Possiamo guardare al pontificato di Benedetto XVI nel 2009 sotto molti punti di vista. Io ho scelto quello che mi pare essere, per eventi e interventi del Papa, il più significativo: la sua preoccupazione per la comunione nella verità della Chiesa. Ricordiamo tutti il gesto misericordioso con cui ha tolto la scomunica ai quattro vescovi lefebvriani, un atto purtroppo stravolto nei suoi intenti più veri dalle dichiarazioni del vescovo negazionista e un gesto culminato con la prima assoluta di un papa che scrive ai suoi fratelli nell’episcopato una lettera di chiarificazione. Poi, in autunno, l’uscita del documento con le norme per accogliere nella comunione cattolica fedeli, preti e vescovi anglicani in difficoltà con alcune posizioni della loro Chiesa. Un evento che ha registrato un mix di applausi, timori e critiche. A questi due avvenimenti che hanno fatto discutere, ne aggiungo un terzo: la firma dei decreti di venerabilità di papa Wojtyla e di Pio XII, lo stesso giorno.
I commenti non sono mancati neppure qui. La piazza definisce queste decisioni, di volta in volta, frutto della politica ecclesiale, del compromesso di governo o dell’inflessibilità dottrinale di Ratzinger. Sembra, a prima vista, che questi gesti siano semplicemente un’apparente concessione a destra ed una a sinistra, un’apertura da una parte e una dall’altra, lefebvriani e anglicani, insieme, due papi così “diversi”, venerabili lo stesso giorno. Ma Benedetto XVI non è un diplomatico, un politico o uno stratega e neppure ritiene la Chiesa un centro di potere. È un teologo ed è Successore di Pietro. Chi conosce il suo pensiero, sa bene che per lui la verità è intesa come “sinfonia”, secondo un concetto antico, che risale alle origini della cristianità, ripreso e reso famoso da un teologo svizzero scomparso nel 1988, Hans Urs von Balthasar.
Benedetto XVI con le sue scelte sottolinea il recupero di questa verità sinfonica che si esprime nella ricerca di un’unità dove le differenze non si scompongono e auto-isolano nei particolarismi, ma si saldano in una reciprocità d’amore che guarda sempre al bene più grande, cioè ad una verità piena, totale e armonica. Le grandi decisioni di questo Papa, in questi casi dove c’è in ballo la comunione ecclesiale, stanno nella piena attualizzazione del Concilio Vaticano II e nella piena valorizzazione di tutta la tradizione. Nessun revival di quel conservatorismo che va a cercare l’antico per soddisfare semplicemente una finalità estetica, e neppure innovazione se questa finisce con lo spezzare il legame con i principi costitutivi della fede e delle pratiche di fede. Per questo, il Papa sa concedere quel che è necessario ai tradizionalisti lefebvriani e sa fare altrimenti con gli anglicani; per questo rende venerabile Karol Wojtyla in contemporanea con Eugenio Pacelli. L’unità è il bene più grande della Chiesa e la scommessa su una verità sinfonica ed una comunione che integra le differenze quando sono nell’alveo di ciò che è legittimamente cattolico, sono le ragioni di questi suoi gesti, a taluni apparentemente contraddittori.