DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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Le cose grandi della vita non possiamo realizzarle, possiamo solo sperarle. La buona novella della fede è che esiste Colui che può donarcele

l 12 maggio, mentre Benedetto XVI era in Portogallo, si è aperto a Monaco di Baviera, la città di cui è stato arcivescovo, il secondo Kirchentag ecumenico, che ha riunito cristiani di diverse denominazioni e credenti di altre fedi sul tema della speranza.

Papa Joseph Ratzinger ha indirizzato ai convenuti il seguente messaggio. Che non è affatto una compilazione d’ufficio ma è palesemente tutto di suo pugno e svela in pieno il modo con cui egli guarda alla “passione” presente della Chiesa, campo pieno di zizzania eppure sempre ricco di speranza di “vita eterna”.


Cari fratelli e sorelle in Cristo,

da Roma saluto tutti coloro che si sono riuniti sulla Theresienwiese a Monaco per la celebrazione liturgica in apertura del secondo Kirchentag ecumenico. Ricordo volentieri gli anni in cui ho vissuto nella bella capitale della Baviera, come arcivescovo di Monaco e Frisinga. Rivolgo, quindi, un saluto speciale all’arcivescovo di Monaco e Frisinga Reinhard Marx, e al vescovo regionale luterano Johannes Friedrich. Saluto tutti i vescovi tedeschi e di molti paesi del mondo, e, in modo speciale, anche i rappresentanti delle altre Chiese e comunità ecclesiali e tutti i cristiani che partecipano a questo evento ecumenico. Saluto inoltre i rappresentanti della vita pubblica e tutti coloro che sono presenti attraverso la radio e la televisione. La pace del Signore risorto sia con tutti voi!

“Affinché abbiate speranza”: con questo motto vi siete riuniti a Monaco. In un tempo difficile, volete inviare un segnale di speranza alla Chiesa e alla società. Per questo vi ringrazio molto. Infatti, il nostro mondo ha bisogno di speranza, il nostro tempo ha bisogno di speranza. Ma la Chiesa è un luogo di speranza? Negli ultimi mesi ci siamo dovuti confrontare ripetutamente con notizie che ci vogliono togliere la gioia nella Chiesa, che la oscurano come luogo di speranza. Come i servi del padrone di casa nella parabola evangelica del regno di Dio, anche noi vogliamo chiedere al Signore: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?” (Mt 13, 27).

Sì, con la sua Parola e con il sacrificio della sua vita il Signore ha davvero seminato del buon seme nel campo della terra. È germogliato e germoglia. Non dobbiamo pensare solo alle grandi figure luminose della storia, alle quali la Chiesa ha riconosciuto il titolo di “santi”, ovvero completamente permeati da Dio, risplendenti a partire da Lui. Ognuno di noi conosce anche le persone comuni, non menzionate in alcun giornale e non citate in alcuna cronaca, che a partire dalla fede sono maturate raggiungendo una grande umanità e bontà. Abramo, nella sua appassionata disputa con Dio per risparmiare la città di Sodoma ha ottenuto dal Signore dell’universo l’assicurazione che se ci saranno dieci giusti non distruggerà la città (cfr. Gen 18, 22-33). Grazie a Dio, nelle nostre città ci sono molto più di dieci giusti! Se oggi siamo un po’ attenti, se non percepiamo solo il buio, ma anche ciò che è chiaro e buono nel nostro tempo, vediamo come la fede rende gli uomini puri e generosi e li educa all’amore. Di nuovo: La zizzania esiste anche in seno alla Chiesa e tra coloro che il Signore ha accolto al suo servizio in modo particolare. Ma la luce di Dio non è tramontata, il grano buono non è stato soffocato dalla semina del male.

“Affinché abbiate speranza”: questa frase vuole prima di tutto invitarci a non perdere di vista il bene e i buoni. Vuole invitarci a essere noi stessi buoni e a ridiventare buoni sempre, vuole invitarci a discutere con Dio per il mondo, come Abramo, cercando noi stessi, con passione, di vivere dalla giustizia di Dio.

La Chiesa è dunque un luogo di speranza? Sì, poiché da essa ci giunge sempre e di nuovo la Parola di Dio, che ci purifica e ci mostra la via della fede. Lo è, poiché in essa il Signore continua a donarci se stesso, nella grazia dei sacramenti, nella parola della riconciliazione, nei molteplici doni della sua consolazione. Nulla può oscurare o distruggere tutto ciò. Di questo dovremmo essere lieti in mezzo a tutte le tribolazioni. Se parliamo della Chiesa come luogo della speranza che viene da Dio, allora ciò comporta, allo stesso tempo, un esame di coscienza: Che cosa faccio io della speranza che il Signore ci ha donato? Davvero mi lascio modellare dalla sua Parola? Mi lascio cambiare e guarire da Lui? Quanta zizzania in realtà cresce dentro di me? Sono disposto a sradicarla? Sono grato del dono del perdono e disposto a perdonare e a guarire a mia volta invece che a condannare?

Domandiamo ancora una volta: Che cos’è veramente la “speranza”? Le cose che possiamo fare da soli non sono oggetto della speranza, bensì un compito che dobbiamo svolgere con la forza della nostra ragione, della nostra volontà e del nostro cuore. Ma se riflettiamo su tutto ciò che possiamo e dobbiamo fare, allora notiamo che non possiamo fare le cose più grandi, le quali ci giungono solo come dono: l’amicizia, l’amore, la gioia, la felicità.

Vorrei osservare ancora una cosa: tutti noi vogliamo vivere, e anche la vita non ce la possiamo dare da soli. Quasi nessuno, però, oggi parla ancora della vita eterna, che in passato era il vero oggetto della speranza. Poiché non si osa credere in essa, bisogna sperare di ottenere tutto dalla vita presente. L’accantonare la speranza nella vita eterna porta all’avidità per una vita qui e ora, che diventa quasi inevitabilmente egoistica e, alla fine, rimane irrealizzabile. Proprio quando vogliamo impossessarci della vita come di una sorta di bene, essa ci sfugge.

Ma torniamo indietro. Le cose grandi della vita non possiamo realizzarle noi, possiamo solo sperarle. La buona novella della fede consiste proprio in questo: esiste Colui che può donarcele. Non veniamo lasciati soli. Dio vive. Dio ci ama. In Gesù Cristo è diventato uno di noi. Mi posso rivolgere a lui e lui mi ascolta. Per questo, come Pietro, nella confusione dei nostri tempi, che ci persuadono a credere in tante altre vie, gli diciamo: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6, 68s).

Cari amici, auguro a tutti voi, che siete riuniti sulla Theresienwiese a Monaco, di essere di nuovo sopraffatti dalla gioia di poter conoscere Dio, di conoscere Cristo e che Egli ci conosce. È questa la nostra speranza e la nostra gioia in mezzo alle confusioni del tempo presente.

Dal Vaticano, 10 maggio 2010

Benedictus PP. XVI


Grazie Sandro Magister "Settimo Cielo"

Il Papa al Kirchentag: Chiesa luogo di speranza nonostante la zizzania al suo interno

Anche nei momenti di tribolazione, la Chiesa resta luogo della speranza: è quanto scrive Benedetto XVI nel messaggio inviato ai partecipanti al Kirchentag, la Giornata ecumenica delle Chiese, apertasi ieri a Monaco di Baviera, sul tema “Affinché abbiate la speranza”. Nonostante la zizzania presente tra quanti sono chiamati al servizio del Signore, sottolinea il Papa, il Signore ci purifica e ci indica la via della fede. Il servizio di Alessandro Gisotti:

“La Chiesa è veramente luogo di speranza?”: Benedetto XVI muove da questo interrogativo nel suo messaggio al Kirchentag. Una domanda, riconosce, che si è fatta più urgente in questi mesi in cui “siamo stati confrontati costantemente con notizie che vorrebbero toglierci la gioia della Chiesa, oscurarla come luogo di speranza”. Come fecero i servi del padrone nella parabola del Regno dei Cieli, scrive il Papa, anche noi ci chiediamo da dove venga la zizzania. Una zizzania, prosegue, che “esiste proprio in mezzo alla Chiesa e tra coloro che il Signore in modo particolare ha chiamato al suo servizio”. Eppure, rassicura, “la luce di Dio non è tramontata, il frumento buono non è stato soffocato dalla semina del male”. Anzi, afferma, “se osserviamo non soltanto quanto vi è di oscuro, ma anche quello che è luminoso nel nostro tempo, vediamo come la fede renda le persone pure e buone e le educhi all’amore”.

La Chiesa, ribadisce il Papa, è dunque luogo di speranza, “perché da essa continua a venire a noi la Parola di Dio che ci purifica e ci indica la via della fede”. Il Signore, soggiunge, “continua a donarsi nella grazia dei Sacramenti” e “questo non può essere oscurato né distrutto dal nulla”. Di questo, si legge ancora, “dobbiamo gioire nei momenti di tribolazione”. Tuttavia, è il monito del Papa, parlare della Chiesa come “luogo della speranza che viene da Dio” implica allo stesso tempo “un esame di coscienza”, verificando se siamo disposti ad estirpare la zizzania che è in noi.

Ma che cos’è la speranza, si chiede ancora Benedetto XVI? “Mentre riflettiamo su tutto quello che possiamo e dobbiamo fare – constata – ci rendiamo conto che le cose più grandi non le possiamo fare”. Esse, annota il Papa, “possono venire a noi soltanto come un dono: l’amicizia, l’amore, la gioia, la felicità”. Anche la vita, prosegue, “non possiamo darcela da soli”. Oggi, aggiunge, “quasi nessuno parla più della vita eterna, che una volta era il vero oggetto della speranza”. Senza speranza, infatti, vediamo che la vita “inevitabilmente diventa egoista e alla fine rimane insaziata”. Ecco allora che comprendiamo la vera fonte della speranza: è Gesù Cristo. “Noi – scrive il Papa – non siamo stati lasciati soli. Dio è vivo”, “possiamo rivolgerci a Lui e Lui mi ascolta”. Noi “possiamo conoscere Dio” e “Lui conosce noi”. Questa, conclude il Papa, è “la nostra speranza e la nostra gioia”.

La Conferenza missionaria di Edimburgo nella storia del dialogo ecumenico Coraggiosi precursori

A cento anni dalla Conferenza missionaria mondiale di Edimburgo si svolge venerdì 25 presso il convento di San Francesco della Vigna a Venezia un convegno dedicato alla storia del dialogo ecumenico. Anticipiamo stralci di una delle relazioni.

