1. Bibbia e migrazioni
La rivelazione biblica dedica numerosi riferimenti alle relazioni interpersonali, e non solo a quelle che spiegano l’interazione tra i membri del popolo dell’alleanza, ma anche a quelle che coinvolgono gruppi di diversa estrazione etnica. Il fatto non stupisce, dal momento che la Bibbia, benché si presenti oggi nella veste di un’opera letteraria, non proviene dall’astrazione né da pura immaginazione, ma soprattutto dalla sperimentazione, prima, e poi da una caratteristica comprensione e interpretazione della realtà, specialmente di eventi, persone e fatti, alla luce della personale rivelazione divina. Anche il forestiero, perciò, è costantemente presente, spesso in chiave positiva, sebbene non manchino occorrenze adombrate da sospetto e diffidenza, soprattutto nella letteratura veterotestamentaria più recente (cf. Sir 11,29.34; 29,22-28).
2. Lo straniero nell’Antico Testamento
Nell’Antico Testamento, il forestiero trova posto in particolare nei testi legislativi e negli oracoli profetici. Qui, si focalizzano diversi modi per qualificare lo straniero: c’è l’estraneo che viene da fuori e, dunque, non appartiene al popolo eletto, ma intrattiene con esso rapporti di stretta continuità: è l’immigrato che fissa la sua dimora tra la gente di Israele, definito dal vocabolo gēr. Poi c’è il forestiero di passaggio, che non intende stabilirsi nel nuovo territorio sul quale si trova a transitare: in questo caso, il termine che lo indica è nēkār (nokrî nella forma aggettivale), al quale la Bibbia riserva meno attenzione che all’immigrato residente, proprio per il diverso statuto, che non esige una precisa regolamentazione di rapporti occasionali.
a) Prospettiva spirituale
Il libro del Levitico, dal canto suo, assimila al gēr il tôšāb, quasi a renderli sinonimi: «Voi siete presso di me come forestieri (gērîm) e inquilini (tôšābîm)» (Lv 25,23.35.47), in corrispondenza alla raccomandazione di non alienare in perpetuo la terra, perché Dio assicura che «la terra è mia» (Lv 25,23). Il ricordo di essere stati stranieri in Egitto ha segnato duramente la storia degli israeliti, al punto che gli scrittori biblici richiamano alla memoria più volte quel fatto del passato, sia per tracciare i lineamenti dell’identità nuova, acquisita con l’esperienza dell’itineranza dell’esodo, sia per orientare il positivo comportamento verso il forestiero. In effetti, il riferimento allo straniero rimanda in primo luogo all’esistenza terrena, con le sue caratteristiche di provvisorietà e di transitorietà, oltre a includere la dimensione geografica della lontananza dalla patria. Del resto, questa è la prospettiva di valore tipica della rivelazione biblica, ben riassunta nella preghiera che Davide rivolge a Dio: «Noi siamo stranieri davanti a te e pellegrini come tutti i nostri padri» (1Cr 29,15). A questo passo corrispondono, nella traduzione greca (LXX), i moduli linguistici paroikoi kai… paroikountes, che contengono l’idea di paroikia come «condizione di vita nell’estraneità», designando plasticamente la situazione che si trova ad affrontare il migrante lontano da casa sua, dalla sua patria, dal suo ambiente d’origine. Vi confluiscono i temi dello sradicamento, del disagio e dello smarrimento, così come la speranza di un avvenire più prospero e il sogno di migliori prospettive. L’argomento ritorna, ad esempio, nella fiduciosa invocazione del salmista, che confessa davanti al Signore la precarietà tipica del migrante, con queste parole:
Ascolta la mia preghiera, Signore… non essere sordo alle mie lacrime, poiché io sono un forestiero, uno straniero (paroikos kai parepidemos) come tutti i miei padri (Sal 39,13; cf. anche Sal 119,9).
