sta al centro sia della sua particolare missione che di quella dei suoi discepoli. La figura di Gesù, la sua fisionomia spirituale non cambia se il sole gira attorno alla terra oppure se la terra si muove attorno al sole, se il mondo si è formato per evoluzione oppure no, ma viene decisamente cambiata, se si esclude da essa la lotta con la sperimentata potenza del regno dei demoni. A questo secondo criterio è strettamente collegato il terzo. Una Bibbia senza chiesa sarebbe soltanto una raccolta letteraria. Perciò quando, al di là della necessaria ricerca scientifica di ciò che è strettamente storico, la Bibbia viene esaminata come libro della fede, quando viene cercata la distinzione tra fede e non fede, deve venir in ballo questa unità di Bibbia e chiesa. Come già dicemmo, la fede può venir realizzata soltanto nel credere insieme con tutti; essa svanisce dove viene superata dalla volontà del singolo individuo. Come ulteriore criterio è necessario quindi ricercare in che misura le affermazioni sono state accolte nella fede della chiesa. Ma la fede della chiesa non è un qualcosa del tutto univoco e circoscrivibile, altrimenti la questione sarebbe semplice. Si deve dunque discernere con più esattezza ed adoperarsi per scoprire in quale misura qualcosa è entrato a far parte della vera ed interiore realizzazione della fede, nella forma di base della preghiera e della vita stessa, al di là delle deviazioni della tradizione. Così, ad esempio, la disputa sulla filiazione divina di Gesù, sulla divinità dello Spirito Santo, sulla unità e trinità di Dio, è stata portata avanti a motivo delle conseguenze per la liturgia battesimale, per la liturgia eucaristica e quindi per il significato della conversione cristiana, quale si presenta nel battesimo. Basilio, ad esempio, che portò a conclusione l'ultima disputa sulla divinità dello Spirito Santo, ha discusso questo problema con molta rigorosità, partendo dall'intima pretesa del battesimo e della sua forma liturgica. Lui sostenne che il battesimo non è un trastullo liturgico, ma la solenne forma ecclesiale della decisione esistenziale, supposta dall'essere cristiano. Si deve poter prenderla alla lettera, soprattutto nel suo avvenimento centrale. Essa specifica cosa avviene nel divenire cristiani e cosa non avviene. Ma, per ritornare alla nostra questione, l'esorcismo e la rinuncia a Satana fanno parte dell'avvenimento centrale del battesimo; quest'ultima, assieme alla promessa a Gesù Cristo, costituisce l'essenziale porta d'ingresso al sacramento. Il battesimo introduce così l'uomo nel modello di esistenza di Gesù Cristo, nella sua lotta e nella sua libertà. Viene a contatto con la sua esperienza spirituale e la trasferisce in colui, che inizia ad imitare Cristo. Quando l'uomo cammina nella luce di Gesù Cristo il demonio viene trasportato dall'altra parte e diventa così superabile. Ritorna con pieno valore l'affermazione che se si volesse annullare la realtà della potenza demoniaca, si cambierebbe il battesimo e con esso la realizzazione della vita cristiana. Nella ricerca sulla chiesa, d'altronde, si dovrebbe includere l'esperienza dei santi, di coloro che credono in forma esemplare; parlo della loro esperienza, non di tutte le loro idee. Questa esperienza corrisponde all'esperienza di Gesù; con quanta maggior forza diventa visibile e potente ciò che è santo, tanto meno il demonio può nascondersi. Per questo si potrebbe dire senz'altro che lo scomparire dei demoni, il presunto divenire innocuo del mondo vanno di pari passo con lo scomparire di ciò che è santo. Infine, come ultimo criterio, deve venir ricordato il problema della «visione del mondo», della conciliabilità con una conoscenza scientifica. La fede diventerà di continuo la critica di ciò che di volta in volta ha valore di certezza in quanto moderno e nuovo; però essa non può contraddire una conoscenza scientifica garantita, anche se questa deve stabilire dei segni negativi così notevoli. Si sarebbe curiosi di sapere in base a quali ragioni Haag decide «che questa concezione non è più conciliabile col nostro mondo». E' evidente che essa si oppone al gusto medio della gente; è altrettanto palese che essa non trova nessun appoggio in un mondo considerato funzionalisticamente. Ma in un puro funzionalismo non c'è posto neppure per Dio né per l'uomo come uomo, ma soltanto per l'uomo come funzione; qui dunque crolla molto di più della sola idea del «diavolo». Rimane difficile cercar di sapere in nome di quale filosofia Haag esprima il suo verdetto; secondo le apparenze egli parte da uno schema personalistico fortemente semplificato. Ma le forme del personalismo più approfondite hanno riconosciuto senz'altro che con le sole categorie di io e tu non è possibile spiegare l'intera realtà; proprio il «rapporto» che unisce l'un l'altro i due poli è una realtà caratteristica ed autonoma. Alcuni suggerimenti tratti dal pensiero asiatico fanno oggi risaltare ancor di più questa coesione. Una malattia psichica, così dicono ad esempio, non è un semplice modo di sentirsi dell'io, ma