DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

IL RACCONTO DEL PANE DURO. Quell’impasto di acqua e farina nutriva i nostri giorni e le nostre speranze

di Pietrangelo Buttafuoco

Quello che si conta in questo mio
racconto è tema di un mondo che
sta morendo ai margini di tutti i mondi.
La mia casa è circondata da abitazioni
tutte defunte, accanto vi sorge
un museo di memoria rurale e nel rudere
che s’erge sul declinare del sentiero
– in cammino verso la deserta
edicola della Madonna del Quieto – vi
alloggia, sebbene dimenticato, un elegante
e intatto fantasma: il forno.
Alle pietre delle case la solitudine
non ispira che odio, odio cupo. E’ la
solita storia. E simile a grumo che si
sfarina, infatti, il rudere sdegnosamente
si nega al fasto del paesaggio,
muore come ogni momento il Re muore:
fucilato dai raggi del sole che si leva
ogni alba dai remoti monti Iblei.
Questo rudere, dunque, mio vicino,
s’assoggetta all’usura ma a farsi impettito
malgrado la certificata morte
è il solo forno.
Me lo guardo ogni volta: la sua pesante
palpebra di ciclope dell’intimità
è abbassata. Non degna l’ospite,
lui. Il coperchio di ferro, ancora solido,
protegge quello stomaco che diede
sazio e fragranza in cambio di
buona brace.
Me lo guardo e vi vedo la vita di ieri,
appena prima il morire ai margini
del mondo prossimo a finire. E ci sono
le fascine, i sacchi pieni di bucce
raspose: quelle delle mandorle, le noci.
Quindi i rimasugli dei baccelli: le
fave, i piselli, i ceci. Scheletri diafani
veloci a prender fuoco, come qualche
macchia di frasca secca. E poi la legna,
gli arbusti, i pezzi di ramo da fare
ardere nel congegno complicato di
apparecchiare le due metà: una per il
fuoco, l’altra per lo spazio dove adagiare
le forme impastate.
Alla vita viene sempre incontro la
mancanza per godere di ciò che non
c’è più, manca il contesto intorno al
forno e perciò la laboriosa processione
delle mani in pasta, l’acqua e il comodo
dove lavorare, non c’è. Non c’è
una voce che comandi ai bambini di
saltare giù dal letto e mancano i letti
finalmente sgombri di dormiglioni
dove far riposare e crescere l’impasto.
Pure la sorba si matura ma, vanità
di ogni cosa, se l’acqua diventa
nuvola per tornare ad essere pioggia,
un poco di fumo, da questo comignolo,
porterebbe l’inganno o il disinganno
dell’aver vissuto tutto questo pane
di casa?
Sono i singoli fatti a fabbricare l’eternità,
il mio mondo è morente a
margine di ogni mondo e a far la prova,
ad aprirlo, ma magari accenderlo,
ne verrebbe fuori una nuvola odorosa
dalla cubatura ampia tanta da vestire
tutta la nostalgia però è vero che la
poetica del tempo andato è fralezza
buona per mascalzoni: quelli del pittoresco.
Sono gli acquarellisti del bel
piccolo mondo antico, mangiatori di
brioche piuttosto che di crosta, il pane
duro che loro, lor signori dalle
molto glamour zanne liberalborghesi,
lasciano ben volentieri a quelli senza
denti benestanti. E quello che si conta
in questo racconto è, per l’appunto,
il pane. Ma quello dei morti che non
riescono a farsi capire dai vivi.
Nel nome della Tradizione che non
è il folk studio bensì il coltello che
veste l’uomo, il pane per me è il tesoro
custodito nella tracolla rudimentale
tenuta con un cordicella in groppa
al mulo. Il pane è grande, non è un
panino, sorge come la ruota del carro
di Arjuna che, per un ragazzo di paese,
è come dire la ruota di mulino (o
come la ruota di scorta piazzata sotto
la sponda del camion ribaltabile). E’
una palla di tepore in petto tutto il
pane che s’è mangiato tra vita e vita e
solo l’occhio roditore di un bimbo
può fare propria la festa della credenza,
ma festa fa anche al cassettone,
lo scrigno dove, pane sopra pane,
ogni famiglia teneva il tesoro di giornate
rassicurate dalla certezza di
averlo, il pane. E tutto ciò dal momento
in cui il pane è fresco e morbido,
fino a diventare infine duro, ottimo
per affilare i denti da latte dei
piccolissimi.