b) Dimensione storica
Accanto a questo orientamento spirituale, tuttavia, non si deve trascurare il desiderio, motivato dalla contingenza storica, di regolamentare il comportamento verso il forestiero, come nel caso di Es 23,9: «Non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri nel paese d’Egitto». Il popolo biblico, mentre confessa che Dio lo ha liberato dall’oppressione e lo ha guidato verso una terra nuova, avverte fortemente lo stimolo a creare una società diversa, nella quale possano rispecchiarsi le qualità di yhwh, che si è dimostrato amante del povero e del bisognoso, difensore dell’orfano, della vedova e dell’immigrato (Dt 14,28-29; 24,17; 26,12-13; 27,19, ecc.). Così, nella terra, che appartiene a Dio e che Dio regala al popolo, l’atto di benedizione al momento dell’offerta delle primizie del suolo, che è allo stesso tempo anche atto di fede e proclamazione della memoria storica, si conclude con la condivisione della festa, alla quale partecipano anche i meno fortunati, come gli immigrati (Dt 26,1-11). Ancora, al tempo della mietitura e della bacchiatura, la spigolatura è riservata al povero e al forestiero (Lv 23,22; Dt 24,20), il quale deve essere trattato «come colui che è nato fra di voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto» (Lv 19,34). Infine, nella distribuzione delle decime si fa preciso riferimento al forestiero, insieme al levita, all’orfano e alla vedova (Dt 26,12). Insomma, appare chiaro che, nel dimostrare una benevola attenzione verso l’immigrato, gli israeliti assomigliano di più a quel Dio giusto e buono, che «ha pietà del debole e del povero, e salva la vita dei suoi miseri» (Sal 72,13), amante di tutte le sue creature, anche di quelle che necessitano maggiore tutela, per cui «protegge lo straniero» (Sal 146,9), «ama il forestiero e gli dà pane e vestito» (Dt 10,18).
c) Lo spirito umanitario della legge
In quest’ottica umanitaria, è considerato un atto di giustizia il permettere agli immigrati di partecipare alla vita della comunità, in mezzo alla quale essi hanno preso dimora, e l’essere giudicati dalla stessa legge che si applica agli israeliti (Nm 15,15). Come per i membri del popolo eletto, anche ai gērîm e ai nokrîm viene riconosciuto il diritto di asilo in caso di omicidio involontario, presso determinate città di rifugio (Nm 35,15). Il riposo festivo nel giorno di sabato spetta di diritto anche agli immigrati (Dt 5,14-15), così come compete loro il dovere di osservare i riti di espiazione (Lv 16,29) e di astenersi dal commettere immoralità (Lv 18,26). Sebbene non siano obbligati a osservare la Pasqua, essi possono tuttavia parteciparvi, ma soltanto dopo che gli uomini della famiglia siano stati circoncisi (Es 12,48-49). Per il resto, non vi può essere discriminazione di fronte a un’azione compiuta con intenzione malvagia: «La persona che agisce con deliberazione, nativo del paese o straniero insulta il Signore: essa sarà eliminata dal suo popolo» (Nm 15,30); viene perciò sancito, oltre al principio di reciprocità, anche quello dell’uguaglianza di fronte alla legge: «Vi sarà una sola legge per il nativo e per il forestiero, che è domiciliato in mezzo a voi» (Es 12,49). Dunque, dalle prescrizioni bibliche pare che gli immigrati possano godere di un certo grado di libertà e di parità con i nativi di Israele, ma solamente nel quadro di una progressiva assimilazione al sistema di vita degli ospitanti. Di fatto, soltanto in forza della circoncisione un gēr maschio viene equiparato a un israelita e i suoi figli possono essere integrati nella comunità di Israele. Una norma, questa, che ostacolerà anche la comunità cristiana delle origini, la quale, però, saprà oltrepassarla e aprire le porte a tutti coloro che non rifiutano di accogliere la pluralità delle diversità, nella tensione escatologica verso l’unità in Cristo, «erede di tutte le cose» (Eb 1,2), nella misura della pienezza che caratterizza «l’uomo perfetto» (Ef 4,13), con la consapevolezza che «coloro che seguono la via» (At 9,2) «vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è terra straniera» (Lettera a Diogneto V, 5). È proprio questo orientamento cristologico-escatologico, nel novum del dinamismo ecclesiale, che costituisce il fondamento dell’esigenza cristiana di non lasciare nulla di intentato per diventare accoglienti e ospitali nei confronti del diverso, dello straniero, dell’immigrato.