si basa proprio su una perturbazione del «rapporto»; dal momento che il rapporto non è in ordine, è spezzato, sviato, rovesciato, anche l'io stesso è fuori fase. Il rapporto è una forza decisiva del destino della quale il nostro io non può affatto disporre completamente. Il ritenere questo è un razionalismo di una sincerità quasi fantastica. Qui il pensiero moderno mette a disposizione, mi sembra, una categoria che ci può aiutare a comprendere di nuovo e con più esattezza la potenza dei demoni, la cui esistenza è di certo indipendente da tali categorie. Essi sono una potenza del «rapporto», col quale l'uomo è confrontato ad ogni pié sospinto, senza che egli lo possa arrestare. Paolo intende esattamente questo quando parla dei «signori di questo mondo tenebroso»; quando dice che la nostra lotta è diretta contro di essi, contro le potenze celesti del male, non contro la carne e il sangue (Ef 6,12). Essa si dirige contro quel «rapporto» saldamente stabilito, che lega gli uomini l'uno all'altro e nello stesso tempo li separa uno dall'altro, che usa loro violenza mentre fa da preludio alla loro libertà. Qui si chiarifica una particolarità tutta specifica del demoniaco, cioè la sua assenza di fisionomia, la sua anonimità. Quando si chiede se il diavolo sia una persona, si dovrebbe giustamente rispondere che egli è la non-persona, la disgregazione, la dissoluzione dell'essere persona e perciò costituisce la sua peculiarità il fatto di presentarsi senza faccia, il fatto che l'inconoscibilità sia la sua forza vera e propria. In ogni caso rimane vero che questo rapporto è una potenza reale, meglio, una raccolta di potenze e non una pura somma di io umani. La categoria dell'intermedio, che ci aiuta così a ricomprendere l'essere del demonio, si presta inoltre per un altro servizio parallelo; rende possibile spiegare meglio la vera potenza opposta, che diventa anch'essa sempre più estranea alla teologia occidentale, lo Spirito Santo cioè. Noi potremmo dire, partendo da quella categoria, che egli è quell'intermediario, nel quale Padre e Figlio costituiscono una cosa sola, l'unico Dio; nella forza di questo intermediario il cristiano si pone di fronte a quell'intermediario demoniaco, che sta ovunque «fra mezzo» ed ostacola un'unità.
(da Liquidazione del diavolo, ripubblicato in J.Ratzinger, Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia, 1974, pp.189-197)

Gesù Cristo è il Salvatore: il significato redentivo della croce

Nel corso dell’evoluzione storica della fede cristiana, si sono andate palesemente distaccando una dall’altra due branchie dottrinali, che assunsero correntemente il nome di ‘cristologia’ e ‘soteriologia’. Con la prima si indicava la dottrina concernente l’essere di Gesù, che si andò man mano sempre più incapsulando come un’eccezione ontologica, trasformandosi così in un oggetto di speculazione, diventando qualcosa di specialissimo, d’incomprensibile, di limitato unicamente a Gesù. Col termine di ‘soteriologia’ s’indicava invece la dottrina concernente la redenzione. Dopo aver esaminato a fondo il cruciverba ontologico per scoprire come uomo e Dio potessero sussistere insieme in Gesù, si passò a domandarsi, separatamente, che cosa Gesù avesse realmente fatto e come gli effetti della sua opera risultassero applicabili a noi. Il fatto che le due questioni si siano dissociate una dall’alta, portando la persona e l’opera da essa compiuta a formare il contenuto di due trattati nozionali separati, ha finito per renderle ambedue incomprensibili e irrealizzabili. Basta solo sfogliare un pochino i manuali di dogmatica, per rilevare subito quanto si complicassero le teorie vertenti sulle due branche; e tutto, semplicemente perché si era dimenticato che solo abbinandole assieme si possono davvero comprendere. Mi limito soltanto a ricordare la forma in cui la dottrina concernente la redenzione per lo più si presenta alla coscienza cristiana. Essa si basa ancora sulla cosiddetta ‘teoria della soddisfazione’, che è stata sviluppata alle soglie del medioevo da Anselmo di Canterbury, e da allora in poi ha sempre condizionato in maniera esclusiva le coscienze del cristianesimo d’Occidente. Essa, già solo nella sua classica configurazione, non va immune da unilateralità. Qualora poi la si veda nella rozza e grossolana veste in cui l’ha insaccata la coscienza popolare, ci appare come un crudele meccanismo, per noi sempre più inutilizzabile. Anselmo di Canterbury (1033-1109 circa) si era preoccupato di evincere l’opera di Cristo con argomenti obbligati (rationibus necessariis), dimostrando così irrefragabilmente come tale opera dovesse tassativamente svolgersi così, come di fatto s’è svolta. A grandi linee, il suo pensiero si potrebbe abbozzare nel seguente modo. Per colpa del peccato dell’uomo, che è stato un atto di ribellione contro Dio, l’ordine della giustizia è stato infinitamente sovvertito, e Dio infinitamente offeso. Dietro questa concezione, sta l’idea che la misura dell’offesa si valuti badando all’offeso: le conseguenze sono ben differenti – si dice – se