La forma di pane è una montagna
di prepotente crescenza e ogni fetta
elargisce nove bocconi con una bevuta
d’acqua e qualche assaggio di sapore:
la sarda, l’oliva e la dura pera delle
montagne ma meglio ancora l’anguria.
Anche il pane nel vino è una mano
santa per i debilitati e i bisognosi
di energia. Il pane basta a sé ma volentieri
chiama a compare il companatico,
lo sfizio e il capriccio. Mangiare
pane e “Tumazzo”, ossia formaggio,
è cosa da non voler finire mai di mangiare
e mangiare. Come mangiare pasta
e pane. Pasta spezzata, lenticchie
e pezzi di pane messi a bagno nel brodo
fanno la festa delle proteine, dei
minerali e del calore. E del sapore.
Col pane si recupera il delizioso
unto dell’olio residuo delle pentole,
quelle dove si sono preparate le melanzane
o i peperoni. E con i pezzi di
pane usati a sgrassare il fondo delle
pignatte usate per il ragù, per il sugo
e l’arrosto, si gusta la leccornia altrimenti
impossibile con la posate. Viatico
per il piacere delle budella è il
pane. Ma anche sigillo della moralità
è il pane. Di una donna perbene, graziosa
e ritirata, si dice che è pane di
casa.
Quello del mondo che sta morendo
è il morire dello stupore, la nostra
meraviglia risiede nella pancia grazie
alla quale lo spirito vive la sua più
lussuosa villeggiatura e così come la
giornata bella fa la vacanza, è il pane
che canta il vanto della mensa d’amore.
Certo che poi c’è l’agro e il dolce
dello struggimento ma neanche Cartesio
con “Le Passioni dell’Anima”,
nel versare il caldo nel freddo, ha saputo
decifrare la liquida suggestione
degli umori come in quell’inghiottire
e bere al contempo.
Il passatempo di paese stava nel
farsi riempire i bicchieri di granita –
passava la Lapa attrezzata con le vasche
specchiate, coi coperchi a forma
di cupola – e poi immergerci dentro
strisce di pane caldo. Col pane, infatti,
si sciorina tutta la teoria dei gusti
rintracciabili dal palato: primo, secondo,
dessert e antipasto. Il pane
“condito”, facciamo ad esempio – una
pagnotta intera spaccata a metà, aperta
e bagnata di olio con sale, pepe nero
e formaggio o alici – è una pietanza
dell’origine. Degna del Paradiso certamente,
o Campi Elisi che dir si voglia
(a dirla con Celso e il suo “Discorso
Vero”), e lo dico fuor di trasfigurazione
secolare, perché l’idea stessa di
averlo inventato il pane, nel fondo
della storia dell’uomo, non è che quel
bagliore lasciato per misericordia da
padre Giove.
Quella che si conta nel racconto
del morire è la cosmogonia assai in
uso nelle case un tempo vive ed abitate.
Impastare il pane è la replica di
una tempesta cosmica. Si smuove
l’acqua, il fuoco e il vento. Simbolo
d’intimità è il pane, prossimità col
Divino e tutti i significati: fallico e vaginale,
quando si apre, sono nel pane.
E la “tannura” che forgia la brace
è quanto di più chiaro tra le metafore
perché è l’Atanor alchemico. Se
c’è alimento universale e pagano, infatti,
quello è il pane. E così come il
Sole invitto, da lesti ladri, è stato vestito
di Natale e così come Dioniso ha
trovato la sua Croce, il Pane ha avuto
il Battesimo.