3. Il dovere sacro dell’ospitalità e la novità dell’accoglienza
In effetti, l’Israele antico troverà sempre difficile il percorso della tolleranza, dell’apertura, dell’accoglienza, nonostante gli stimoli, i suggerimenti, le ingiunzioni e i rimproveri. Soprattutto la letteratura sapienziale offre dinamiche di apertura allo straniero, ma conservando l’esigenza di fargli accettare i propri schemi religiosi e rivelando, in questo modo, un tipico conflitto tra universalismo ideale e particolarismo di fatto. La conquista dell’importante tappa della filantropia, anche teologicamente motivata, in pratica, costituisce un traguardo, che non apre nuovi orizzonti all’Israele biblico. Questi condivide con il mondo del vicino Oriente antico l’apprezzamento per il valore sacro dell’ospitalità, il quale forma, così, un argomento di notevole spessore. Esso, tuttavia, non incorpora tutta la magnanima bontà dell’accoglienza, come realtà fondata cristologicamente ed ecclesiologicamente, che va intesa non già come comportamento pratico-concreto, ma anzitutto come atteggiamento di apertura positiva verso Dio, verso il prossimo e verso l’annuncio del kerygma, come ben attestano soprattutto i Vangeli e l’epistolario paolino. In realtà, il definitivo giro di boa, con la predicazione di Gesù e la vita della Chiesa, è garantito da un importante cambiamento di prospettiva, dove appunto avviene il passaggio dall’ospitalità come impegno-dovere pratico di primo soccorso verso l’altro, anche straniero-immigrato, alla diakonia dell’accoglienza, che precede, motiva e ingloba le dinamiche operative della carità.
4. Accoglienza e ospitalità nel Nuovo Testamento
Sotto questo profilo, Gesù raccomanda l’ospitalità, ma punta soprattutto sull’accoglienza: del resto, egli non ha la possibilità di offrire un rifugio o un ricovero materiale, visto che non ha neppure dove poggiare il capo (Mt 8,20). Però, per primo egli dimostra verso tutti un atteggiamento di amorevole sollecitudine: verso la gente che accorre, da diverse parti della regione, per sentire la sua parola (cf. Mt 4,25), nei confronti dei malati che chiedono di essere guariti, benché forestieri (cf. Mt 15,21-28), con i bambini che le mamme gli conducono perché li benedica (Mt 19,13-15; Mc 10,13-16; Lc 18,15-17). Nell’esperienza storica di Gesù, gli evangelisti notano che anch’egli sperimenta l’intimità dell’amicizia, come nella casa di Betania, dove «una donna, che si chiamava Marta, lo accolse in casa sua» (Lc 10,38), ma condivide anche la gioia dei lontani, che si lasciano convertire dalla sua accogliente presenza, come nel caso di Zaccheo a Gerico (Lc 19,6), o di Matteo a Cafarnao (Mc 2,14-15).