di Riccardo Burigana

"Nell'estate del 1910, nella capitale scozzese si incontrarono oltre mille missionari, appartenenti a diversi rami del Protestantesimo e dell'Anglicanesimo, a cui si unì un ospite ortodosso, per riflettere insieme sulla necessità di giungere all'unità per annunciare credibilmente il Vangelo di Gesù Cristo. (...) Ad un secolo di distanza dall'evento di Edimburgo, l'intuizione di quei coraggiosi precursori è ancora attualissima".
Con queste parole Benedetto XVI ha evocato la Conferenza mondiale missionaria di Edimburgo nell'omelia della celebrazione dei vespri per la conclusione della Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani, il 25 gennaio 2010, nella basilica di San Paolo fuori le Mura. Le parole del Papa descrivono il carattere della Conferenza missionaria di Edimburgo alla luce del dialogo ecumenico del xx secolo, ponendo l'accento sui "coraggiosi precursori", le cui intuizioni rimangono ancora di grande attualità. Si tratta di uomini come il metodista statunitense John Charles Mott (1865-1955), presidente della Conferenza e successivamente eletto presidente del Consiglio missionario internazionale, come il missionario scozzese John Oldham (1874-1969), primo segretario del Consiglio missionario internazionale, o come l'episcopaliano Charles Brent (1862-1929), solo per citare tre nomi, che furono protagonisti della Conferenza di Edimburgo e della successiva stagione pioneristica del dialogo ecumenico.
Partendo da Edimburgo per volgere lo sguardo al futuro del dialogo ecumenico, si devono presentare le vicende storiche della Conferenza di Edimburgo con una particolare attenzione all'attività missionaria della quale la Conferenza faceva formalmente parte, e successivamente delineare alcuni elementi per comprendere le radici della dimensione ecumenica assunta dalla Conferenza, anche nell'immaginario collettivo dei cristiani del xx secolo per i quali la Conferenza di Edimburgo coincide con l'inizio del dialogo ecumenico.
Da Edimburgo non emerse un'univoca indicazione sull'unità della Chiesa; ci furono interventi in questa direzione, ma essi assunsero un valore particolare anche alla luce dei tanti passi compiuti prima di Edimburgo nella direzione di una riflessione che ponesse in termini nuovi la questione dell'unità della Chiesa. La riflessione sull'unità a Edimburgo e, soprattutto, i passi concreti che seguirono la Conferenza furono resi possibili da una serie di elementi che caratterizzano la vita delle Chiese nella seconda metà del xix secolo, accompagnando l'azione missionaria ma andando ben oltre questa dimensione dell'esperienza cristiana. Tra questa molteplicità di fattori è opportuno indicarne tre: la riscoperta della Sacra Scrittura, la storicizzazione delle vicende del XVI secolo e la nascita di organizzazioni interconfessionali studentesche.
Nel corso del XIX secolo si ha una generalizzata riscoperta della Sacra Scrittura; essa assunse forme molto diverse da contesto a contesto, ma è indubbio che segna profondamente la vite delle Chiese sotto molti aspetti. Infatti non si tratta di limitarsi a ripercorrere la straordinaria stagione dello studio storico-critico del testo biblico, con le reazioni e le controreazioni che attraversarono il mondo evangelico e la Chiesa cattolica di fronte a questo approccio alla Scrittura, coinvolgendo molti cristiani in un animato dibattito sul valore della Scrittura, sulle regole dell'esegesi, sul rapporto tra Scrittura e magistero; su questi aspetti si è molto scritto anche in relazione all'istituzione di luoghi del sapere biblico, come il Pontificio Istituto Biblico di Roma, e per questo non mi voglio soffermare, se non per invitare a riflettere su come queste iniziative erano parte di un processo più ampio che venne alimentato da una sensibilità nuova nei confronti del testo biblico, grazie alla diffusione capillare della Bibbia nel mondo.
Il secondo elemento è costituito dal processo di storicizzazione delle vicende religiose del XVI secolo; esso coinvolge progressivamente tutti i cristiani con un rinnovato interesse per la conoscenza storico-teologica a partire da una lettura delle fonti di quel periodo, nel quale maturò non solo la frammentazione del cristianesimo occidentale ma la creazione di nuove Chiese, fortemente contrapposte le une alle altre. Questo processo dipese da una molteplicità di cause, alcune delle quali completamente estranee a una qualunque riflessione religiosa, come nel caso del recupero di alcuni personaggi del XVI da parte del nazionalismo esasperato che se ne impadronì per farne dei campioni dell'intolleranza identitaria, che venne evocata anche a Edimburgo come uno dei mali da combattere. Il recupero delle fonti e la pubblicazione di tanti studi, di fatto, contribuì alla relativizzazione di molti elementi teologici che erano stati considerati ostacoli insormontabili per un dialogo tra cristiani, dal momento che si cominciò, da un punto di vista inizialmente puramente storico, a separare il fatto dalla sua interpretazione, attraverso un'attenta contestualizzazione delle vicende storiche del XVI secolo. Questo processo venne favorito, e a sua svolta favorì, una migliore conoscenza delle opere dei riformatori e del concilio di Trento, consentendo così di tornare alle fonti delle riforme religiose del XVI secolo, con il recupero di molte delle loro ricchezze e con un'immediata ricaduta nell'azione missionaria.
Il terzo elemento è rappresentato dalla nascita e dallo sviluppo delle organizzazione interconfessionali studentesche a partire dalla seconda metà del xix secolo: tappa fondamentale di questo processo è la fondazione nel 1895 nella cittadina svedese di Vadstena della Federazione mondiale degli studenti cristiani, che rappresentò una palestra ecumenica per molti decenni, dal momento che divenne il luogo nel quale si faceva esperienza di una nuova dimensione della fede attraverso l'incontro tra studenti di tradizioni cristiane, tendenzialmente di origine riformata, che scoprivano di condividere memorie e speranze.


(©L'Osservatore Romano - 25 marzo 2010)

Anglicani canadesi chiedono la creazione di un ordinariato cattolico

Si tratta dei membri della Comunione Tradizionale Anglicana


TORONTO, venerdì, 19 marzo 2010 (ZENIT.org).- La Chiesa Anglicana Cattolica del Canada, una delle province della Comunione Tradizionale Anglicana (Traditional Anglican Communion, TAC), ha chiesto alla Santa Sede di creare per questa realtà un ordinariato cattolico.

La richiesta appare in una lettera inviata il 12 marzo dal collegio dei suoi Vescovi al Cardinale William Levada, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, seguendo quanto stabilito dalla Costituzione Apostolica Anglicanorum coetibus di Benedetto XVI.

“In risposta al suo invito a contattare il suo dicastero per avviare il processo da voi delineato, chiediamo rispettosamente che la Costituzione Apostolica sia implementata in Canada”, si legge nel testo.

I tre Vescovi firmatari chiedono “di istituire un Consiglio di governo ad interim di tre sacerdoti (o Vescovi)” e di “dare a questo Consiglio il compito e l'autorità di proporre a Sua Santità una terna di nomi per la nomina dell'ordinario iniziale”.

Firmano il documento i reverendi Peter Wilkinson, OSG, Vescovo diocesano; Craig Botterill, Vescovo suffraganeo per il Canada Atlantico; Carl Reid, Vescovo suffraganeo per il Canada Centrale.

“Speriamo e preghiamo che queste proposte possano essere utili all'avvio del processo stabilito dalla risposta gentile e generosa del Santo Padre alla nostra richiesta”, concludono.

Gli anglicani canadesi della TAC portano così avanti i passi dei loro fratelli in Inghilterra, America Centrale e Stati Uniti e dei membri di Forward in Faith Australia.

La Comunione Tradizionale Anglicana è una comunione di Chiese anglicane nel Movimento Angelicano di Continuazione indipendente dalla Comunione Anglicana e dall'Arcivescovo di Canterbury.

La Comunione è stata creata nel 1991. Dal 2002 il suo superiore è monsignor John Hepworth, Arcivescovo della Chiesa cattolica anglicana dell'Australia.

Il Papa: Ci riempie di tristezza il fatto di non essere uniti nelle cose essenziali perché portiamo questa colpa, perché offuschiamo la testimonianza

Omelia del Papa nella Chiesa Evangelica Luterana di Roma


ROMA, mercoledì, 17 marzo 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la traduzione dell'omelia pronunciata da Benedetto XVI a braccio in tedesco nel pomeriggio di domenica 14 marzo, durante la visita alla comunità luterana di Roma.




* * *

Care Sorelle e cari Fratelli,

desidero ringraziare di cuore tutta la comunità, i vostri responsabili, in particolare il parroco Kruse, per avermi invitato a celebrare con voi questa domenica Laetare, questo giorno in cui l’elemento determinante è speranza, che guarda alla luce che dalla resurrezione di Cristo irrompe nelle tenebre della nostra quotidianità, nelle questioni irrisolte della nostra vita. Ella, caro parroco Kruse, ci ha esposto il messaggio di speranza di san Paolo. Il Vangelo, dal dodicesimo capitolo di Giovanni, che io vorrei cercare di spiegare, è anche un Vangelo della speranza e, nello stesso tempo, è un Vangelo della Croce. Queste due dimensioni vanno insieme: poiché il Vangelo si riferisce alla Croce, parla della speranza, e poiché dona speranza, deve parlare della Croce.

Giovanni ci narra che Gesù era salito a Gerusalemme per celebrare la Pasqua e poi dice: “C'erano anche alcuni greci che erano saliti per il culto”. Erano sicuramente uomini del gruppo dei cosiddetti phoboumenoi ton Theon, i “timorati di Dio”, che, al di là del politeismo del loro mondo, erano alla ricerca del Dio autentico che è veramente Dio, alla ricerca dell’unico Dio, al quale appartiene il mondo intero e che è il Dio di tutti gli uomini. E avevano trovato quel Dio, che chiedevano e cercavano, al quale ogni uomo anela in silenzio, nella Bibbia di Israele, riconoscendovi quel Dio che ha creato il mondo. Egli è il Dio di tutti gli uomini e, allo stesso tempo, ha scelto un popolo concreto e un luogo per essere da lì presente tra noi. Sono cercatori di Dio, e sono venuti a Gerusalemme per adorare l'unico Dio, per sapere qualcosa del suo mistero. Inoltre, l'evangelista ci narra che queste persone sentono parlare di Gesù, vanno da Filippo, l'apostolo proveniente da Betsaida, in cui per metà si parlava in greco, e dicono: “Vogliamo vedere Gesù”. Il loro desiderio di conoscere Dio li spinge a voler vedere Gesù e attraverso di lui conoscere più da vicino Dio. “Vogliamo vedere Gesù”: un’espressione che ci commuove, poiché noi tutti vorremmo sempre più veramente vederlo e conoscerlo. Penso che quei greci ci interessano per due motivi: da una parte, la loro situazione è anche la nostra, anche noi siamo pellegrini con la domanda su Dio, alla ricerca di Dio. E anche noi vorremmo conoscere Gesù più da vicino, vederlo veramente. Tuttavia è anche vero che, come Filippo e Andrea, dovremmo essere amici di Gesù, amici che lo conoscono e possono aprire agli altri il cammino che porta a lui. E perciò penso che in quest’ora dovremmo pregare così: Signore, aiutaci a essere uomini in cammino verso di te. Signore, donaci di poterti vedere sempre di più. Aiutaci a essere tuoi amici, che aprono agli altri la porta verso di te. Se ciò portò effettivamente ad un incontro fra Gesù e quei greci, san Giovanni non lo narra. La risposta di Gesù, che egli ci riferisce, va molto al di là di quel momento contingente. Si tratta di una doppia risposta: parla della glorificazione di Gesù che ora iniziava: “È venuta l’ora che il Figlio dell'uomo sia glorificato” (Gv 12,23). Il Signore spiega questo concetto della glorificazione con la parabola del chicco di grano: “In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore produce molto frutto” (v. 24). In effetti, il chicco di grano deve morire, in certo qual modo spezzarsi nel terreno, per assorbire in sé le forze della terra e così divenire stelo e frutto. Per quanto riguarda il Signore, questa è la parabola del suo proprio mistero. Egli stesso è il chicco di grano venuto da Dio, il chicco di grano divino, che si lascia cadere sulla terra, che si lascia spezzare, rompere nella morte e, proprio attraverso questo, si apre e può così portare frutto nella vastità del mondo. Non si tratta più solo di un incontro con questa o quella persona per un momento. Ora, in quanto risorto, è “nuovo” e oltrepassa i limiti spaziali e temporali. Adesso raggiunge veramente i greci. Ora si mostra a loro e parla con loro, ed essi parlano con lui e in tal modo nasce la fede, cresce la Chiesa a partire da tutti i popoli, la comunità di Gesù Cristo risorto, che diventerà il suo corpo vivo, frutto del chicco di grano. In questa parabola possiamo trovare anche un riferimento al mistero dell'Eucaristia: Egli, che è il chicco di grano, cade nella terra e muore.

Così nasce la santa moltiplicazione del pane dell'Eucaristia, nella quale egli diviene pane per gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi.

Ciò, che qui, in questa parabola cristologica, il Signore dice di sé, lo applica a noi in due altri versetti: “Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna” (v. 25). Penso che quando ascoltiamo ciò, in un primo momento, non ci piace. Vorremmo dire al Signore: Ma cosa ci stai dicendo, Signore? Dobbiamo odiare la nostra vita, noi stessi? La nostra vita non è forse un dono di Dio? Non siamo stati creati a tua immagine? Non dovremmo essere grati e lieti perché ci ha donato la vita? Ma la parola di Gesù ha un altro significato. Naturalmente il Signore ci ha donato la vita, e di questo siamo grati. Gratitudine e gioia sono atteggiamenti fondamentali dell’esistenza cristiana. Sì, possiamo essere lieti perché sappiamo che questa mia vita è da Dio. Non è un caso privo di senso. Io sono voluto e sono amato. Quando Gesù dice che dovremmo odiare la nostra propria vita, intende dire tutt’altro. Pensa qui a due atteggiamenti fondamentali. Uno è quello per cui io vorrei tenere per me la mia vita, per cui considero la mia vita come mia proprietà, considero me stesso come mia proprietà, per cui vorrei sfruttare il più possibile questa vita presente, così da aver vissuto molto vivendo per me stesso. Chi lo fa, chi vive per se stesso e considera e vuole solo se stesso, non si trova, si perde. È proprio il contrario: non prendere la vita, ma darla. Questo ci dice il Signore. E non è che prendendo la vita per noi, noi la riceviamo, ma è donandola, andando oltre noi stessi, non guardando a noi, ma dandosi all’altro nell’umiltà dell’amore, donando la nostra vita a lui e agli altri. Così diveniamo ricchi allontanandoci da noi stessi, liberandoci da noi stessi. Donando la vita, e non prendendola, riceviamo veramente vita.