io offendo un accattone o invece il presidente della repubblica. L’offesa assume un peso diverso, a seconda di chi ne è la vittima. Siccome Iddio è infinito, anche l’offesa a lui fatta dall’umanità col peccato riveste un peso infinito. Ora, il diritto in tal modo violato deve venire risarcito, perché Iddio è il Dio dell’ordine e della giustizia, anzi, la Giustizia per antonomasia. Ma corrispondentemente alla misura dell’offesa, è necessaria una riparazione infinita. E l’uomo non è assolutamente in grado di offrirla. Può sì offendere in maniera infinita, perché le sue facoltà arrivano a tanto; ma non riesce a soddisfare in maniera infinita: siccome è un povero essere finito, qualunque cosa egli esibisca, sarà sempre e soltanto una cosa finita. La sua forza distruttiva sopravanza di molto le sue facoltà ricostruttive. Sicché, tra tutte le riparazioni che l’uomo tenterà di offrire, e la grandezza della sua colpa, continuerà a sussistere un margine infinito, un divario incolmabile: ogni gesto d’espiazione non può che mostrargli la sua assoluta impotenza a colmare l’infinito abisso scavato dalle sue stesse mani. E allora, l’ordine dovrà rimanere per sempre distrutto, l’uomo dovrà restare eternamente sprofondato nel baratro della sua colpa? Ecco che a questo punto Anselmo s’imbatte nella figura di Cristo. Allora la sua risposta suona così: Dio stesso lava l’ingiustizia da noi commessa; ma non (come pur potrebbe fare) accordandoci una semplice amnistia, la quale non è in grado di liquidare intrinsecamente l’accaduto, bensì subentrando al posto nostro. L’infinito stesso si fa uomo, e poi in quanto uomo, appartenente alla stirpe degli offensori eppure sempre in possesso dell’energia capace di infinita riparazione negata al semplice uomo, offre la richiesta espiazione. Si ha così la redenzione, che avviene interamente per via di grazia, ma al contempo anche in forma di ripristino della giustizia lesa. Anselmo credeva d’aver così risolto in maniera convincente il grave problema del Cur Deus homo?, d’aver trovato il perché dell’Incarnazione e della croce; la sua concezione ha decisamente improntato l’intero secondo millennio del cristianesimo occidentale; ai suoi occhi, era ovvio che Cristo era dovuto morire sulla croce per riparare l’infinita offesa arrecata alla Maestà divina, ristabilendo così l’ordine un dì violato. Non si può certo negare che in questa teoria siano contenuti decisivi spunti biblici ed umani: chi ne segue con un po’ di pazienza l’argomentazione, riuscirà a scorgerlo senza difficoltà. Pertanto, nella sua qualità di tentativo mirante ad armonizzare i singoli elementi della narrazione biblica in un grande sistema di pensiero, compatto e radicale, andrà pur sempre tenuta in considerazione. Non è poi difficile vedere come, nonostante tutti gli ammennicoli filosofici e giuridici qui adoperati, il tema conduttore rimanga pur sempre quella verità che viene espressa dalla Bibbia nella piccola preposizione ‘per’, con la quale essa ci dimostra come noi uomini non viviamo solo attingendo la linfa direttamente da Dio, ma anche gli uni dagli altri, e in definitiva da quell’Unico che è vissuto per tutti. E non c’è chi non veda come, in questo schema presentatoci dalla teoria della soddisfazione, rimanga sempre bene in vista l’ampio respiro del pensiero biblico dell’elezione, per il quale la vocazione non è un privilegio accordato all’eletto, bensì una sua chiamata ad essere per gli altri. Essa è infatti una vocazione a quel ‘per’, in cui l’uomo s’abbandona con animo sollevato, cessa di aggrapparsi convulsamente a se stesso, ed osa spiccare quel balzo verso l’Infinito unicamente rischiando il quale riesce a raggiungere se stesso. Ma pur concedendo tutto questo, non si può d’altra parte negare che il sistema giuridico divino-umano e perfettamente logico, escogitato da Anselmo, alteri le prospettive, finendo magari con la sua ferrea logica per mettere in una luce sinistra l’immagine di Dio. Dovremo tornare diffusamente sull’argomento, quando sarà il momento di parlare sul significato della croce. Per ora, può anche bastare l’accenno al fatto che le cose si presentano in maniera tutta diversa allorché, invece di istituire una separazione fra l’opera e la persona di Gesù, si vede chiaramente come in Gesù Cristo non si tratti di un’opera staccata da lui stesso, non d’una prestazione tassativamente richiesta da Dio perché egli stesso è tenuto a rispettare l’ordine; allora infatti apparirà chiaro che – per dirla con Gabriel Marcel – in lui non si tratta d’un avere bensì d’un essere nei confronti dell’umanità. Come del resto tutt’altro aspetto presentano le cose, quando si è afferrata la chiave dell’argomentazione paolina, che s’insegna a comprendere Cristo come l’ ‘ultimo uomo’ (εσχατος αδαμ: 1Cor15,45), vale a dire come l’uomo definitivo, che introduce l’uomo nel suo futuro, consistente nel fatto che egli non è soltanto uomo, ma forma invece un tutto unico con Dio.
(da J.Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia, 1979, pagg.182-185)

a) Giustizia e grazia.