a) Il prossimo
L’accoglienza, il farsi prossimo, è caratteristica fondamentale di Gesù, riassunta nella parabola del Samaritano, che manifesta la misericordiosa bontà dell’uomo nell’incontro con il suo prossimo, sebbene questi appartenga ad altra etnia, professi un diverso credo religioso o si identifichi in differenti tradizioni socio-culturali (Lc 10,25-37). In effetti, l’occasione di questo racconto parabolico è fornita da una questione posta a Gesù da un nomikos, cioè un esperto della Tôrah, preoccupato non tanto che si ribadisca il comandamento mosaico dell’amore, quanto che si determini l’ambito in cui si deve applicare la legge, dal momento che nella concezione giudaica il prossimo si configura all’interno del contesto dell’alleanza, dove appunto si colloca la legge. Gesù, invece, con una contro-domanda, rinvia il suo interlocutore alla vita, sollecitandolo a confrontarsi con i fatti, con la realtà, con la durezza del quotidiano, dove si incontrano donne e uomini nel bisogno. Ecco perché agli esponenti dell’ortodossia – il «dottore della legge» – Gesù contrappone un rappresentante degli esclusi – l’eretico Samaritano –: d’ora in poi solo l’amore compassionevole sarà la chiave per definire il prossimo, al di là delle distinzioni e delle separazioni di carattere religioso, culturale o etnico. La tensione presente nel testo lucano tra il prossimo come oggetto e il prossimo come soggetto di amore si scioglie proprio nel riferimento al dinamismo vitale di quella compassionevole bontà, che Luca applica con insistenza a Gesù, ad esempio davanti alle lacrime della vedova di Nain (Lc 7,13) e nell’incontro tra il figlio perduto e la sconfinata speranza del padre (Lc 15,20), così come nello sconvolgimento interiore che il Samaritano avverte alla vista del malcapitato sulla strada da Gerusalemme a Gerico (Lc 10,33). Dunque, chi vuole ereditare la vita, attuando l’unico amore che abbraccia Dio e il prossimo, deve collocarsi in questa nuova angolazione, che rende le persone vicine e solidali.
b) La reciprocità
In seguito, attorno alla presenza eucaristica del Maestro, viva e reale, si formano le comunità cristiane, che tuttavia non sono esenti da conflitti e tensioni.
Un esempio interessante, per approfondire la riflessione sull’interazione tra gruppi di diversa estrazione etnico-religiosa, si legge nella lettera ai Romani. Le esortazioni di Rm 14,1-2 e 15,7, in particolare, s’inquadrano al centro delle considerazioni di Paolo sull’importanza dell’accoglienza reciproca, appunto imitando l’atteggiamento accogliente di Cristo:
Accogliete tra voi chi è debole nella fede, senza mettervi a discutere le sue convinzioni;
Accoglietevi gli uni gli altri, come Cristo ha accolto voi, per la gloria di Dio.
Il pensiero paolino prende il via dai dissensi sorti a motivo di diverse tradizioni alimentari e cultuali, ma subito decolla a delineare una realtà di comunione ben più profonda, suggerita anche dal ricorso al verbo greco proslambanein, in sostituzione della tipica designazione dell’offerta ospitale descritta da xenizein. Nelle relazioni interpersonali, dunque, Paolo raccomanda una sintonia decisamente più vasta e impegnativa, quella stessa che suggerirà ai credenti di realizzare nell’occasione dell’arrivo di Epafrodito (Fil 2,29), di Febe (Rm 16,1-2), di Tito (2Cor 8,22-24); quella che esigerà da Filemone nei confronti del nuovo fratello Onesimo (Fm 17); quella che ricorderà di aver sperimentato di persona al suo primo contatto con i pagani della Galazia (Gal 4,12-15).