Il Signore prosegue e afferma, in un secondo versetto: “Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà” (v. 26). Questo donarsi, che in realtà è l’essenza dell’amore, è identico alla Croce. Infatti, la Croce non è altro che questa legge fondamentale del chicco di grano morto, la legge fondamentale dell’amore: che noi diveniamo noi stessi solo quando ci doniamo. Ma il Signore aggiunge che questo donarsi, questo accettare la Croce, questo allontanarsi da sé, è un andare con lui, in quanto noi, andando dietro a lui e seguendo la via del chicco di grano, troviamo la via dell’amore, che subito sembra una via di tribolazione e di fatica, ma proprio per questo è la via della salvezza. Della via della Croce, che è la via dell’amore, del perdersi e del donarsi, fa parte la sequela, l’andare con lui, che è, Egli stesso, la via, la verità e la vita. Questo concetto include anche il fatto che questa sequela si realizza nel “noi”, che nessuno di noi ha il proprio Cristo, il proprio Gesù, che lo possiamo seguire soltanto se camminiamo tutti insieme con lui, entrando in questo “noi” e imparando con lui il suo amore che dona. La sequela si realizza in questo “noi”. Fa parte dell’essere cristiani l’ “essere noi” nella comunità dei suoi discepoli. E questo ci pone la questione dell’ecumenismo: la tristezza per aver spezzato questo “noi”, per aver suddiviso l’unica via in tante vie, e così viene offuscata la testimonianza che dovremmo dare in tal modo, e l’amore non può trovare la sua piena espressione. Che cosa dovremmo dire al riguardo? Oggi ascoltiamo molte lamentele sul fatto che l’ecumenismo sarebbe giunto a un punto di stallo, accuse vicendevoli; tuttavia penso che dovremmo anzitutto essere grati che vi sia già tanta unità. È bello che oggi, domenica Laetare, noi possiamo pregare insieme, intonare gli stessi inni, ascoltare la stessa parola di Dio, insieme spiegarla e cercare di capirla; che noi guardiamo all’unico Cristo che vediamo e al quale vogliamo appartenere, e che, in questo modo, già rendiamo testimonianza che Egli è l’Unico, colui che ci ha chiamati tutti e al quale, nel più profondo, noi tutti apparteniamo. Credo che dovremmo mostrare al mondo soprattutto questo: non liti e conflitti di ogni sorta, ma gioia e gratitudine per il fatto che il Signore ci dona questo e perché esiste una reale unità, che può diventare sempre più profonda e che deve divenire sempre più una testimonianza della parola di Cristo, della via di Cristo in questo mondo. Naturalmente non ci dobbiamo accontentare di ciò, anche se dobbiamo essere pieni di gratitudine per questa comunanza. Tuttavia, il fatto che in cose essenziali, nella celebrazione della santa Eucaristia non possiamo bere allo stesso calice, non possiamo stare intorno allo stesso altare, ci deve riempire di tristezza perché portiamo questa colpa, perché offuschiamo questa testimonianza. Ci deve rendere interiormente inquieti, nel cammino verso una maggiore unità, nella consapevolezza che, in fondo, solo il Signore può donarcela perché un’unità concordata da noi sarebbe opera umana e quindi fragile, come tutto ciò che gli uomini realizzano. Noi ci doniamo a lui, cerchiamo sempre più di conoscerlo e di amarlo, di vederlo, e lasciamo a lui che ci conduca così, veramente, all’unità piena, per la quale lo preghiamo con ogni urgenza in questo momento.

Cari amici, ancora una volta desidero ringraziarvi per questo invito, che mi avete rivolto, per la cordialità, con la quale mi avete accolto – anche per le sue parole, gentile signora Esch. Ringraziamo per aver potuto pregare e cantare insieme. Preghiamo gli uni per gli altri, preghiamo insieme affinché il Signore ci doni l’unità e aiuti il mondo affinché creda. Amen.

[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]

I greci che vogliono vedere Gesù

La visita di Benedetto XVI alla comunità luterana di Roma ha confermato una volta di più quello che Joseph Ratzinger, giovanissimo docente a Frisinga, aveva scoperto leggendo con i suoi studenti i testi del tempo della Riforma: e cioè che tra i cristiani divisi da quasi cinque secoli il patrimonio comune è davvero importante. Al punto da rappresentare una base che, approfondita e condivisa, può avvicinarli ancora di più. Il cardinale Ratzinger lo aveva detto già nel 1998 durante un incontro con la stessa comunità evangelica di Roma, e da allora l'avvicinamento è continuato. Tanto che il Papa ha ora ripetuto che il primo punto non è la divisione, bensì la gioia e la speranza, perché l'unità già esistente può e deve rafforzarsi.
Gioia e speranza che si sono avvertiti con evidenza nella commovente celebrazione comune della domenica Laetare, la "piccola Pasqua" (Klein-Ostern) ricordata dal pastore Jens-Martin Kruse nella sua omelia sull'esordio della seconda lettera ai Corinzi; con accenti che in alcuni momenti si sono incrociati con quella tenuta dal vescovo di Roma - accolto e salutato con grande cordialità dalla presidente della comunità Doris Esch e da tutta l'assemblea - sul brano del vangelo in cui Giovanni racconta del desiderio di alcuni greci di vedere Gesù. Durante una liturgia composta e nello stesso tempo molto partecipata, nella quale la preghiera del pastore verso la Croce si è alternata alla proclamazione del Credo, ai canti e alle invocazioni.
Proprio il tempo liturgico che prepara la Pasqua e i brani scritturistici letti ricordano ai cristiani che gioia, speranza e croce - hanno detto il pastore Kruse e Benedetto XVI - sono realtà che vanno sempre insieme. Come insieme, e non uno accanto all'altro, i cristiani devono camminare. Sostenendosi a vicenda nelle tribolazioni, ha sottolineato significativamente il pastore. Anche in una situazione di peccato come è quella della divisione, ferita che può essere guarita solo dal Signore: soltanto guardando a Cristo si può infatti arrivare all'unità, perché soltanto lui può farla, ha ripetuto il Papa in una spiegazione esemplare e toccante del vangelo.
Come i greci che volevano vedere Gesù, anche oggi - ha affermato Benedetto XVI - ogni essere umano cerca Dio. E anche oggi il risorto può venire per tutti "i greci", cioè per ogni persona umana, nella Chiesa e al di fuori dei suoi confini visibili. Testimoniare questa realtà, di fronte alla quale molti sono forse inconsapevoli, e così aprire spazi a Dio nelle società che vogliono dimenticarlo o cancellarlo, è oggi il compito principale dei cristiani. Un compito che il Papa per primo si è assunto e che, con ferma mitezza nonostante incomprensioni e attacchi, continua a richiamare.

g. m. v.



(©L'Osservatore Romano - 15-16 marzo 2010)

Che cosa c’è dietro la seconda ondata di anglicani convertiti al cattolicesimo

Roma. La seconda ondata è cominciata.
Dopo il gruppo di fedeli tradizionalisti australiani
appartenenti alla Forward in
Faith, anche un centinaio di parrocchie
anglicane statunitensi ha deciso di emigrare
in massa nel cattolicesimo usufruendo
della costituzione apostolica “Anglicanorum
coetibus” firmata da Benedetto
XVI, il 4 novembre scorso. Si tratta di fedeli
(diversi preti sposati inclusi) appartenenti
all’Anglican Church in America
(Aca). Anche per loro valgono le regole già
accettate dagli australiani: entreranno in
strutture denominate “Ordinariati personali”
e manterranno i propri riti liturgici.
La decisone è stata presa nei giorni scorsi
durante un meeting tenutosi nella città di
Orlando (Florida). Erano presenti il reverendo
Louis W. Falk, presidente dell’Aca,
e il vicepresidente, il reverendo George
Langberg.
L’Aca fa parte della Tradional Anglican
Communion (Tac) che vent’anni fa ruppe
con la comunione anglicana per le molteplici
decisioni prese in contrasto con la
dottrina tradizionale. Come i fedeli australiani,
anche i fedeli dell’Aca non hanno digerito
la decisione di diverse comunità anglicane
di ordinare preti e vescovi sia donne
sia omosessuali. Lo strappo, insomma,
ha radici lontane e la decisione dei giorni
scorsi è la coda di un lungo processo.
La notizia è stata riportata in Gran Bretagna
dal Telegraph. E’ nel Regno Unito,
infatti, che la decisione del Papa di firmare
l’“Anglicanorum coetibus” fa molto parlare
di sé. Il mondo anglicano non sta passando
uno dei suoi momenti migliori. Al di
là delle conversioni al cattolicesimo, è in
atto un’importante e apparentemente
inarrestabile emorragia di fedeli ben superiore
a quella che sta investendo, in tutta
Europa, sia cattolici che ortodossi. La
via “liberal” che ha mandato in crisi gli
anglicani più tradizionalisti, in fondo, altro
non è che un tentativo di reagire a questa
dissoluzione numerica. Ma i risultati,
fino a oggi, sembrano controproducenti:
anche il “movimento di Oxford” (di cui
uno dei più illustri membri fu John H.
Newman) era da comprendere in questa
dinamica.
A poco più di sei mesi dal viaggio del
Papa nel Regno Unito, il mondo anglicano
è chiamato in qualche modo a riflettere
al suo interno. Benedetto XVI non ha
approvato l’“Anglicanorum coetibus” in
opposizione al mondo anglicano ma semplicemente
per rispondere a una richiesta
avanzata a Roma dai fedeli. Come il
recente simposio sull’ecumenismo promosso
dal Pontificio consiglio per la promozione
dell’unità dei cristiani ha dimostrato,
l’intenzione di Roma è quella di
creare una sinergia, almeno in Europa,
tra diverse chiese e comunità cristiane.
Come ha detto alla Radio Vaticana il vescovo
anglicano Tom Wright, il “sogno modernista”
che viveva la cristianità quaranta
anni fa non si è realizzato. “Oggi ci troviamo
in un mondo diverso e credo che
tutti siamo consapevoli che una maggiore
intesa tra di noi sarebbe veramente una
buona cosa”. (pr)

© Copyright Il Foglio 10 marzo 2010

Anglicani degli Stati Uniti chiederanno un ordinariato cattolico Si pensa che in 5.200 entreranno in comunione con la Chiesa

ORLANDO, martedì, 9 marzo 2010 (ZENIT.org).- I leader della Chiesa anglicana negli Stati Uniti della Comunione Anglicana Tradizionale hanno risposto all'invito di Benedetto XVI a entrare in piena comunione con la Chiesa cattolica.

La Costituzione Apostolica Anglicanorum coetibus, pubblicata nel novembre scorso, ha offerto ai gruppi di anglicani un modo di entrare nella Chiesa cattolica attraverso l'istituzione di ordinariati personali, un nuovo tipo di struttura canonica.

In questo modo possono conservare alcuni elementi delle loro tradizioni liturgiche e spirituali, essendo allo stesso tempo uniti sotto l'autorità del Papa.

Mercoledì scorso, la Casa dei Vescovi della Chiesa Anglicana negli Stati Uniti ha annunciato di aver avuto un incontro a Orlando "con il nostro Primate, il reverendo Christopher Phillips della parrocchia 'di uso anglicano' di Nostra Signora dell'Espiazione (San Antonio, Texas), e altri".

"In questo incontro - si spiega in un comunicato - è stata presa la decisione formale di richiedere l'applicazione delle disposizioni della Costituzione Apostolica 'Anglicanorum Coetibus' negli Stati Uniti d'America da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede".