Come abbiamo rilevato poc’anzi, in questo campo la coscienza cristiana è in genere ancora largamente improntata ad una grossolana ed irrozzita idea della teologia d’espiazione risalente ad Anselmo di Canterbury... Per molti cristiani, e specialmente per quelli che conoscono la fede solo piuttosto da lontano, le cose stanno come se la croce andasse vista inserita in un meccanismo, costituito dal diritto offeso e riparato. Sarebbe la forma in cui la giustizia di Dio infinitamente lesa verrebbe nuovamente placata da un’infinita espiazione. Sicché la vicenda della croce appare all’uomo come l’espressione d’un atteggiamento, che poggia su un esatto conguaglio tra dare e avere; ma nello stesso tempo, si ha la sensazione che questo conguaglio si basi per altro su un piedestallo fittizio. Di conseguenza, si dà segretamente con la mano sinistra, ciò che poi si ritoglie solennemente con la destra. Col risultato che la ‘infinita espiazione’ su cui Dio sembra reggersi, si presenta in una luce doppiamente sinistra. Da molti libri di devozione, s’infiltra così nella coscienza proprio l’idea che la fede cristiana nella croce immagini un Dio, la cui spietata giustizia abbia preteso un sacrificio umano, l’immolazione del suo stesso Figlio. Per cui si volgono con terrore le spalle ad una giustizia, la cui tenebrosa ira rende inattendibile il messaggio dell’amore. Quanto diffusa è un’immagine del genere, altrettanto è sbagliata e falsa. Nella Bibbia, la croce non si presenta affatto come ingranaggio d’un meccanismo di diritto leso; la croce vi compare invece proprio come espressione indicante la radicalità dell’amore che si dona interamente, come un processo in cui uno è ciò che fa, e fa esattamente ciò che è: come palese simbolo d’una vita vissuta integralmente per gli altri. Agli occhi di chi osserva attentamente, nella teologia della croce sviluppata dalla Scrittura, si esprime un’autentica rivoluzione rispetto alle idee di espiazione e di redenzione riscontrabili nelle religioni non cristiane della storia; non si può per altro negare che, nella coscienza cristiana dei tempi successivi, tale rivoluzione si sia di nuovo largamente neutralizzata, e sia stata ben di rado riconosciuta in tutta la sua portata. Nelle religioni mondiali, espiazione significa normalmente riparazione e ripristino dei rapporti perturbati esistenti con la divinità, ottenuti tramite azioni propiziatrici degli uomini. Quasi tutte le religioni ruotano attorno al problema dell’espiazione; nascono dalla consapevolezza che l’uomo ha della propria colpa di fronte a Dio, e denotano il tentativo di eliminare questo sentimento di colpa, cancellando il peccato mediante opere d’espiazione offerte a Dio. L’azione espiatrice con la quale gli uomini mirano a conciliarsi e propiziarsi la divinità, sta al centro della storia delle religioni. Nel Nuovo Testamento, invece, la situazione è quasi esattamente l’inversa. Non è l’uomo che s’accosta a Dio tributandogli un dono compensatore, ma è Dio che s’avvicina all’uomo per accordarglielo. Per iniziativa stessa della sua potenza amorosa, egli restaura il diritto leso, giustificando l’uomo colpevole mediante la sua misericordia creatrice e richiamando alla vita la creatura morta. La sua giustizia è grazia: è giustizia attiva, che raddrizza l’uomo distorto, riportandolo allo stato lineare, giustificandolo. Qui ci troviamo davvero di fronte alla svolta portata dal cristianesimo nella storia delle religioni: il Nuovo Testamento non dice che gli uomini si riconcilino con Dio, come del resto dovremmo attenderci, perché sono essi che hanno sbagliato, non Dio. Ci dice invece che “Dio in Cristo ha riconciliato con sé il mondo” (2Cor5,19). Ora, ciò è qualcosa di veramente inaudito, qualcosa di assolutamente nuovo: è la base di lancio dell’esistenza cristiana e il centro focale della teologia della croce, sviluppata dal Nuovo Testamento. Dio non aspetta che i colpevoli si facciano avanti, riconciliandosi con lui, ma va loro incontro per primo riabilitandoli. In questo grande evento si vede delinearsi il vero indirizzo orientativo dell’incarnazione, della croce.
Di conseguenza, nel Nuovo Testamento la croce si presenta primariamente come un movimento discendente, dall’alto in basso. Essa non ha affatto l’aspetto d’una prestazione propiziatrice che l’umanità offre allo sdegnato Iddio, bensì quello d’un’espressione di quel folle amore di Dio, che s’abbandona senza riserve all’umiliazione pur di redimere l’uomo; è un suo accostamento a noi, non viceversa. Con questa inversione di rotta nell’idea dell’espiazione, che viene a spostare addirittura l’asse dell’impostazione religiosa in genere, nel cristianesimo anche il culto e l’intera esistenza ricevono un nuovo indirizzo. Nella sfera cristiana, l’adorazione si estrinseca in primo luogo nel ricevere con animo grato l’azione salvifica di Dio. La forma essenziale del culto cristiano si chiama quindi a ragion veduta Eucarestia, cioè rendimento di grazie. In questa cerimonia cultuale, non si offrono a Dio tributi umani, ma si porta invece l’uomo a lasciarsi inondare di doni; noi non glorifichiamo Iddio offrendogli qualcosa di presumibilmente nostro – quasi che ciò non fosse già per principio suo! -, bensì facendoci regalare qualcosa di Suo, e riconoscendolo così come l’unico Signore. Lo adoriamo lasciando cadere la finzione d’un campo in cui noi saremmo in grado di presentarci a lui come contrattatori autonomi, mentre in realtà noi possiamo esistere soltanto in lui e in derivazione da lui. Il sacrificio cristiano non consiste in un dare a Dio ciò che Egli non avrebbe senza di noi, bensì nel nostro farci completamente ricettivi nei suoi confronti e nel lasciarci integralmente assorbire da lui. Permettere a Dio di operare su di noi: ecco la quintessenza del sacrificio cristiano.

b) La croce come adorazione e sacrificio.