c) L’agapē
Paolo, del resto, è convinto che non vi può essere vera agapē che non comprenda in se stessa anche l’accoglienza; come pure non si può trovare accoglienza, nel senso cristiano, che non proceda da vera carità. Altrimenti si avrebbe semplice filantropia o cordiale umanitarismo. Ora, tra i significati originari del verbo agapan vi è appunto quello di accogliere. Per questo, nel suo celebre elogio dell’agapē, Paolo dice esplicitamente che «la carità è benigna» (1Cor 13,4) ossia, secondo la forza del termine greco qui impiegato (chresteuetai), è bontà, delicatezza e sensibilità (cf. Mt 11,30; Lc 5,39), tutte virtù di chi ha un animo comprensivo e un cuore aperto e ricettivo verso l’altro. È in questa linea che, nella lettera ai Romani, volendo mettere in luce l’agapē, Paolo ricorda che Cristo, che è la fonte e il modello della carità, ha dimostrato il suo amore «accogliendo» i credenti, benché fossero peccatori, nella comunione trinitaria (Rm 14,3; 15,7). Ecco perché, nella stessa lettera, si dilunga scrivendo:
La carità sia senza ipocrisie. Nell’amore fraterno siate affettuosi gli uni verso gli altri; nell’onore prevenitevi scambievolmente; nella sollecitudine non siate pigri. Siate ferventi nello spirito; servite il Signore; siate allegri nella speranza, pazienti nell’afflizione, perseveranti nella preghiera; pronti a condividere le necessità dei santi, premurosi verso i forestieri (Rm 12,9-13).
La vera agapē, pertanto, si manifesta nel nutrire vicendevolmente gli stessi sentimenti, nel praticare le stesse virtù, nel prendere a cuore la sorte gli uni degli altri e nell’andare incontro alle necessità del prossimo.
Così intesa, essa non può esaurirsi nei confini della comunità. È vero che la fraternità impegna anzitutto quelli che sono «dentro» di fronte ad altri che sono «fuori» (1Cor 5,11-13), ma nella logica del lievito a beneficio di tutta la pasta (Mt 13,33; Lc 13,21; 1Cor 5,6; Gal 5,9), del sale che insaporisce i cibi (Mt 5,13; Mc 9,50) e della fiaccola che illumina l’intera casa (Mt 5,15-16; Lc 11,33-36). All’interno della comunità si pratica la correzione fraterna (Mt 18,15) in vista della reciproca sollecitudine (1Cor 8,12; 2Cor 9,1; Gal 6,10), facendo attenzione all’intromissione di «falsi fratelli» (2Cor 11,26; Gal 2,4-5). Tuttavia, anche se forse in seconda battuta, l’agapē deve comunque indirizzarsi pure all’esterno, abbracciando tutti in vista di formare, nella varietà dei carismi, il medesimo corpo di Cristo (Rm 12,4-5; 1Cor 12,12-27). Un motivo, questo, che dà contenuto all’idea originaria di paroikia, che oggi abbiamo perduto. Nell’etimologia del vocabolo, infatti, par-oikos/oikia punta a configurare coloro che vivono lontano dall’oikos per essere vicini alla patria autentica, quella celeste, verso la quale tutta l’umanità è in cammino, evidenziando il riferimento alla consapevolezza di condurre l’esistenza nella dinamica del pellegrinaggio. Ecco allora che l’itinerario comune e la partecipazione alla medesima condizione di itineranza motivano la sollecitudine dell’agapē, dove la comunità ecclesiale è chiamata a essere «l’anima del mondo» (Lettera a Diogneto VI, 1).
5. Il fondamento cristologico dell’autentica accoglienza
Queste ragioni, di ordine cristologico ed ecclesiologico, stanno alla base della preoccupazione di Paolo per i poveri delle comunità più bisognose, ma anche della sua insistenza nel raccomandare una particolare attenzione verso tutti i forestieri, gli ospiti e i pellegrini. In definitiva, il «missionario dei pagani» si dimostra in sostanziale accordo con la lezione matteana del giudizio finale, dove si attesta che chi accoglie l’altro come un fratello entra in contatto con Gesù stesso. Infatti, Gesù si identifica nel volto bisognoso del prossimo: «Chi accoglie uno di questi piccoli nel mio nome, accoglie me» (Mt 18,5) e «ogni volta che avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40.45). Poi si precisa nei dettagli: «Poiché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25,35). Nell’ultimo riferimento, l’evangelista ricorre al verbo synagein per spiegare che non s’intende il mero esercizio di un’opera di misericordia. Si suggerisce, in verità, un’accoglienza fatta di partecipazione, condivisione, integrazione e interazione: l’altro, soprattutto nel caso dello straniero, non ha bisogno soltanto di essere accudito, ma necessita altresì di essere riconosciuto e tutelato nella sua dignità di persona umana. Il verbo synagein, infatti, designa tipicamente l’adunanza dell’assemblea (da cui deriva, tra l’altro, la synagogē), dove la comunione si fortifica mediante la convocazione, il raduno e la compartecipazione. La comunità cristiana, dunque, sarà veramente tale se saprà rendere partecipe anche l’immigrato dei suoi beni e dei suoi valori, come la Parola e l’eucaristia, senza dimenticare, ovviamente, la pratica del soccorso caritativo. Qui, in ogni caso, si apre l’arduo itinerario dell’inculturazione del kerygma, dov’è importante evitare la tentazione dell’esaltazione o del primato delle singole culture, per orientare il cammino alla responsabilità reciproca di giungere alla vita in abbondanza e quindi a Gesù Cristo, che è pienezza di vita. Infatti, l’inculturazione ha il suo significato nella promozione della vita in Cristo, che è contrassegnata dall’accoglienza, dalla relazione e dalla comunione.