La Anglican Church in America (Chiesa Anglicana in America, ACA), che ha circa 5.200 membri in 100 congregazioni, è diversa dalla Chiesa Episcopaliana.

Non fa parte della Comunione Anglicana che ha come Primate principale l'Arcivescovo di Canterbury.

L'ACA è stata creata nel 1991 quando alcuni membri della Chiesa cattolica anglicana (il ramo della Chiesa anglicana più vicino a quella cattolica) e della Chiesa americana episcopaliana si sono uniti formando una nuova Chiesa.

L'attuale presidente della Casa dei Vescovi dell'ACA è l'Arcivescovo Louis Falk.

La Comunione Tradizionale Anglicana, che ha circa 400.000 membri in tutto il mondo, ha come Primate l'Arcivescovo John Hepworth, della Chiesa cattolica anglicana in Australia.

I leader di questa Comunione hanno inviato una lettera alla Santa Sede nell'ottobre 2007 per chiedere la piena unità con la Chiesa cattolica.

Hanno dichiarato la propria adesione alla dottrina cattolica, ma hanno anche espresso il desiderio di conservare alcune tradizioni anglicane.

La Congregazione per la Dottrina della Fede ha risposto nel luglio 2008 impegnandosi a prendere in considerazione questa possibilità.

L'anno dopo, il 20 ottobre 2009, il Prefetto della Congregazione, il Cardinale William Levada, ha annunciato l'intenzione di Benedetto XVI di creare una forma che permettesse a questi gruppi anglicani di entrare in piena comunione con la Chiesa cattolica.

Alcuni giorni dopo, il 9 novembre, è stata pubblicata la "Anglicanorum Coetibus".

'Anglicanorum coetibus'. Il card. Levada: un tradimento dell'ecclesiologia cattolica non abbracciare questi gruppi con i doni che essi recano

"Armonizzare i suoni come in una sinfonia": il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il card. William Joseph Levada, ha utilizzato questa metafora per sottolineare, in un intervento nei giorni scorsi, l'apporto degli anglicani alla Chiesa Cattolica, alla luce della Costituzione Apostolica "Anglicanorum coetibus" di Benedetto XVI. Parlando in occasione di un incontro presso il Newman Center della Queen's University a Kingston, in Canada, il prefetto ha affermato che gli anglicani che desiderano entrare nella piena e visibile comunione con la Chiesa cattolica "forniranno un suono distinto nella comunità ecclesiale, nella maniera in cui i differenti strumenti di un'orchestra concorrono a creare una sinfonia". E ha specificato: "Quando un individuo, o ancor più, una comunità è pronta per l'unità con la Chiesa di Cristo che sussiste nella Chiesa Cattolica, costituirebbe un tradimento dei principi e degli obiettivi ecumenici cattolici il rifiuto di abbracciarli, assieme ai doni distintivi che arricchiscono la Chiesa e che aiutano il suo approccio "sinfonico" nei confronti del mondo, ovvero suonando insieme o uniti". Riferendosi poi al processo che ha portato alla pubblicazione della Costituzione Apostolica, il cardinale ha osservato che si tratta "del logico risultato" di anni di dialogo, a partire dallo storico incontro nel 1966 tra Paolo VI e l'arcivescovo di Canterbury, Michael Ramsey. In particolare, ha aggiunto che il risultato ottenuto è "uno dei frutti" del lavoro ultratrentennale dell'Anglican-Roman Catholic International Commission (Arcic) che ha prodotto una serie di documenti su vari temi di fede. Il prefetto ha quindi ribadito che "costituirebbe un tradimento dell'ecclesiologia cattolica non abbracciare questi gruppi di anglicani con i doni che essi recano" nell'ambito della missione al servizio dell'amore di Cristo e ha infine sottolineato il sentimento di speranza e l'impegno che accompagneranno gli ulteriori progressi nel cammino verso la realizzazione dell'aspirazione alla piena e visibile unione nell'unica Chiesa, portando a esempio, a tal proposito, l'istituzione di una terza commissione per il dialogo tra cattolici e anglicani, avvenuta dopo l'incontro del 21 novembre scorso tra Benedetto XVI e l'arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams (foto). Il card. Levada ha fatto poi riferimento agli effetti negativi che l'ordinazione di donne vescovo avrebbe nel processo di ricerca dell'unità, puntualizzando che il sacerdozio maschile "non è una mera prassi, ma è nella natura dottrinale, e non può essere una questione relegata ai margini".

L'Osservatore Romano

Anglicani: iniziato il controesodo

Dobbiamo attendere il 22 febbraio, festa della Cattedra di San Pietro, per avere l'ufficialità delle notizie, ma il buon Damian Thompson è incontenibile, e in questi giorni ci sta anticipando non poche novità riguardo l'attuazione di "Anglicanorum Coetibus", cioè il piano di Papa Benedetto per il ritorno degli anglicani in piena comunione con Roma.
Sappiamo che in Australia sia la Traditional Anglican Communion, cioè quella Chiesa anglicana indipendente che ha messo in moto il processo per giungere agli ordinariati personali, sia l'associazione Forward in Faith, cioè gli anglicani veri e propri, ma di orientamento tradizionale-cattolico, vogliono unire le forze per un unico Ordinariato e hanno già formalmente fatto le necessarie richieste.
Nel frattempo un'altra notizia grossa ha colpito la rete: il vescovo ausiliare di Newcastle in Inghilterra, Paul Richardson (63 anni) si è convertito silenziosamente il mese scorso al cattolicesimo. Senza scalpori ha lasciato la veste paonazza e i non pochi privilegi del suo status per diventare un semplice laico della diocesi londinese di Southwark. Il controesodo sta iniziando. Speriamo - dice sempre Thompson - che i vescovi di Inghilterra e Galles sia accoglienti come vuole il Papa (e come impone il vangelo) con questi fratelli cristiani di ritorno (cosa non del tutto scontata).

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La visita del Papa alla Chiesa luterana di Roma. In lingua tedesca la celebrazione. Benedetto XVI commenterà il brano evangelico del chicco di grano

Domenica 14 marzo Papa Benedetto XVI parteciperà al culto nella Chiesa evangelica luterana di via Sicilia a Roma (foto). La notizia, che già circolava, è stata rilanciata dall’agenzia stampa Nev dando alcuni particolari. Era stato per primo il card. Walter Kasper, presidente del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani, ad annunciare nei mesi scorsi la visita del Papa alla Chiesa luterana di Roma. La data del 14 marzo è stata confermata dallo stesso dicastero. “Avere tra noi il vescovo di Roma ci sembra essere un bel segnale per l'ecumenismo nella nostra città”, ha dichiarato a Nev il pastore della Comunità di via Sicilia, Jens-Martin Kruse. La comunità luterana di Roma aveva invitato il Papa già nel 2008, quando ricorrevano i 25 anni dalla visita di Giovanni Paolo II alla “Christuskirche” di via Sicilia. Era l'11 dicembre del 1983 e si celebravano i 500 anni della nascita di Martin Lutero. Secondo le anticipazioni di Nev, il culto avrà inizio alle 17.30. Papa Benedetto XVI pronuncerà un'omelia sul passo evangelico di Giovanni 12,20-26, quello relativo al “se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”. Il pastore Kruse invece, prenderà spunto dal primo capitolo della II Lettera di Paolo ai Corinzi. La celebrazione, alla quale parteciperà anche il card. Kasper, si svolgerà in lingua tedesca.

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Comunicato vaticano di bilancio di 40 anni di ecumenismo Dopo un incontro con teologi cattolici, luterani, riformati, anglicani e metodisti

CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 15 febbraio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il comunicato diffuso dal Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani sul simposio che ha organizzato a Roma per analizzare 40 anni di ecumenismo con teologi cattolici, luterani, riformati, anglicani e metodisti.



* * *

Nell’ottobre 2009 è stato pubblicato il volume Harvesting the Fruits: Basic Aspects of Christian Faith in Ecumenical Dialogue. Il libro raccoglie i risultati di quarant’anni di dialoghi bilaterali tra la Chiesa cattolica e la Federazione Luterana Mondiale, l’Alleanza Mondiale delle Chiese Riformate, la Comunione Anglicana ed il Consiglio Metodista Mondiale, riflettendo anche su quale potrà essere il contenuto e la direzione della discussione ecumenica nel futuro. Il Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani ha ospitato un Simposio dall’8 al 10 febbraio 2010 sui temi presentati nel libro Harvesting the Fruits. Presso il Dicastero vaticano, su invito del suo Presidente, il Cardinale Walter Kasper, si sono incontrati teologi cattolici, luterani, riformati, anglicani e metodisti.

Scopo del Simposio non era soltanto prendere atto dei molti elementi di convergenza conseguiti in quarant’anni di dialogo ufficiale, ma anche trovare il modo di comunicare tali importanti risultati ai membri delle varie comunità cristiane, affinché possano esprimere più pienamente nella loro vita di fede il progresso realizzato verso l’unità. Durante i tre giorni del Simposio, i partecipanti hanno esaminato nel dettaglio il tema della recezione delle dichiarazioni comuni, la necessità di una testimonianza cristiana comune ad ogni livello ed il nuovo contesto nel quale la cristianità deve portare avanti la sua missione.

Il Simposio ha anche guardato al futuro, per discernere quella che dovrà essere la configurazione del dialogo ecumenico. Si è ampiamente riflettuto sui passi che dovranno essere intrapresi verso il raggiungimento dell’obiettivo ecumenico, che rimane la piena a visibile comunione. Il Cardinale Kasper ha proposto la seguente considerazione: "Cosa significa comunione nel senso teologico? Non significa comunità in senso orizzontale, ma communio sanctorum, che potremmo definire partecipazione verticale a ciò che è ‘santo’, alle ‘cose sante’- ovvero lo Spirito di Cristo presente nella sua Parola e nei sacramenti amministrati dai ministri, propriamente ordinati".

I partecipanti hanno discusso su come sia possibile giungere ad una diversa valutazione delle divergenze tradizionali dal punto di vista della missione e del Regno di Dio. In tale contesto, è stato menzionato il nuovo e promettente approccio secondo il quale il dialogo ecumenico viene considerato come uno scambio di doni. Si è parlato onestamente anche dei limiti della diversità e del ruolo della gerarchia delle verità. Infine, sono state avanzate proposte concrete volte a promuovere la ricerca dell’unità, tra cui, in particolare, quella di stilare una Dichiarazione Comune su ciò che abbiamo conseguito insieme ecumenicamente. Tale dichiarazione potrebbe prendere la forma di un’affermazione comune della nostra fede battesimale, comprendente un commento al Credo apostolico ed al Padre Nostro.

Al Simposio erano presenti sia esperti di dialoghi bilaterali sia giovani teologi, nuovi all’ecumenismo. La discussione teologica è stata di alto livello. I numerosi suggerimenti positivi che ha prodotto saranno ripresi nella Plenaria del Pontificio Consiglio prevista per il mese di novembre 2010. I partecipanti hanno espresso gratitudine per l’opportunità offerta loro di discutere approfonditamente delle sfide reali incontrate nella ricerca dell’unità dei cristiani. Essi hanno altresì dichiarato che la capacità di organizzare simili incontri è una potenzialità caratteristica di Roma, sottolineando in tal modo l’ampio servizio che il ministero petrino può offrire all’ecumenismo.