Con i rilievi sin qui fat­ti, non abbiamo però detto ancora tutto. Quando si legga il Nuovo Testamento dal principio alla fine, non è possibile soffocare la do­manda se esso non ci presenti l'azione espiativa di Gesù come l'of­ferta d'un sacrificio al Padre, additandoci la croce come l'olocausto che Cristo in tutta obbedienza esibisce al Padre. In una lunga serie di testi, l'azione di Cristo ci vien indicata nonostante tutto come un movimento ascendente intrapreso dall'umanità verso Dio; sicché sembra proprio tornare alla ribalta tutto quanto abbiamo testé spaz­zato via dalla scena. Enucleando la sola linea discendente, per altro, non è possibile cogliere integralmente il senso del Nuovo Testamento. E allora, come dobbiamo spiegarci il rapporto intercorrente fra le due linee? Dobbiamo forse escludere l'una a beneficio dell'altra? E qualora lo volessimo davvero fare, quale scala di valori ci autoriz­zerebbe ad intraprendere tale selezione? È quindi chiaro che in que­sta direzione non possiamo procedere: finiremmo inevitabilmente per elevare il puro e semplice arbitrio della nostra opinione a parame­tro per commisurare la fede.
Per riuscir ad andare avanti su questo terreno, dobbiamo amplia­re la nostra domanda, cercando di appurare dove sia situato il punto d'avvio dell'interpretazione neotestamentaria della croce. Occorre in­nanzitutto avvertire che la croce di Gesù è apparsa di primo acchito ai discepoli come la fine, come il fallimento dell'opera da lui intra­presa. Essi avevano creduto d'aver trovato in lui un re. che non avrebbe più potuto esser detronizzato, e s'erano invece trovati im­provvisamente ad essere soltanto i compagni di sventura d'un giu­stiziato. La risurrezione aveva sì dato loro la certezza che Gesù era malgrado tutto davvero un re; ma a che cosa sarebbe servita la cro­ce, dovettero imparare a capirlo solo lentamente, per gradi. Il mezzo per comprenderlo glielo offerse la Scrittura, vale a dire l'Antico Te­stamento, ricorrendo alle cui immagini simboliche, ai cui concetti, si sforzarono d'interpretare l'accaduto. Essi tirarono quindi in campo anche i suoi testi e le sue prescrizioni liturgiche, nella convinzione che tutto quanto vi si diceva si era effettivamente realizzato in Gesù, anzi, che solo guardando a lui si poteva ora capire veramente quale fosse in realtà il senso riposto di quelle parole e di quei fatti. Ed ecco perché, nel Nuovo Testamento, noi troviamo spiegata la croce, anche con pensieri tratti dalla teologia cultuale vetero-testamentaria.
La più logica e coerente elaborazione in questo senso possiamo riscontrarla nella Lettera agli Ebrei, che mette in rapporto la morte di Gesù in croce col rito e con la teologia della festa ebraica del­l'espiazione, presentandocela come l'autentica festa della riconcilia­zione cosmica. La linea di pensiero sviluppata in questa lettera si potrebbe sintetizzare press'a poco così: ogni vittima offerta dalla umanità, ogni tentativo da essa intrapreso per propiziarsi Iddio tra­mite il culto rituale, di cui il mondo rigurgita, dovevano per forza restare pura e semplice opera umana priva di mordente, perché Id­dio non cerca vitelli e capri o qualsiasi altra cosa gli venga offerta per via rituale. Si possono presentare a Dio, in ogni parte del mondo, intere ecatombi di animali; egli però non ne ha affatto bisogno, per­ché tutto gli appartiene lo stesso e quindi al Signore dell'universo non si dà un bel nulla, anche quando si brucia tutto ciò in suo onore: «Non ti sottraggo di casa il giovenco, né i capretti dagli ovili tuoi. Ché mia è ogni fiera della selva, gli animali sui monti a mille a mil­le. Mi è noto ogni volatile nell'alto, ciò che vive nei campi è in mia mano. Se avrò fame, a te non verrò a dirlo, ché mio è l'orbe e ciò che esso contiene. Mangio io forse la carne dei tori, ovvero bevo il sangue dei capretti? Offri a Dio la tua lode in sacrificio...» - così dice un'esortazione di Dio contenuta nell'Antico Testamento (Sal50[49],9-14). L'autore della Lettera agli Ebrei si pone proprio sul­la linea spirituale di questo e di altri testi affini. Con decisione an­cor più energica egli ribadisce l'inutilità del conato rituale. Dio non cerca vitelli e capri, bensì l'uomo; il libero assenso dell'amore è l'uni­co elemento che Dio deve attendersi, l'adorazione e il ‘sacrificio’ che soli siano suscettibili di avere un senso. L'assenso dato a Dio, con cui in pratica l'uomo si ridona al Signore, non si potrà mai sosti­tuire e surrogare col sangue dei giovenchi e degli arieti. «E che cosa mai potrà dare l'uomo, quale prezzo, per il riscatto della sua anima» (Mc. 8,37)? La risposta non può suonare che così: egli non è in grado di dare proprio nulla che sia atto a controbilanciare la sua carenza.
Siccome però tutto il culto pre-cristiano poggia sull'idea della so­stituzione, della rappresentanza, tentando di sostituire l'insostituibi­le, esso doveva per forza rimanere un conato inutile e vano. Alla luce della fede in Cristo, la Lettera agli Ebrei può osar tirare questo fallimentare bilancio della storia della religione, anche se solo il presentarlo, in un mondo saturo di offerte sacrificali, doveva apparire un crimine mostruoso. Essa ha il coraggio di affermare senza riserve questo completo fallimento delle religioni, perché sa come in Cristo l’idea della sostituzione, della supplenza, abbia acquisito un senso integralmente nuovo. Egli, che agli effetti della religione legale era un laico, non rivestiva alcun ufficio nel servizio cultuale d’Israele – dice il testo - era invece l’unico vero sacerdote del mondo. La sua morte che, vista sotto l’aspetto puramente interno alla storia, rappresentò un evento meramente profano – l’esecuzione capitale d’un uomo condannato come delinquente politico - fu invece l’unico atto liturgico della storia universale. Il suo supplizio è stato una liturgia cosmica, tramite la quale Gesù, non in quel settore limitato dell’azione liturgica che era il tempio, bensì al cospetto dell’intero mondo, attraversando l’atrio della morte è penetrato nell’autentico tempio, ossia alla presenza di Dio stesso, e per sacrificargli non delle cose, sangue di animali od altro, bensì addirittura se stesso (Ebr9,11 ss.).