Il pane, come l’uomo, non ha urgenza
d’aggettivo: l’uomo è uomo e il
pane è pane. Il pane è la Regola e
non si mette sottosopra. Il pane non
scherza. Sono i cani infedeli che giocano
con il pane, sono smarriti nell’ignoranza
ma anche per loro, per
l’impronta pur pallida di carità rimasta
nel cuore, vedere un pezzo di pane
a terra è un turbamento. Quattro
ragazzi si ritrovarono a giocare a calcio
con una forma di pane ma il signor
maestro tante gliene diede di
legnate e nerbate sulla schiena che
quelli adesso del pane hanno fatto
dogma: “Per comprare un pezzo di
pane ogni padre si spacca la schiena
in miniera un giorno intero”. E non è
retorica, è salario. La forma del pane
– “Italiani! Amate il Pane, gioia della
mensa, profumo del focolare” – è
il sole dell’Avvenire, l’idea socialista
della Grande Proletaria che si leva
col crescente.
Non si danno le perle ai porci e figurarsi
il pane. Il pane è la squisita
preziosità dell’ineffabile, il quarto
dono segreto dei Magi venuti da
Oriente. Ed era Igor Man che offriva
agli amici il pane. E il sale. Il sale e
il sole.
Quello che si conta è il pane che
s’accoglie in bocca ed è quello che
per gli infanti è il latte. Io che appartengo
a un mondo che sta morendo
ai margini di tutti i mondi, ricordo la
fetta del pane di casa, accompagnata
con il “lustro”, ovvero, un’altra fetta
ancora più sottile. Si metteva controluce
e vi si trovava dentro il sole. Un
pezzo di pane e un pezzo di “lustro”
allora, con l’idea di fare della luce
companatico mangiando, con l’impasto
messo a cuocere, anche il grano
della terra. E la camminata senza altri
confini che la Rocca di Cerere e il
salto di Etna dallo sbuffo di fornace
fatto pane è suolo: zolla di lavoro per
quanto ne restava appiccicata agli
occhi, crosta da godere da dentro
una casa sufficiente per abitarci e
custodirci dentro un forno. “Terra
per quanto ne vedi, casa per quanto
ci stai”.
Terra, quindi: come quando smarrito
per un solo istante sotto il caldo
delle campagne nominate Valentino,
tra le spighe alte e cariche, vidi il
Diavolo nelle fattezze di una vecchia.
Aveva le vesti infiocchettate e una lama
senza denti. Un’apparizione diurna,
quella, cancellata da un segno di
Croce. Come la Croce che si fa sul pane.
Due colpi di benedizione tagliati
col coltello. Nel mondo che muore ai
margini di tutti i mondi, fare il pane
è una Messa cantata. Ed è Pasqua
perché sulla forma si spennella il
tuorlo di un uovo su cui far piovere
sesamo e papavero. Il pane che cade
a terra è come l’Ostia. Si raccoglie e
si bacia. Buttare il pane, infatti, è
peccato grave. Già era una bestemmia
vedere i carichi di arance pestati
sotto le pale meccaniche, figurarsi
infilare il pane nella munnizza, grida
vendetta al cielo e l’Antico che non
sbaglia mai, si raccomanda: “Levagli
la vita a chi ti toglie il pane”.
Quello che si conta in questo mio
racconto è tema di un morire col coltello
in mano. La favola della donna
travestita da uomo si completò quando
questa, tagliando il pane, lo fece
al modo delle femmine: tenendoselo
appoggiato al seno. E non alla maniera
dei maschi, dunque, con l’uomo
che tiene sospeso il pane nel vigore
di un taglio secco (e pollice prensile).
Per distribuire, tozzo dopo tozzo, forza
alla carne propria e quindi forza
alla casa tutta. Ma adesso ci sono gli
uomini che si tagliano la propria fetta
col pane al petto, sono loro ad essere
vivi e poi si sa: il mondo è Village
Voice, appartiene al nemico.
Non c’è più l’arte dei guerrieri,
mancano i sacerdoti e a morire, ultimi,
se ne vanno i contadini. Quelli
che mi hanno lasciato da solo, costretto
ad aver buon vicinato con le
loro pietre fucilate ogni giorno dal
sole, quelli che hanno tracciato i sentieri
dell’edicola di Maria del Quieto
dove nessun pellegrino più arriva,
piuttosto resta il forno, il fantasma.

Il Foglio 9 gennaio 2010