Roma. Ieri l’Ipcc, il gruppo di scienziati
che per le Nazioni Unite studia il rapporto
tra le attività umane e i cambiamenti climatici,
ha ufficialmente chiesto scusa per
una delle vicende più imbarazzanti che
hanno colpito il sempre più malconcio
fronte del catastrofismo climatico a tutti i
costi: i ghiacciai dell’Himalaya non si scioglieranno
entro il 2035, come previsto e gridato
da almeno un paio d’anni a questa
parte, ma – nella peggiore delle ipotesi –
parecchi decenni dopo. La storia che ha
portato l’Ipcc all’imbarazzata smentita – e
raccontata già lunedì dal Foglio.it – ha del
grottesco: il capitolo del report dedicato all’Himalaya,
supervisionato da Murari Lal,
un esperto che ha poi ammesso di sapere
poco di ghiacciai e non avere mai messo
piede in quella regione, aveva come base
“scientifica” un documento del Wwf che a
sua volta citava un’intervista di qualche anno
fa a un semi sconosciuto scienziato indiano
che aveva previsto lo scenario apocalittico
basandosi su sue “speculazioni”.
Quando i geofisici indiani avevano osato
contestare il report dell’Ipcc le loro obiezioni
erano state definite dal suo presidente,
l’indiano Rajendra Pachauri, come frutto
di “scienza voodoo”.
Quella sull’Himalaya è solo l’ennesima
gaffe di una scienza, la climatologia, che è
ormai diventata una religione con tanto di
dogmi (l’uomo sta modificando il clima), testi
sacri (il documentario “Una scomoda
verità” di Al Gore e i report dell’Ipcc) e comandamenti
(non farai aumentare la temperatura
del globo più di due gradi, come
se esistesse un grande termostato nascosto
chissà dove), ma che comincia a fare i conti
con i dati della realtà. Una religione dai
tratti deliranti, se è vero che dopo il terremoto
di Haiti, diversi attivisti dell’ambiente
hanno avuto il coraggio di dire che il disastro
è stato frutto del mancato patto tra
l’uomo e Gaia, la Terra, che si sarebbe dovuto
stipulare il dicembre scorso a Copenaghen,
nel corso del summit mondiale sui
cambiamenti climatici.
Il super computer alimentato a carbone
Adesso, dopo avere recitato a lungo la
parte di sacerdoti del nuovo culto, molti
quotidiani – soprattutto americani e anglosassoni
– hanno cominciato una sorta di
controcampagna dando voce a qualunque
dubbio sui dati relativi al clima del nostro
pianeta. Da quando sono state pubblicate
on line, lo scorso novembre, centinaia di email
di climatologi di fama mondiale che si
accordavano per truccare i dati, nascondere
il declino delle temperature e censurare
gli studi contrari alla vulgata catastrofista,
ogni settimana emergono nuove scoperte
che dimostrano come “l’esagerazione”
dell’Ipcc sull’Himalaya non sia un episodio
isolato: l’American Meteorological Society
pubblicherà a breve sul “Journal of Climate”
uno studio che evidenzia come in base
ai modelli attuali l’immissione nell’atmosfera
di anidride carbonica avrebbe dovuto
provocare un aumento delle temperature
ben più alto di quello effettivamente registrato.
In altre parole, se fosse vero che la
CO2 prodotta dall’uomo fa aumentare come
dicono la temperatura globale, questa dovrebbe
essere molto più alta di quello che
è. “Ma il surriscaldamento terrestre esiste
davvero”, ammoniva ieri Repubblica nella
pagina in cui doveva suo malgrado dare la
notizia della gaffe himalayana (annacquata
con un titolo buono per tutte le stagioni: “I
misteri del clima pazzo, ora i ghiacci dell’Himalaya
non si sciolgono più”). Vero, ma
forse allora non è così certo che sia dovuto
all’uomo né che sia così catastrofico.
Ieri il blog scientifico Climate Monitor
segnalava come, nello stesso report che dà
l’Everest ormai spacciato, ci sia una tabella
che indica quanti milioni di persone potranno
essere a rischio di un adeguato approvvigionamento
idrico con il progredire
dell’aumento di temperatura. Uno degli
autori della tabella, Nigel Arnell, ha pubblicato
on line quegli stessi dati, accompagnati
però anche dal calcolo delle persone
che il rischio della mancanza di acqua non
lo correranno più se le previsioni dell’Ipcc
si rivelassero vere. Il saldo è positivo, ma
nel documento che l’agenzia dell’Onu ha
fornito ai governanti di tutto il mondo la
seconda parte della tabella non c’è, in modo
che salti agli occhi solo l’aspetto negativo
della questione. La lotta alla CO2 e alla
dittatura del carbone produce poi episodi
quasi comici: l’americano National
Center for Atmospheric Research ha da
poco cominciato la costruzione di un grande
calcolatore per studiare l’impatto della
CO2 sul clima. L’Ncar ha sede in Colorado,
uno degli stati modello per la produzione
di energia “pulita”. Quale migliore occasione
per unire esemplarmente le due cose.
Il super computer, invece, verrà costruito
in Wyoming. In quello stato infatti
l’elettricità costa il trenta per cento in meno
che in Colorado. Per un semplice motivo:
è prodotta per il 95 per cento grazie al
carbone.
Il Foglio 22 gennaio 2010