Facciamo ben attenzione a questa fondamentale conversione di rotta, che costituisce il pensiero centrale della Lettera: ciò che visto con occhi terreni si presentava come un avvenimento meramente profano, è in realtà il vero culto dell’umanità, perché colui che ne fu il protagonista sbrecciò la staccionata chiusa della cerimonia liturgica, trasformando quest’ultima in una genuina realtà: donando e sacrificando se stesso. Egli strappò di mano agli uomini le offerte sacrificali, sostituendovi la sua personalità, il suo stesso ‘io’ donato in olocausto. Se tuttavia nel nostro testo si afferma ancora che Gesù ha operato la redenzione col suo sangue (Ebr9,12), questo sangue non va inteso come un dono materiale, come un mezzo espiativo da misurarsi quantitativamente, bensì come la pura concretizzazione di quell’amore che ci vien additato come spinto sino all’estremo (Gv13,1). Esso è l’espressione della totalità della sua dedizione e del suo servizio, l’implicita asserzione del fatto che egli offre né più né meno che se stesso. Il gesto dell’amore che tutto dona: questo e soltanto questo ha costituito, secondo la Lettera agli Ebrei, l’autentica redenzione del mondo; per cui, l’ora della croce rappresenta il giorno della redenzione cosmica, la vera e definitiva festa della Riconciliazione. Non esiste altro culto né altro Sacerdote all’infuori di quello che lo ha compiuto: Gesù Cristo.

c) L’essenza del culto cristiano.
Stando così le cose, l’essenza del culto cristiano non sta nell’offerta di cose, e nemmeno in una certa qual loro distruzione, come dal secolo XVI in poi si può leggere sempre più insistentemente scritto nei trattati teorici concernenti il sacrificio della messa, ove si afferma che proprio in questo modo bisogna riconoscere la suprema autorità di Dio sull’universo. Tutti gli sforzi fatti dal pensiero in questo senso sono ormai stati decisamente superati dall’avvento di Cristo, e dall’interpretazione che ce ne dà la Bibbia. Il culto cristiano si concretizza nell’assoluta dedizione dell’amore, quale poteva estrinsecarsi unicamente in colui, nel quale l’amore stesso di Dio si era fatto amore umano; e si esplica nella nuova forma di funzione vicaria inclusa in quest’amore: nel fatto che egli s’è incaricato di rappresentarci e noi ci lasciamo impersonare da lui. Esso comporta pure che noi ci decidiamo una buona volta ad accantonare i nostri conati di auto-giustificazione, che in fondo sono solo delle magre scuse, buone unicamente a metterci gli uni contro gli altri; così come il tentativo di giustificazione architettato da Adamo è una mera scusa pretestuosa, un conato di scaricare la colpa sulla compagna, anzi, addirittura un tentativo di accusare Dio stesso: “E’ stata la donna da te datami per compagna, che mi ha presentato il frutto dell’albero...” (Gen3,12). Esso esige che noi, al posto del deleterio scaricabarile dell’auto-giustificazione, accogliamo il dono dell’amore fattoci da Gesù Cristo che intercede per noi, lasciandoci convogliare nel suo flusso, per divenire così in lui e con lui dei veri adoratori. Tenendo ben presenti questi principi, dovrebbe risultarci possibile rispondere stringatamente ad alcuni altri quesiti che ancora si pongono.

1. Guardando al messaggio d’amore lanciato al mondo dal Nuovo Testamento, va oggi sempre più prendendo piede una tendenza a risolvere completamente il culto cristiano nell’amor fraterno, nella ‘fraternità umana’, senza lasciar più alcun posto al diretto amor di Dio, o alla venerazione del Signore: se ne riconosce solo la dimensione orizzontale, mentre si nega invece la dimensione verticale dell’immediato rapporto con Dio. Ora, rifacendoci a quanto abbiamo detto, si vede assai facilmente perché questa concezione, di primo acchito apparentemente così simpatica, finisca invece per svuotare di contenuto, oltre che il cristianesimo, anche il sentimento d’umanità. La fraternità con pretese di autosufficienza si trasformerebbe fatalmente nel più smaccato egoismo di autoaffermazione. Essa infatti rinuncerebbe alla sua benefica apertura, alla sua scioltezza e abnegazione, qualora non accogliesse anche il bisogno di redenzione che tale amore porta in sé da parte di colui, che solo ha saputo realmente amare a sufficienza. E nonostante tutta la buona volontà, finirebbe per fare una grossa ingiustizia a sé ed agli altri, perché l’uomo non si esaurisce unicamente nei rapporti di fraternità umana, ma si realizza invece in tutta la sua estensione solo nei rapporti con quel disinteressato amore, che glorifica Dio stesso. Il disinteresse della pura e semplice adorazione è la suprema possibilità dell’esistenza umana, la sua sola vera e definitiva liberazione.