Michael Nazir-Ali. Io, vescovo della Chiesa d’Inghilterra, vi spiego perché il mio più grande desiderio è l’unità con Roma

di Rodolfo Casadei

Un giovane vescovo anglicano pakistano, figlio di musulmani sciiti convertiti al cristianesimo, viene minacciato per il suo impegno sociale a fianco dei lavoratori poveri ridotti in schiavitù e perché si oppone al processo di islamizzazione integrale del paese avviato dal presidente Zia-ul-Haq. Per proteggerlo l’arcivescovo di Canterbury lo chiama in Inghilterra e gli affida l’organizzazione della Conferenza di Lambeth, lo storico sinodo della Comunione anglicana nel mondo. Notandone le grandi qualità lo trattiene in Europa. E infatti l’ecclesiastico diventa membro della Camera dei Lord, presidente della commissione bioetica nazionale, esponente della commissione per l’unità fra anglicani e cattolici (Arcic) e infine manca di pochissimo la nomina a primate d’Inghilterra.
Nel frattempo, però, il paese cristiano che lo ha accolto e dal quale erano arrivati i missionari che avevano evangelizzato la sua gente si trasforma completamente: diventa uno strano luogo dove la compagnia aerea di bandiera permette a dipendenti islamici e sikh di indossare veli e turbanti ma licenzia una donna che si ostina a portare una piccola croce al collo; dove autorità locali puniscono un’infermiera cristiana per aver proposto a un malato di pregare; dove gli orfanotrofi cattolici sono obbligati a dare i bambini in adozione alle coppie di omosessuali e dove il governo vorrebbe imporre alle Chiese di assumere personale di convinzioni religiose e morali opposte alle loro.
Vede pure la Comunione anglicana trasformarsi in uno spazio dove ognuno fa quel che vuole. Per esempio nominare vescovi gay attivi e conviventi con un compagno. Vede le città della Gran Bretagna riempirsi di quartieri musulmani dove non è più possibile evangelizzare mentre nei paesi islamici la persecuzione contro i cristiani raggiunge nuovi vertici.
Il giovane vescovo, divenuto uomo maturo, si oppone all’andazzo e si dimette dall’episcopato per rispondere alle nuove sfide dei tempi. Per poter riparare la casa di Dio. Fonda un centro di formazione e di patrocinio dei cristiani oppressi, nel mondo ma anche nel Regno Unito (l’Oxford Centre for Training, Research, Advocacy and Dialogue). Molti anglicani cominciano a considerarlo il loro leader. È la storia di Michael Nazir-Ali, vescovo pakistano più inglese della maggioranza degli inglesi e più anglicano della maggioranza degli anglicani. Uomo dall’eloquio soffice che scaglia, composto, frecce appuntite.

Dottor Nazir-Ali, la crisi dell’identità britannica è un tema all’ordine del giorno, sul quale lei non si tira mai indietro. Quali sono le sue radici e quali i frutti più velenosi?
Le radici della crisi hanno a che fare con la perdita del discorso cristiano nello spazio pubblico, nelle istituzioni formative e nelle famiglie. Non c’è più una narrazione comune in base alla quale si sviluppa l’esistenza, è diventato estremamente difficile riconoscere un senso alla vita personale, alle politiche sociali, agli avvenimenti pubblici. Oggi ci si affida ai sondaggi per prendere decisioni di contenuto morale, conta solo quello che dice la maggioranza in un dato momento. E se l’opinione pubblica oppone resistenza a una certa proposta, si ripetono campagne mediatiche finché non cede. Lo stiamo vedendo con l’introduzione dell’eutanasia e del suicidio assistito. Tutto è cominciato negli anni Settanta, con l’efficace campagna contro la famiglia tradizionale. Quella, direi, è stata l’origine di tutto il resto.

Il numero di coloro che parlano di fallimento dell’opzione multiculturalista britannica è in costante crescita. Lei è stato uno dei primi a esprimere un simile punto di vista. Cosa è andato storto nell’esperimento?

Quando nel Regno Unito sono arrivate le prime ondate migratorie di diverso background culturale e religioso, si sarebbe dovuto dire: «Siamo un paese costituito dalla tradizione giudaico-cristiana, vi diamo il benvenuto su questa base». Avremmo dovuto esercitare l’ospitalità cristiana, invece abbiamo applicato una vuota tolleranza secolarista, all’insegna del «noi viviamo le nostre vite, voi vivete le vostre». Così le comunità degli immigrati si sono sviluppate separatamente, questo ha favorito il loro ripiegamento su stesse e il sorgere di forme di estremismo. In realtà non si può dire che il multiculturalismo è fallito: semplicemente, ha dato vita a società parallele, isolate fra loro; ha reso impossibile l’integrazione, che ha bisogno di una storia comune e valori condivisi, che in Gran Bretagna sono quelli cristiani.

Venti parlamentari di diversi partiti hanno firmato una dichiarazione intitolata “70 milioni sono troppi” per chiedere al governo di frenare l’immigrazione, perché metterebbe a repentaglio «la futura armonia della nostra società». Che ne pensa?

La Gran Bretagna è un’isola, per cui certamente non può accogliere un numero infinito di abitanti. Ma è anche una nazione che ha bisogno di manodopera qualificata e di mantenere la sua vocazione commerciale. Io credo che molto più importante del numero degli immigrati è la loro qualità: chi viene qui deve avere simpatia per il fondamento giudaico-cristiano della nostra società, deve essere disponibile ad adattarsi ad esso. Certamente deve poter dare anche il suo apporto originale, ma non in un vuoto.

Molti non credono sia più possibile restaurare la tradizionale identità britannica.

Dobbiamo far capire loro che senza il fondamento cristiano i valori più importanti della convivenza sociale sono in pericolo. Prendiamo la dignità inviolabile della persona e l’uguaglianza. Su cosa si fondano? Sulla rivelazione biblica che asserisce la comune origine di tutti gli esseri umani e la loro creazione da parte di Dio. Se togliamo questo, possono facilmente ricrearsi le condizioni che in passato hanno portato alla formulazione delle dottrine razziste, giustificate su presunti fondamenti scientifici, che tante tragedie hanno causato all’Europa. Del resto qualcosa di simile si ripete oggi con la manipolazione degli embrioni, per la quale non si riconoscono limiti. Non si accettano risposte morali alla questione, si pensa che siano suffcienti quelle scientifiche.

A proposito: lei è stato per sei anni presidente del comitato etico e giuridico della Human Fertilisation and Embryology Authority, che ha molti poteri in materia. Come spiega che le normative britanniche sono le più permissive d’Europa?

Se non hai una visione fondamentale della persona umana, ma insegui solo gli sviluppi tecno-scientifici, perché non dovresti essere permissivo? Nei primi tempi la fecondazione assistita mostrava uno speciale rispetto per l’embrione, ma man mano quel rispetto si è fatto sempre più precario e parziale. Oggi si producono ibridi uomo-animale, giustificandosi col dire che vengono subito distrutti.

[... supponiamo che manchi una parte del testo. NdR]

Ma cosa accadrà nel futuro, ora che è stata aperta anche questa porta?

L’islam radicale è diventato parte del panorama britannico, specialmente nella componente giovanile della comunità musulmana.

Come è potuto accadere?
L’islam radicale è parte del panorama mondiale, a partire dai molti paesi musulmani nei quali produce una tremenda instabilità politica e sociale. Quello che succede nel Regno Unito è riflesso di quello che succede nel mondo. Negli anni Sessanta il profilo dei musulmani britannici era pietistico-devozionale. Poi sono sorte le moschee deobandi, sono entrati nel paese imam radicali senza il filtro delle autorità, i giovani sono stati sottoposti a un certo tipo di formazione che oggi prosegue attraverso internet, e così sono sorti i gruppi radicali.

Si sarebbe potuto impedire la deriva con una più attenta politica di integrazione?

Il governo non ha avuto nessuna politica di integrazione fino a pochissimo tempo fa. La parola d’ordine era multiculturalismo, che ha significato lasciare la gente a se stessa. Non si è fatto nulla per far sì che la gente imparasse a vivere insieme. Ancora oggi ci sono autorità locali che favoriscono la nascita di quartieri interamente islamici e la trasformazione di certe scuole in istituti frequentati esclusivamente da musulmani.

La Camera dei Lord, di cui lei è membro, sta esaminando l’Equality Bill, una proposta di legge contro le discrimimazioni che vorrebbe togliere alle Chiese la libertà di assumere personale in sintonia con le loro convinzioni e valori. A che punto siamo?

Abbiamo emendato la proposta, che ora è più rispettosa della libertà di coscienza e dell’integrità delle istituzioni religiose, ma il governo potrebbe ripresentarla. Ciò pone una questione più ampia, che riguarda questo genere di provvedimenti: se il governo continuasse a legiferare senza rispettare la coscienza dei credenti, potrebbe crearsi una situazione in cui questi sono costretti ad obbedire a Dio piuttosto che a Cesare; bravi cittadini finirebbero per essere criminalizzati e altre cose indesiderabili potrebbero accadere. Io credo che il governo sia libero di produrre leggi a vantaggio della comunità omosessuale, ma nello stesso tempo dovrebbe rispettare la coscienza dei credenti.

Come definirebbe lo stato di salute della Chiesa d’Inghilterra?

Ci sono molte parrocchie fiorenti, ma indubbiamente risentiamo del fatto di essere coinvolti nei problemi della Comunione anglicana. Solidissima convinzione di tutti gli anglicani è che noi non crediamo nulla che non sia creduto anche dagli altri cristiani. Ora, quello che è successo negli Usa e in Canada e in alcune diocesi inglesi non ha nessuna relazione con la tradizione, e i nostri partner ecumenici ci chiedono spiegazioni. Per poter dire che la nostra salute è buona dovremmo risolvere questo problema, ma purtroppo non disponiamo di un meccanismo che ci permetta di risolvere problemi di livello internazionale come quelli presenti.

Qualche mese fa lei ha detto che due cose distruggono l’unità cristiana: il «persistente peccato sessuale senza pentimento» e il «persistente e sistematico insegnamento erroneo». Davvero queste cose sono accadute nella Comunione anglicana?

Sì, sono accadute. Che i peccati sessuali gravi portano a una rottura della comunione non lo dico io, ma Paolo nella prima Lettera ai Corinti. E in molti passaggi del Nuovo Testamento è sottolineato che a chi disturba la retta fede delle comunità non deve essere concesso accesso alle medesime né data opportunità di diffondere le proprie dottrine. Tutto ciò non ha per scopo la punizione dei peccatori, ma la creazione delle condizioni per le quali l’unità infranta potrà essere risanata. Nella Chiesa episcopaliana degli Stati Uniti non si afferma soltanto che l’omosessualità deve essere permessa, ma che è un dono di Dio, che attraverso la sua pratica si realizza il bene di alcune persone. Siamo tutti peccatori bisognosi della misericordia di Dio. Ma qui un falso insegnamento giustifica un persistente peccato sessuale, è una cosa ben diversa.

La Comunione anglicana si spaccherà definitivamente?

È già spaccata. Molte province anglicane hanno già dichiarato di non essere più in comunione con le Chiese di Usa e Canada. Io stesso non prenderò più la comunione in molte diocesi e chiese anglicane nel mondo.

Nel futuro aderirà alla Fellowship of Confessing Anglicans, che come lei non hanno partecipato all’ultima Conferenza di Lambeth? Oppure aderirà alla Chiesa cattolica? O resterà nella Chiesa d’Inghilterra?
La Fellowship of Confessing Anglicans non è un gruppo scissionista, ma un movimento di rinnovamento dell’anglicanesimo. Sono stato membro per molti anni dell’Arcic e il mio desiderio più grande è l’unità fra le Chiese anglicane e la Chiesa di Roma. La proposta di Benedetto XVI di un ordinariato per gli anglicani che aderiscono alla Chiesa cattolica romana è uno sviluppo molto importante, perché per la prima volta viene riconosciuto che c’è un patrimonio anglicano specifico da salvaguardare e che si può restare anglicani entrando nella Chiesa cattolica. La conservazione della liturgia e della realtà del clero sposato sono due punti molto importanti. Su altri aspetti ho delle riserve: la proposta è un po’ “presbiteriana”, perché l’ordinariato proposto non prevede il riconoscimento di vescovi; poi non è chiara la base dei “criteri oggettivi” in forza dei quali viene accolto il clero sposato, sembrano aggirare la questione del valore della tradizione anglicana di avere sacerdoti sia sposati che celibi; infine non è sufficentemente tutelata l’integrità dell’educazione teologica anglicana, il clero rischia di essere integralmente latinizzato come è accaduto a certe Chiese orientali riunificate a Roma.