6. Filantropia e agapē
In conclusione, l’esperienza di fede e la riflessione teologica della comunità cristiana, non meno che il confronto con la realtà del quotidiano, hanno stimolato la maturazione di una convinzione di fondo: il solo disbrigo della concretezza filantropica non è sufficiente. Certo, l’assistenza umanitaria è già un’importante conquista, che merita lode e incoraggiamento. Corrisponde, ad esempio, alla prontezza servizievole di Abramo alle querce di Mamre (Gn 18,1-8), all’attenta sensibilità di Lot verso gli stranieri giunti a Sodoma sul far della sera (Gn 19,1-3), all’insistente premura del suocero del levita di Efraim (Gdc 19,1-10), alla sollecitudine di Rahab a Gerico (Gs 2,1-21), alla filantropia di Giobbe (31,32) o alla generosità ospitale, attestata da numerosi passi biblici. Ma non è sufficiente. Per essere completa, l’agapē deve farsi ascolto, interazione, dialogo e interscambio: insomma, l’altro, anche l’immigrato, non è più soltanto «oggetto» di attenzione, ma diventa protagonista di nuove relazioni interpersonali. Il migrante è al centro della dimensione pastorale della Chiesa, ma nel ruolo di attivo interlocutore, non solo come destinatario di un servizio[1].
In definitiva, si ribadisce l’importanza di favorire, promuovere e difendere la centralità e la dignità della persona, di ogni persona, tutta la persona, di tutte le persone senza eccezione alcuna, con la ferma convinzione che «la principale risorsa dell’uomo… è l’uomo stesso»[2] e che, nella complessità dei movimenti migratori, «il migrante è assetato di “gesti” che lo facciano sentire accolto, riconosciuto e valorizzato come persona» (EMCC 96).
Puntare sull’accoglienza, quindi, significa non fermarsi alle molteplici attività assistenziali e caritative, di appoggio e di conforto della persona umana, ma qualificare anzitutto, con la prospettiva escatologica dell’unità di tutto il genere umano, la forza della motivazione cristiana della missione, che precede la vasta articolazione del fare e si attesta nella vitale dinamicità dell’essere.
Nota bibliografica
G. Bentoglio, Apertura e disponibilità. L’accoglienza nell’epistolario paolino, PUG, Roma 1995.
Id., Il ministero di Paolo in catene (Fm 9), in «Rivista Biblica» 53 (2005) 173-189.
B. Byrne, The Hospitality of God. A Reading of Luke’s Gospel, St Paul’s Publ., Strathfield 2000.
I. Cardellini (ed.), Lo «straniero» nella Bibbia, EDB, Bologna 1996.
C. Di Sante, Lo straniero nella Bibbia. Saggio sull’ospitalità, Città Aperta, Troina 2002.
J. Schreiner - R. Kampling, Il prossimo, lo straniero, il nemico, EDB, Bologna 2001.