2. Soprattutto allorché si osservano le forme devozionali consuetudinarie incentrate sulla passione, viene continuamente da domandarsi in qual modo si colleghino fra loro sacrificio (e quindi adorazione) e dolore. Stando ai rilievi testé fatti, il sacrificio cristiano non è altro che l’esodo della ‘funzione vicaria’, che abbandona tutta se stessa, realizzato in pieno nell’uomo che è integralmente ‘esodo’, autosuperamento dell’amore. Pertanto, il principio costitutivo del culto cristiano è questo movimento di esodo, caratterizzato dalla sua duplice e al contempo unitaria polarizzazione su Dio e sul prossimo. Cristo, portando l’essere umano a Dio, lo porta anche alla salvezza. La vicenda della croce è quindi pane di vita “per molti” (Lc22,19; Mt26,27), perché il crocifisso ha trasfuso il corpo dell’umanità nell’assenso dell’adorazione. E’ un fatto spiccatamente ‘antropocentrico’, vale a dire accentrato sull’uomo, proprio perché è stato un radicale teocentrismo, ossia una consegna incondizionata dell’ ‘io’ e quindi dell’essenza dell’uomo a Dio. Ora, siccome questo esodo dell’amore costituisce l’estasi dell’uomo, vale a dire lo slancio con cui egli si proietta fuori di sé protendendosi infinitamente sopra se stesso, quasi strappandosi alla sua natura e librandosi arditamente alto, oltre tutte le sue apparenti possibilità d’impennata, proprio per questo motivo l’adorazione (sacrificio) è sempre simultaneamente anche croce, dolore, dissociazione, morte del granello di frumento, che solo morendo è in grado di portar frutto. Ma così risulta anche perfettamente chiaro come questa componente di sofferenza sia un elemento solo secondario, che fluisce da un preminente fattore primario, dal quale riceve il suo significato e la sua giustificazione. Il principio costitutivo del sacrificio non è la distruzione, bensì l’amore. E solo in quanto questo fattore principale forza il terreno per sbocciare, crocifigge, lacera e fa male, finisce per rientrare pur esso nel sacrificio: come forma assunta dall’amore in un mondo caratterizzato dalla morte e dall’egoismo.
A questo proposito c’è un brano altamente significativo di Jean Daniélou, che per essere esatti riguarda un problema diverso, ma può considerarsi lo stesso adattissimo a lumeggiare ulteriormente l’assunto di cui ci stiamo occupando: “Tra il mondo pagano e il Dio trino esiste un solo ed unico legame: la croce di Cristo. Qualora volessimo egualmente prender posto in questa terra di nessuno, proponendoci di tirare di bel nuovo i fili di collegamento fra il mondo dei pagani e il Dio trino, perché dovremmo meravigliarci di poterlo fare unicamente attraverso la croce di Cristo? Siamo infatti tenuti a renderci simili a questa croce, a portarla dentro di noi, come dice S.Paolo parlando dell’araldo della fede, quando afferma che noi apostoli (cristiani) “portiamo sempre e dovunque nel nostro corpo le sofferenze di Gesù morente” (2Cor4,10). Questa lacerazione che per noi rappresenta una croce, questa impossibilità di amare simultaneamente la ss.Trinità e un mondo completamente estraniato dalla Trinità, da cui il nostro cuore è afflitto, costituisce proprio la sofferenza mortale del Figlio unigenito, a condividere la quale egli ci chiama. Lui, che ha portato in sé questa dissociazione per eliminarla, ma è riuscito ad eliminarla appunto e soltanto per averla prima portata in sé, è davvero in grado di giungere da un termine all’altro. Pur senza abbandonare il seno della Trinità, egli si protende sino al limite estremo della miseria umana, colmando così l’intero spazio intermedio. Questa protensione di Cristo, simboleggiata dalle quattro dimensioni direzionali della croce, è la misteriosa espressione della nostra intima dissociazione e ci conferma a lui”. Il dolore è in ultima analisi il risultato e la palese manifestazione della dilatazione di Gesù Cristo, che si estende dal suo essere in Dio sino al baratro del “Dio mio, perché mi hai abbandonato?” Chi ha stirato la sua propria esistenza in modo tale, da essere contemporaneamente tuffato in Dio e immerso nell’abisso della creatura abbandonata da lui, deve per forza quasi dissociarsi intimamente, trovandosi così realmente ‘crocifisso’. Tale lancinante lacerazione viene però ad identificarsi con l’amore: ne rappresenta la concretizzazione spinta sino al segno supremo (Gv13,1), e è al contempo la tangibile espressione dell’immenso orizzonte da esso aperto. Attingendo a questi dati, è davvero possibile mettere in luce la genuina fondatezza della assennata devozione alla Passione, dimostrando chiaramente come pietà incentrata sulla Passione e spiritualità apostolica si fondino in un mutuo intreccio. Si dovrebbe anche vedere come lo slancio apostolico, il servizio prestato all’uomo ed al mondo, faccia tutt’uno col nucleo centrale della mistica cristiana e con la pietà accentrata sulla Passione. Queste due attività non si eliminano né s’intralciano a vicenda, ma vivono invece attingendo profondamente l’una dall’altra. Con ciò dovrebbe ora apparire chiaro anche come, nel contemplare la croce, l’importante non sia il porre l’accento su una somma di sofferenze fisiche, quasi che il suo valore redentivo stesse nella più forte aliquota possibile di tormenti. Come potrebbe Iddio provare gioia per le pene sofferte da una sua creatura, o addirittura dal suo stesso Figlio, oppure – semmai fosse possibile – vedere in esse addirittura la valuta con la quale va da lui comprata la redenzione? La Bibbia e la fede cristiana rettamente intesa sono ben lontane dal nutrire un’idea del genere. Non è il dolore in quanto tale che conta, bensì la vastità dell’amore, che dilata l’esistenza al punto da riunire il lontano col vicino, da ricollegare l’uomo abbandonato dal Signore con Dio. Soltanto l’amore dà un senso e un indirizzo al dolore. Se così non fosse, i veri sacerdoti dinnanzi a all’ara della croce sarebbero stati i carnefici: proprio essi infatti, che hanno provocato il dolore, sarebbero stati i ministri che hanno immolato la vittima sacrificale. Siccome invece l’accento non cadeva sulla sofferenza, bensì sull’intimo centro propulsore che la regge e la sostanzia, essi non hanno affatto rivestito questa funzione; il vero e autentico Sacerdote è stato Gesù, che ha riunito nell’abbraccio del suo amore i due capi tranciati del mondo (Ef2,13s.).