Le diverse realtà della Comunione anglicana

Londra, 10. Riflessioni sui maggiori problemi che attualmente impegnano la Chiesa d'Inghilterra verso il Governo e verso la società di questo Paese e una panoramica sui temi che oggi provocano profonde divisioni nella Comunione anglicana: questi i punti che hanno caratterizzato l'intervento di ieri dell'arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, davanti ai religiosi riuniti a Londra per l'assemblea plenaria del sinodo della Chiesa d'Inghilterra.
Il discorso dell'arcivescovo di Canterbury era molto atteso da quanti desideravano ricevere un segnale del suo orientamento nei confronti delle correnti tradizionaliste della Chiesa d'Inghilterra che non ritengono di poter accettare la consacrazione di donne vescovo perché contraria alle Sacre Scritture e all'insegnamento della tradizione cristiana. Il primate Williams ha avvisato i suoi ascoltatori che le lotte interne sul problema delle donne vescovo e dei religiosi omosessuali possono sfociare in divisioni permanenti. "Ritengo possibile - ha sottolineato l'arcivescovo - che si crei una situazione in cui ci siano diversi livelli di relazioni tra coloro che si proclamano Anglicani. Questo è quel che non voglio e che neppure desidero, ma nutro il sospetto che senza un maggiore cambiamento dei nostri cuori possa divenire il modo inevitabile per limitare i danni che procuriamo a noi stessi".
All'inizio del suo intervento, Williams ha affrontato i problemi che l'Equality Bill, in discussione al Parlamento di Londra, può causare alla organizzazioni religiose. Per il primate, questo progetto legislativo che vorrebbe eliminare ogni discriminazione sui luoghi di lavoro rischia di passare il confine tra ciò che può essere una legittima decisione da parte del Governo e quello che invece può divenire una minaccia per la libertà dei cittadini.
Il tema dell'assistenza al suicidio, che nei mesi trascorsi ha suscitato forti contrasti, ha tuttavia unito cattolici e anglicani sul fronte comune della difesa della vita. Il tema è stato affrontato da Williams nel secondo punto del suo intervento. Il primate ha ribadito che "il diritto di una persona di decidere, nel pieno della sua coscienza, l'uso di uno strumento legislativo che possa assicurargli l'assistenza al suicidio comporta il rischio che altre persone, non nelle stesse ideali condizioni, possano essere manipolate, forzate o, semplicemente, rese depresse". Ovviamente il suicidio - ha sottolineato - non può comunque essere accettato dai fedeli. Un altro punto toccato da Williams è stato quello della "visione tridimensionale" della realtà intorno a ciascuno di noi. "Guardando qualcosa in modo tridimensionale - ha notato l'arcivescovo - ci si accorge che non è possibile osservare il tutto contemporaneamente". Partendo da questa constatazione, Williams ha spronato i membri del sinodo a guardare le diverse realtà religiose della Comunione anglicana in modo più completo, tenendo conto che esse sono influenzate e condizionate da diverse situazioni.
L'arcivescovo ha quindi ricordato le esperienze da lui vissute nel corso delle visite a vescovi e parrocchie delle 47 province della Comunione per fornire esempi di come in essa vi siano esigenze religiose in forte contrasto. Ricordando la sua visita agli episcopaliani statunitensi, il primate anglicano aveva constatato come, per questo gruppo, il problema del riconoscimento del diritto degli omosessuali a esercitare il ministero religioso fosse al centro del dibattito. Al contrario, nel corso della sua visita alle comunità anglicane della Malaysia, Williams aveva accertato che i fedeli di questo Paese, in stretto contatto con le comunità musulmane, respingono totalmente il tema dell'omosessualità ritenendolo immorale.
Recentemente, in Africa, Williams ha constatato che molte comunità anglicane di diversi Paesi del continente appoggiano pienamente legislazioni con carattere apertamente anti-omosessuale. Nell'esposizione delle sue esperienze in diversi Paesi, Williams non ha dimenticato anche di ricordare il coraggio dei pastori donna che si battono in difesa dei più emarginati. Ha citato la parrocchia di St. Ann nel South Bronx a New York dove la responsabile ha avviato corsi post-scolastici per i bambini delle famiglie più povere. Ha anche ricordato una parrocchia di New Orleans, visitata un paio di anni addietro, dove i fedeli episcopaliani hanno costruito con i loro mezzi l'edificio della chiesa per soddisfare il bisogno d'amore per Dio.
Al termine dell'intervento, Williams ha invitato i membri del sinodo e tutti i fedeli anglicani a rivolgersi in preghiera a Dio, il solo in grado di illuminare i fedeli con il suo amore e chiarire i tanti aspetti del mondo tridimensionale per mezzo della fede.
Nella giornata di oggi, i membri del sinodo si stanno occupando, tra gli altri temi, dei rapporti tra la Chiesa d'Inghilterra e l'Anglican Church in North America, costituitasi dopo che molti fedeli episcopaliani hanno dissentito dalla decisione presa lo scorso anno durante l'assemblea generale in California di nominare vescovi religiosi e religiose che hanno unioni con persone omosessuali.

(©L'Osservatore Romano - 11 febbraio 2010)

Il Papa supera il dibattito delle radici cattoliche dell'anglicanesimo

Secondo Dermot Quinn, docente della Seton Hall University


di Francisco Javier Tagle Montt

SANTIAGO DEL CILE, lunedì, 8 febbraio 2010 (ZENIT.org).- Benedetto XVI "pone fine al dibattito sulle radici cattoliche e apostoliche dell'anglicanesimo" iniziato due secoli fa, conferma Dermot Quinn, docente di Storia presso la Seton Hall University degli Stati Uniti.

Il membro del direttorio del Chesterton Institute for Faith & Culture ha analizzato nell'ultimo numero della rivista "Humanitas", della Pontificia Università Cattolica del Cile (www.humanitas.cl), le implicazioni della Costituzione Apostolica Anglicanorum coetibus.

Il documento è stato firmato dal Pontefice il 4 novembre per istituire "Ordinariati Personali per Anglicani che entrano nella piena comunione con la Chiesa Cattolica".

Secondo l'esperto, la Costituzione Apostolica non si limita alle esigenze liturgiche, ma affronta anche la questione dell'autorità: "la sua effettiva scomparsa in una comunione e il suo effettivo esercizio in un'altra".

"Più che di questo, tratta della fonte dell'autorità, che in definitiva non è il Papa, ma Cristo stesso", segnala.

La Costituzione Apostolica ha l'obiettivo di fornire "supervisione e guida pastorale" agli anglicani che nel corso degli anni hanno cercato una comunione più stretta con il cattolicesimo.

"E' stato subito chiaro che il gesto del Santo Padre non era un'iniziativa, ma una risposta. Di recente, segnala il documento, gruppi di ex anglicani avevano chiesto 'più volte e insistentemente' di essere ricevuti nella piena comunione con Roma. Il Papa avrebbe potuto difficilmente rifiutarsi di ascoltare queste richieste", spiega Quinn.

La Comunione Anglicana Tradizionale si è separata da Canterbury nel 1991, e da allora, indica il docente, molti dei suoi 400.000 membri hanno espresso il desiderio di unirsi a Roma avendo la possibilità di conservare le proprie forme di preghiera.

"Siamo in presenza di una Comunione che manifestamente non è in comunione neanche con se stessa. E' ciò che succede quando una Chiesa contiene elementi cattolici e protestanti. E' quello che avviene quando le autorità accettano dei compromessi. E' ciò che significa non avere un Papa".

Il docente della Seton Hall University constata che "l'Anglicanorum coetibus pone fine al dibattito sulle radici cattoliche e apostoliche dell'anglicanesimo iniziato dal Movimento di Oxford quasi due secoli fa. In ultima istanza, il Santo Padre segnala chiaramente che se la cattolicità e l'apostolicità non sono romane non sono nulla".

Secondo Quinn, è un esempio di ciò che John Henry Newman definiva, nel suo famoso sermone intitolato "La seconda primavera", "una garanzia concessa a noi da Roma del suo amore che non si indebolisce".

"Chi vede questo in altro modo non ha compreso il suo vero senso. Ad ogni modo, il gesto di Benedetto XVI non è stato debitamente compreso da molti anglicani, e non lo hanno capito neanche molti cattolici", constata.

"L'Anglicanorum coetibus non è una nuova 'aggressione papale' (come hanno denunciato alcuni), ma un esercizio di compassione pastorale".

L'accademico nordamericano ricorda che, "quando è stato eletto, alcuni cattolici si lamentavano del fatto che Benedetto XVI si sarebbe accontentato di una Chiesa più piccola ma 'più pura'. Ora questi stessi cattolici si lamentano del fatto che la stia espandendo".

In questo senso, segnala che "il cattolicesimo liberale collassa in uno strano spettacolo di sacerdoti che respingono con sdegno persone che desiderano convertirsi al cattolicesimo e ridicolizzano definendolo intollerante il Papa che desidera accoglierle".

"Dopo tutto, un Papa capace di trovare uno spazio per gli ex anglicani e gli ex lefebvriani è più di tutto aperto al dialogo, aperto a nuove sistemazioni, aperto a soluzioni creative per problemi storicamente spinosi. E' questo che significa essere un Pontefice: un costruttore di ponti", dice Quinn.

In definitiva, spiega che "se è necessario vincere la battaglia, Benedetto XVI si rende conto che questo si otterrà solo con l'unità con Roma".

"La Riforma è iniziata con un tedesco. Sarebbe molto bello se potesse terminare con un altro", conclude.

[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]

Chiesa ortodossa russa, vicina ai cattolici, ma lontana dai protestanti

Il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie Kirill riscontra la vicinanza tra Roma e Mosca sulle maggiori sfide della modernità: globalizzazione, secolarizzazione, erosione dei principi morali tradizionali. Aumentano invece le distanze con i protestanti accusati di tradire l’eredità cristiana adeguandosi agli standard del mondo.

Mosca (AsiaNews/Agenzie) – Mentre con la Chiesa cattolica riscontra una vicinanza di visioni almeno sulle maggiori sfide poste dalla contemporaneità, il Patriarcato di Mosca non può dire lo stesso dei protestanti. Parla così il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie, Kirill, intervenendo all’incontro dei vescovi che si è svolto nella capitale il 2 febbraio scorso. “Con la Chiesa di Roma – ha detto – abbiamo posizioni simili su molti problemi che affrontano i cristiani nel mondo moderno. Come ad esempio la secolarizzazione, la globalizzazione e l’erosione dei principi morali tradizionali. Bisogna notare che in molte questioni Benedetto XVI ha preso posizioni vicine a quelle ortodosse”.

Sembrano, invece, aumentare le distanze con le varie denominazioni protestanti. Negli ultimi anni, “c’è stata una diminuzione della collaborazione delle comunità protestanti nello sforzo di preservare l’eredità cristiana” e questo a causa della “costante liberalizzazione” del loro mondo, ha spiegato Kirill. “Non solo – aggiunge il Patriarca – hanno fallito nel propagare in modo concreto i valori cristiani nella società laica, ma molte comunità protestanti preferiscono adeguarsi a quegli standard”. Il riferimento sembra essere alla recente elezioni della donna vescovo, Margot Kassmann, come capo della Chiesa evangelica in Germania.

Kirill spiega chiaramente che nel dialogo con i protestanti la Chiesa ortodossa deve cercare il modo di superare le differenze fondamentali e se questo non sarà possibile, “rimarranno molti altri importanti questioni, non direttamente legate al raggiungimento dell’unità nella fede e alla struttura ecumenica, ma importanti in termini di collaborazione per il bene della pace, della giustizia, del Creato e importanti per risolvere altri problemi che richiedono uno sforzo comune da parte di coloro che credono nella Trinità”.

Il Patriarca ortodosso russo Kirill: "con il Papa una visione comune sull'Europa"

“Tendenze positive” si sono registrate nell’anno appena trascorso, nel dialogo tra la Chiesa ortodossa russa e la Chiesa cattolica romana. E’ un bilancio positivo quello che il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie Kirill I ha tracciato ieri parlando alla Conferenza dei vescovi che si è svolta a Mosca presso la Sala dei Concilii della cattedrale di Cristo Salvatore. Vi hanno partecipato i vescovi della Chiesa ortodossa giunti a Mosca per celebrare il primo anniversario della sua intronizzazione. Il Patriarca Kirill ha presentato ai vescovi un lungo Rapporto sulle attività, visite e viaggi che hanno caratterizzato questo suo primo anno di leadership riservando un dettagliato paragrafo anche ai rapporti con la Chiesa cattolica. A questo proposito, Kirill ha detto: “Attività comuni e i numerosi incontri avuti con i rappresentanti della Chiesa cattolica hanno confermato che le nostre posizioni coincidono su numerose questioni che interpellano i cristiani nel mondo moderno. Sono l’aggressiva secolarizzazione, la globalizzazione, l’erosione dei tradizionali principi etici. Vale la pena sottolineare che su questi temi papa Benedetto XVI ha preso posizioni molto vicine a quelle ortodosse. E ciò è dimostrato dai suoi discorsi, messaggi così come dalle opinioni di alti rappresentati della Chiesa cattolica romana con i quali abbiamo dei contatti”. Il Patriarca Kirill ha notato come “una visione comune della tutela della dignità umana in Europa” sia emersa anche durante l’incontro che l’arcivescovo Hilarion Volokolamsky ha avuto in settembre con il Papa e con altri leader della Curia romana. Nel suo discorso il Patriarca ha anche ricordato la decisione presa a novembre dalla Corte europea dei diritti dell’uomo sulla inammissibilità della presenza dei crocifissi nelle scuole italiane ed ha commentato: “è stato un chiaro attacco alle tradizioni cristiane europee”, per questo la Chiesa ortodossa russa ha espresso la sua solidarietà con la Chiesa cattolica in Italia”. Ed ha aggiunto: “Abbiamo ribadito che la civiltà europea ha radici cristiane per cui è assolutamente inaccettabile privare l’Europa e le sue istituzioni dei simboli della sua identità spirituale”. Nella relazione, il Patriarca non nasconde ”i problemi esistenti” nelle relazioni bilaterali a cui “si continua a lavorare”. Ed in particolare ha parlato della “difficile situazione in Ucraina” auspicando “passi concreti” da parte cattolica. Bilancio completamente diverso invece si registra nei rapporti tra la Chiesa ortodossa russa e le chiese protestanti e il nodo principale sta nella “liberalizzazione rapida del mondo protestante”. Sotto accusa sono in particolare le benedizioni alle unioni dello stesso sesso e le elezioni episcopali di vescovi dichiaratamente gay. Sono questi “i motivi – ha detto il Patriarca - per cui siamo stati costretti a interrompere il rapporto con la Chiesa episcopale degli Stati uniti e con al Chiesa luterana di Svezia”. Nel paragrafo riservato al mondo protestante, il Patriarca ricorda anche e con rammarico l’elezione del vescovo-donna Margot Kassmann come presidente del Consiglio della Chiesa evangelica in Germania. (R.P.)

Perché al dialogo ecumenico ci voleva un tedesco Chi sostituirà il quasi insostituibile Kasper “nel fluire aperto del tempo”

di Paolo Rodari

Il cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani con delega ai rapporti con gli ebrei, ha suggellato la lunga presenza in Vaticano (quasi undici anni) affiancando Benedetto XVI nella visita di domenica scorsa alla sinagoga di Roma.
Erano seduti uno a fianco all’altro e la stessa scena si ripeterà lunedì prossimo nella basilica di San Giovanni in Laterano quando il Papa chiuderà la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani.
Se l’apparizione in pubblico di Kasper sia una delle ultime da guida del dialogo ecumenico vaticano è difficile dirlo. Anche se non è un mistero che la sua lunga stagione romana, visti i raggiunti limiti di età (a marzo Kasper compie 77 anni), è vicina al termine. Tanto che già sono definite le ipotesi di successione: o il tedesco vescovo di Ratisbona, Gerhard Ludwig Müller – oggi favorito –, oppure, in alternativa, l’italiano Bruno Forte, vescovo di Chieti-Vasto.
La presenza domenica in sinagoga di Kasper accanto a Ratzinger evoca tante cose. Anzitutto il motivo profondo per il quale nel 2001 Karol Wojtyla gli affidò le chiavi del Pontificio consiglio del quale già da due anni era segretario: Kasper è figura che più di altre rassicura il mondo cristiano e insieme giudaico.
Scrive infatti Daniel Deckers, redattore della Frankfurter Allgemeine Zeitung e biografo prima del cardinale Karl Lehmann e, più recentemente con la pubblicazione di “Wo das Herz des Glaubens schlägt. Die Erfarhung eines Lebens” – del cardinale Kasper, che la chiamata del teologo tedesco a Roma, “assai apprezzato nell’ambito dell’ecumene”, ha costituito “un segnale tanto per gli avversari che per i sostenitori di ambedue le parti: Roma intende restare fedele al progetto di comprensione e di avvicinamento, sulla via del dialogo teologico”.
Kasper era tutto questo: era il giovane docente di Teologia dogmatica a Monaco che nel ’67 fu accolto nella commissione internazionale per il dialogo luterano-cattolico e, successivamente, fu immortalato mentre abbracciava Ismael Noko, segretario della federazione luterana mondiale. Insieme, era il teologo della Germania post conciliare, quella che nella chiesa cattolica più spingeva per aperture non solo verso i cristiani separati ma anche verso il giudaismo. “Nessuno meglio di un tedesco riusciva a incarnare le spinte ecumeniche fondamentali per la chiesa post conciliare”, ha infatti spiegato al Foglio un porporato di curia. “Dopo la stagione dell’olandese Johannes Willebrands e dell’australiano Edward Idris Cassidy, da più parti si fece presente a Wojtyla che l’ecumenismo necessitava di un tedesco”.
Non sempre i rapporti tra Ratzinger e Kasper sono stati buoni.
L’ha detto nel 2008 lo stesso Ratzinger quando fece a Kasper gli auguri per i 75 anni: “Non sempre siamo stati della medesima opinione ma ci siamo sempre saputi insieme nel cammino al servizio di Cristo e della chiesa”.
La divergenza di opinione è anche relativa al concetto di ecumenismo: più improntato alla necessità che le varie chiese si riconoscano unite “cum e sub Petro” quello di Ratzinger, più propenso a far sì che le chiese dialoghino pur senza riconoscersi legate a Roma quello di Kasper.
Ma nonostante ciò una cosa è certa: alla curia romana mancherà l’intelligenza di Kasper, teologo figlio del grande rinnovamento promosso fin dalla prima metà del secolo XIX nella gloriosa facoltà teologica di Tubinga, quella dove si voleva fare teologia “nel fluire aperto del tempo”.

© Copyright Il Foglio, 21 gennaio 2010

Il Papa: L'incontro personale con Gesù Cristo morto e risorto attraverso un processo esistenziale che ci fa testimoni è la fonte dell'unità

Se ad un mondo che non conosce Cristo, che si è allontanato da Lui o che si mostra indifferente al Vangelo, i cristiani si presentano non uniti, anzi spesso contrapposti, sarà credibile l’annuncio di Cristo come unico Salvatore del mondo e nostra pace? Il rapporto fra unità e missione da quel momento ha rappresentato una dimensione essenziale dell’intera azione ecumenica e il suo punto di partenza.

Se vediamo il contesto del capitolo, "tutto ciò" vuole dire innanzitutto la Croce e la Risurrezione: i discepoli hanno visto la crocifissione del Signore, vedono il Risorto e così cominciano a capire tutte le Scritture che parlano del mistero della Passione e del dono della Risurrezione. "Tutto ciò" quindi è il mistero di Cristo, del Figlio di Dio fattosi uomo, morto per noi e risorto, vivo per sempre e così garanzia della nostra vita eterna.

Ma conoscendo Cristo – questo è il punto essenziale - conosciamo il volto di Dio. Cristo è soprattutto la rivelazione di Dio. In tutti i tempi, gli uomini percepiscono l’esistenza di Dio, un Dio unico, ma che è lontano e non si mostra. In Cristo questo Dio si mostra, il Dio lontano diventa vicino. "Tutto ciò" è quindi, soprattutto col mistero di Cristo, Dio che si è fatto vicino a noi. Ciò implica un’altra dimensione: Cristo non è mai solo; Egli è venuto in mezzo a noi, è morto solo, ma è risorto per attirare tutti sé. Cristo, come dice la Scrittura, si crea un corpo, riunisce tutta l’umanità nella sua realtà della vita immortale. E così, in Cristo che riunisce l’umanità, conosciamo il futuro dell’umanità: la vita eterna. Tutto ciò, quindi, è molto semplice, in ultima istanza: conosciamo Dio conoscendo Cristo, il suo corpo, il mistero della Chiesa e la promessa della vita eterna.

Come possiamo noi essere testimoni di "tutto ciò"? Possiamo essere testimoni solo conoscendo Cristo e, conoscendo Cristo, anche conoscendo Dio. Ma conoscere Cristo implica certamente una dimensione intellettuale - imparare quanto conosciamo da Cristo - ma è sempre molto più che un processo intellettuale: è un processo esistenziale, è un processo dell'apertura del mio io, della mia trasformazione dalla presenza e dalla forza di Cristo, e così è anche un processo di apertura a tutti gli altri che devono essere corpo di Cristo. In questo modo, è evidente che conoscere Cristo, come processo intellettuale e soprattutto esistenziale, è un processo che ci fa testimoni. In altre parole, possiamo essere testimoni solo se Cristo lo conosciamo di prima mano e non solo da altri, dalla nostra propria vita, dal nostro incontro personale con Cristo. Incontrandolo realmente nella nostra vita di fede diventiamo testimoni e possiamo così contribuire alla novità del mondo, alla vita eterna. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci dà un'indicazione anche per il contenuto di questo "tutto ciò". La Chiesa ha riunito e riassunto l'essenziale di quanto il Signore ci ha donato nella Rivelazione, nel "Simbolo detto niceno-costantinopolitano, il quale trae la sua grande autorità dal fatto di essere frutto dei primi due Concili Ecumenici (325 e 381)" (CCC, n. 195). Il Catechismo precisa che questo Simbolo "è tuttora comune a tutte le grandi Chiese dell’Oriente e dell’Occidente" (Ibid.). In questo Simbolo quindi si trovano le verità di fede che i cristiani possono professare e testimoniare insieme, affinché il mondo creda, manifestando, con il desiderio e l’impegno di superare le divergenze esistenti, la volontà di camminare verso la piena comunione, l’unità del Corpo di Cristo.



Benedetto XVI parla della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani


Catechesi all'Udienza generale del mercoledì


CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 20 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale nell'aula Paolo VI, dove ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.

Nel discorso in lingua italiana, il Papa ha parlato della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani.





* * *

Cari fratelli e sorelle!

Siamo al centro della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, un’iniziativa ecumenica, che si è andata strutturando ormai da oltre un secolo, e che attira ogni anno l’attenzione su un tema, quello dell’unità visibile tra i cristiani, che coinvolge la coscienza e stimola l’impegno di quanti credono in Cristo. E lo fa innanzitutto con l’invito alla preghiera, ad imitazione di Gesù stesso, che chiede al Padre per i suoi discepoli "Siano uno, affinché il mondo creda" (Gv 17,21). Il richiamo perseverante alla preghiera per la piena comunione tra i seguaci del Signore manifesta l’orientamento più autentico e più profondo dell’intera ricerca ecumenica, perché l’unità, prima di tutto, è dono di Dio. Infatti, come afferma il Concilio Vaticano Secondo: "il santo proposito di riconciliare tutti i cristiani nell’unica Chiesa di Cristo, una e unica, supera tutte le forze umane" (Unitatis Redintegratio, 24). Pertanto, oltre al nostro sforzo di sviluppare relazioni fraterne e promuovere il dialogo per chiarire e risolvere le divergenze che separano le Chiese e le Comunità ecclesiali, è necessaria la fiduciosa e concorde invocazione al Signore.

Il tema di quest’anno è preso dal Vangelo di san Luca, dalle ultime parole del Risorto ai suoi discepoli "Di questo voi siete testimoni" (Lc 24,48). La proposta del tema è stata chiesta dal Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, in accordo con la Commissione Fede e Costituzione del Consiglio Ecumenico delle Chiese, ad un gruppo ecumenico della Scozia. Un secolo fa la Conferenza Mondiale per la considerazione dei problemi in riferimento al mondo non cristiano ebbe luogo proprio ad Edimburgo, in Scozia, dal 13 al 24 giugno 1910. Tra i problemi allora discussi vi fu quello della difficoltà oggettiva di proporre con credibilità l’annuncio evangelico al mondo non cristiano da parte dei cristiani divisi tra loro. Se ad un mondo che non conosce Cristo, che si è allontanato da Lui o che si mostra indifferente al Vangelo, i cristiani si presentano non uniti, anzi spesso contrapposti, sarà credibile l’annuncio di Cristo come unico Salvatore del mondo e nostra pace? Il rapporto fra unità e missione da quel momento ha rappresentato una dimensione essenziale dell’intera azione ecumenica e il suo punto di partenza. Ed è per questo specifico apporto che quella Conferenza di Edimburgo rimane come uno dei punti fermi dell’ecumenismo moderno. La Chiesa Cattolica, nel Concilio Vaticano II, riprese e ribadì con vigore questa prospettiva, affermando che la divisione tra i discepoli di Gesù "non solo contraddice apertamente alla volontà di Cristo, ma anche è di scandalo al mondo e danneggia la santissima causa della predicazione del Vangelo ad ogni creatura" (Unitatis Redintegratio, 1).