Fatti questi rilievi, in pratica abbiamo già dato una risposta all’interrogativo da cui siamo partiti, quello cioè che si chiede se non sia farsi un concetto indegno della divinità l’immaginarsi un Dio il quale esige addirittura l’uccisione di suo Figlio, per placare la sua collera. Ad una domanda del genere, si può rispondere solo così: in effetti, Dio non si può affatto immaginare in questo modo. E per di più, un tale concetto di Dio non ha nulla da spartire nemmeno con l’idea di Dio presentataci dal Nuovo Testamento. Questo infatti ci mostra un Dio che di sua spontanea iniziativa ha voluto divenire in Cristo l’Omega – cioè l’ultima lettera – nell’alfabeto della creazione. Si tratta quindi di quel Dio che è l’atto d’amore per antonomasia, la pura ‘funzione vicaria’, e che per adempierla si fa necessariamente avanti in incognito, prendendo l’aspetto d’un misero verme (Sal22[21],7). Ci troviamo di fronte al Dio che s’identifica con la sua creatura, e in questo “contineri a minimo”, ossia in questo suo lasciarsi coartare dalla più infima delle cose, pone in atto quella ‘sovrabbondanza’ che lo manifesta realmente come Dio. La croce è una Rivelazione. Essa non ci rivela una cosa qualsiasi, bensì Dio e l’uomo. Ci palesa chi sia Dio e come sia fatto l’uomo. Nella filosofia greca, si trova un tipico presagio di questo stato di cose: l’immagine del giusto crocifisso, descrittaci da Platone. Il grande filosofo, nella sua opera concernente lo Stato, si chiede come dovrebbe svolgersi la vicenda d’un uomo giusto e tutto d’un pezzo in questo mondo. E giunge alla conclusione che la rettitudine d’un uomo risulterebbe davvero perfetta e collaudata, solo allorché egli si accollasse tutta l’apparenza dell’ingiustizia, perché unicamente allora sarebbe evidente che egli non segue l’opinione degli uomini, ma si allinea invece alla giustizia unicamente per amor di essa. Sicché, secondo Platone, il vero giusto deve necessariamente essere un misconosciuto e perseguitato in questo modo; anzi, Platone non si perita di scrivere: “Direte quindi che stando così le cose, il giusto verrà flagellato, torturato, gettato in catene, accecato col ferro rovente, e infine, dopo tutto questo scempio finirà per esser crocifisso...”. Questo brano, scritto ben 400 anni avanti Cristo, continuerà sempre a commuovere il cristiano. Partendo dal più serio ed acuto pensiero filosofico, qui si presagisce che il perfetto giusto vivente nel mondo sarà il giusto crocifisso; si ha quindi un presentimento di quella rivelazione dell’uomo che si attua sulla croce. Il fatto che il Giusto integrale, allorché apparve quaggiù, abbia finito per divenire il crocifisso, il condannato a morte dalla giustizia, ci dice implacabilmente chi sia l’uomo. Guardati come sei, o uomo: incapace di sopportare il giusto, al punto che il vero amante vien trattato da pazzo, da fallito, da ripudiato! Ingiusto al punto da aver continuamente bisogno dell’ingiustizia altrui per sentirti scusato, al punto di non poter tollerare il giusto che sembra strapparti di mano questa scusa! Ecco, quello che sei! L’evangelista Giovanni ha riassunto tutto ciò nell’ “Ecce homo” (Ecco l’uomo!) di Pilato, che vuol dire appunto questo: ecco le condizioni, la fisionomia dell’uomo! La verità dell’uomo è la sua carenza di verità. L’affermazione dei salmi, secondo cui ogni uomo è un mentitore (Sal116[115],11), che vive in qualche modo contro la verità, palesa già chiaramente quale sia l’aspetto reale dell’uomo. La verità dell’uomo è quella di andar continuamente contro la verità; il giusto crocifisso è quindi lo specchio messo in faccia all’uomo, nel quale egli vede spietatamente riflessi i suoi veri tratti. La croce però non rivela soltanto l’uomo, ma ci palesa anche Dio: ecco Dio, che sprofondato in questo baratro s’identifica con l’uomo, salvandolo nell’istante stesso in cui lo giudica. Nell’abisso del fallimento umano, si rivela l’abisso ancor più insondabile dell’amor divino. La croce è quindi veramente il centro della Rivelazione, che non ci fa conoscere qualche massima sinora a noi ignota, ma ci manifesta noi stessi, svelandoci quali davvero siamo di fronte a Dio e additandoci Dio disceso in mezzo a noi.
(da J.Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia, 1979, pagg.227-238)

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