In tale contesto teologico e spirituale si situa il tema proposto in questa Settimana per la meditazione e la preghiera: l’esigenza di una testimonianza comune a Cristo. Il breve testo proposto come tema "Di questo voi siete testimoni" è da leggere nel contesto dell’intero capitolo 24 del Vangelo secondo Luca. Ricordiamo brevemente il contenuto di questo capitolo. Prima le donne si recano al sepolcro, vedono i segni della Risurrezione di Gesù e annunciano quanto hanno visto agli Apostoli e agli altri discepoli (v. 8); poi lo stesso Risorto appare ai discepoli di Emmaus lungo il cammino, appare a Simon Pietro e successivamente, agli "Undici e agli altri che erano con loro" (v. 33). Egli apre la mente alla comprensione delle Scritture circa la sua Morte redentrice e la sua Risurrezione, affermando che "nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati" (v. 47). Ai discepoli che si trovano "riuniti" insieme e che sono stati testimoni della sua missione, il Signore Risorto promette il dono dello Spirito Santo (cfr v. 49), affinché insieme lo testimonino a tutti i popoli. Da tale imperativo – "Di tutto ciò", di questo voi siete testimoni (cfr Lc 24,48) -, che è il tema di questa Settimana per l’unità dei cristiani, nascono per noi due domande. La prima: cosa è "tutto ciò"? La seconda: come possiamo noi essere testimoni di "tutto ciò"?

Se vediamo il contesto del capitolo, "tutto ciò" vuole dire innanzitutto la Croce e la Risurrezione: i discepoli hanno visto la crocifissione del Signore, vedono il Risorto e così cominciano a capire tutte le Scritture che parlano del mistero della Passione e del dono della Risurrezione. "Tutto ciò" quindi è il mistero di Cristo, del Figlio di Dio fattosi uomo, morto per noi e risorto, vivo per sempre e così garanzia della nostra vita eterna.

Ma conoscendo Cristo – questo è il punto essenziale - conosciamo il volto di Dio. Cristo è soprattutto la rivelazione di Dio. In tutti i tempi, gli uomini percepiscono l’esistenza di Dio, un Dio unico, ma che è lontano e non si mostra. In Cristo questo Dio si mostra, il Dio lontano diventa vicino. "Tutto ciò" è quindi, soprattutto col mistero di Cristo, Dio che si è fatto vicino a noi. Ciò implica un’altra dimensione: Cristo non è mai solo; Egli è venuto in mezzo a noi, è morto solo, ma è risorto per attirare tutti sé. Cristo, come dice la Scrittura, si crea un corpo, riunisce tutta l’umanità nella sua realtà della vita immortale. E così, in Cristo che riunisce l’umanità, conosciamo il futuro dell’umanità: la vita eterna. Tutto ciò, quindi, è molto semplice, in ultima istanza: conosciamo Dio conoscendo Cristo, il suo corpo, il mistero della Chiesa e la promessa della vita eterna.

Veniamo ora alla seconda domanda. Come possiamo noi essere testimoni di "tutto ciò"? Possiamo essere testimoni solo conoscendo Cristo e, conoscendo Cristo, anche conoscendo Dio. Ma conoscere Cristo implica certamente una dimensione intellettuale - imparare quanto conosciamo da Cristo - ma è sempre molto più che un processo intellettuale: è un processo esistenziale, è un processo dell'apertura del mio io, della mia trasformazione dalla presenza e dalla forza di Cristo, e così è anche un processo di apertura a tutti gli altri che devono essere corpo di Cristo. In questo modo, è evidente che conoscere Cristo, come processo intellettuale e soprattutto esistenziale, è un processo che ci fa testimoni. In altre parole, possiamo essere testimoni solo se Cristo lo conosciamo di prima mano e non solo da altri, dalla nostra propria vita, dal nostro incontro personale con Cristo. Incontrandolo realmente nella nostra vita di fede diventiamo testimoni e possiamo così contribuire alla novità del mondo, alla vita eterna. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci dà un'indicazione anche per il contenuto di questo "tutto ciò". La Chiesa ha riunito e riassunto l'essenziale di quanto il Signore ci ha donato nella Rivelazione, nel "Simbolo detto niceno-costantinopolitano, il quale trae la sua grande autorità dal fatto di essere frutto dei primi due Concili Ecumenici (325 e 381)" (CCC, n. 195). Il Catechismo precisa che questo Simbolo "è tuttora comune a tutte le grandi Chiese dell’Oriente e dell’Occidente" (Ibid.). In questo Simbolo quindi si trovano le verità di fede che i cristiani possono professare e testimoniare insieme, affinché il mondo creda, manifestando, con il desiderio e l’impegno di superare le divergenze esistenti, la volontà di camminare verso la piena comunione, l’unità del Corpo di Cristo.

La celebrazione della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani ci porta a considerare altri aspetti importanti per l’ecumenismo. Innanzitutto, il grande progresso realizzato nelle relazioni tra Chiese e Comunità ecclesiali dopo la Conferenza di Edimburgo di un secolo fa. Il movimento ecumenico moderno si è sviluppato in modo così significativo da diventare, nell’ultimo secolo, un elemento importante nella vita della Chiesa, ricordando il problema dell’unità tra tutti i cristiani e sostenendo anche la crescita della comunione tra loro. Esso non solo favorisce i rapporti fraterni tra le Chiese e le Comunità ecclesiali in risposta al comandamento dell’amore, ma stimola anche la ricerca teologica. Inoltre, esso coinvolge la vita concreta delle Chiese e delle Comunità ecclesiali con tematiche che toccano la pastorale e la vita sacramentale, come, ad esempio, il mutuo riconoscimento del Battesimo, le questioni relative ai matrimoni misti, i casi parziali di comunicatio in sacris in situazioni particolari ben definite. Nel solco di tale spirito ecumenico, i contatti sono andati allargandosi anche a movimenti pentecostali, evangelici e carismatici, per una maggiore conoscenza reciproca, benchè non manchino problemi gravi in questo settore.

La Chiesa cattolica, dal Concilio Vaticano II in poi, è entrata in relazioni fraterne con tutte le Chiese d’Oriente e le Comunità ecclesiali d’Occidente, organizzando, in particolare, con la maggior parte di esse, dialoghi teologici bilaterali, che hanno portato a trovare convergenze o anche consensi in vari punti, approfondendo così i vincoli di comunione. Nell’anno appena trascorso i vari dialoghi hanno registrato positivi passi. Con le Chiese Ortodosse la Commissione Mista Internazionale per il Dialogo Teologico ha iniziato, nell’XI Sessione plenaria svoltasi a Paphos di Cipro nell’ottobre 2009, lo studio di un tema cruciale nel dialogo fra cattolici e ortodossi: Il ruolo del vescovo di Roma nella comunione della Chiesa nel primo millennio, cioè nel tempo in cui i cristiani di Oriente e di Occidente vivevano nella piena comunione. Questo studio si estenderà in seguito al secondo millennio. Ho già più volte chiesto la preghiera dei cattolici per questo dialogo delicato ed essenziale per l’intero movimento ecumenico. Anche con le Antiche Chiese ortodosse d’Oriente (copta, etiopica, sira, armena) l’analoga Commissione Mista si è incontrata dal 26 al 30 gennaio dello scorso anno. Tali importanti iniziative attestano come sia in atto un dialogo profondo e ricco di speranze con tutte le Chiese d’Oriente non in piena comunione con Roma, nella loro propria specificità.

Nel corso dell’anno passato, con le Comunità ecclesiali di Occidente si sono esaminati i risultati raggiunti nei vari dialoghi in questi quarant’anni, soffermandosi, in particolare, su quelli con la Comunione Anglicana, con la Federazione Luterana Mondiale, con l’Alleanza Riformata Mondiale e con il Consiglio Mondiale Metodista. Al riguardo, il Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani ha realizzato uno studio per enucleare i punti di convergenza a cui si è giunti nei relativi dialoghi bilaterali, e segnalare, allo stesso tempo, i problemi aperti su cui occorrerà iniziare una nuova fase di confronto.

Tra gli eventi recenti, vorrei menzionare la commemorazione del decimo anniversario della Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione, celebrato insieme da cattolici e luterani il 31 ottobre 2009, per stimolare il proseguimento del dialogo, come pure la visita a Roma dell’Arcivescovo di Canterbury, il Dottor Rowan Williams, il quale ha avuto anche colloqui sulla particolare situazione in cui si trova la Comunione Anglicana. Il comune impegno di continuare le relazioni e il dialogo sono un segno positivo, che manifesta quanto sia intenso il desiderio dell’unità, nonostante tutti i problemi che si oppongono. Così vediamo che c’è una dimensione della nostra responsabilità nel fare tutto ciò che è possibile per arrivare realmente all’unità, ma c’è l’altra dimensione, quella dell’azione divina, perché solo Dio può dare l’unità alla Chiesa. Una unità "autofatta" sarebbe umana, ma noi desideriamo la Chiesa di Dio, fatta da Dio, il quale quando vorrà e quando noi saremo pronti, creerà l’unità. Dobbiamo tenere presente anche quanti progressi reali si sono raggiunti nella collaborazione e nella fraternità in tutti questi anni, in questi ultimi cinquant’anni. Allo stesso tempo, dobbiamo sapere che il lavoro ecumenico non è un processo lineare. Infatti, problemi vecchi, nati nel contesto di un’altra epoca, perdono il loro peso, mentre nel contesto odierno nascono nuovi problemi e nuove difficoltà. Pertanto dobbiamo essere sempre disponibili per un processo di purificazione, nel quale il Signore ci renda capaci di essere uniti.

Cari fratelli e sorelle, per la complessa realtà ecumenica, per la promozione del dialogo, come pure affinché i cristiani nel nostro tempo possano dare una nuova testimonianza comune di fedeltà a Cristo davanti a questo nostro mondo, chiedo la preghiera di tutti. Il Signore ascolti l’invocazione nostra e di tutti i cristiani, che in questa settimana si eleva a Lui con particolare intensità.



[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto i partecipanti al pellegrinaggio promosso dalle Ancelle del Sacro Cuore di Gesù, in occasione dell’inaugurazione e benedizione della statua della loro Fondatrice, collocata presso le fondamenta della Basilica Vaticana. Cari amici, sull’esempio di santa Raffaella Maria, siate anche voi testimoni dell’amore misericordioso di Dio. Saluto con affetto i fedeli della parrocchia Santo Nome di Maria in Caserta, convenuti così numerosi in occasione del 25° anniversario di fondazione della loro comunità cristiana. Mentre vi ringrazio per la vostra visita, auspico che questa fausta ricorrenza susciti nuovo impulso per progredire nella fedele e generosa adesione a Cristo e alla Chiesa. Saluto la Pia Associazione del Sacro Cuore di Gesù in Trastevere, che in questi giorni ricorda con opportune iniziative l’80° anniversario della morte del Cardinale Rafael Merry del Val.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, ai giovani, ai malati e agli sposi novelli, che oggi vorrei esortare a tradurre in atteggiamenti concreti la preghiera per l’unità dei cristiani. Questi giorni di riflessione costituiscano per voi, cari giovani, un invito ad essere ovunque operatori di pace e di riconciliazione; per voi, cari ammalati, un momento propizio ad offrire le vostre sofferenze per una comunione dei cristiani sempre più piena; e per voi, cari sposi novelli, l’occasione per vivere ancor più la vostra vocazione speciale con un cuore solo ed un’anima sola.

[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]