LO STUDIO - I ricercatori dell’istituto di ricerca del Group Health Cooperative di Seattle, dopo aver chiesto a oltre 600 giovani donne dai 14 ai 30 anni se prendevano o avevano preso la pillola in passato, in quale formulazione e per quanto tempo, hanno misurato la densità delle loro ossa in generale, a livello dell’anca e della colonna vertebrale. «Nelle adolescenti fino a diciotto anni» spiega la ricercatrice «non abbiamo notato nulla di particolare. Ma a partire dai 19 anni, le donne che riferiscono di aver fatto uso della pillola tendono ad avere una densità ossea a livello della colonna vertebrale tanto più bassa quanto più lungo è durato il trattamento contraccettivo: l’effetto maggiore si registra tra coloro che hanno utilizzato la pillola per più di 2 anni, le quali presentano una densità ossea inferiore quasi del 6 per cento rispetto a quelle che non l’hanno mai presa». L’effetto poi è ancora più marcato tra chi prendeva prodotti a basso contenuto di estrogeni.
I COMMENTI - «Il lavoro sembra confermare altre segnalazioni precedenti, condotte su gruppi meno numerosi» spiega Luigi Gennari, ricercatore presso l’Università di Siena. «Una donna che prende la pillola non riceve gli stessi stimoli ormonali che esistono in natura, soprattutto i picchi di estrogeni che si verificano fisiologicamente ogni mese». Nessuno sa se questo effetto è reversibile, una volta interrotto il trattamento, né quali possano essere le sue conseguenze a lungo termine. «Occorre tener conto» commenta la ricercatrice statunitense, «che dopo la menopausa una riduzione della densità ossea del 5 per cento si associa a un rischio di frattura aumentato del 50 per cento». Che fare, dunque? «Chi già ha familiarità per l’osteoporosi, alla luce di questo dato, potrà prestare più attenzione ad assumere un adeguato apporto di calcio, a svolgere una regolare attività fisica, a non fumare» prosegue Gennari. «Anche se nel lavoro ci sono dei limiti metodologici che non permettono ancora di ricavarne conclusioni certe». «Il fatto che i ricercatori statunitensi hanno per così dire “fotografato” la situazione delle ossa in un determinato momento» interviene Carmine Nappi, direttore del Dipartimento di scienze ostetrico-ginecologiche, urologiche e medicina della riproduzione dell’Università degli studi Federico II di Napoli. «L’associazione fra uso di contraccettivi e bassa densità ossea potrebbe quindi avere un nesso causale, tanto più che solo 18 pazienti sulle 195 nella fascia di età maggiore, quella in cui il risultato era significativo, facevano uso della pillola al momento dello studio. Il fatto poi che le pazienti fossero pagate per sottoporsi all’esame, fa sospettare che si tratti di un gruppo a basso reddito, con un’alimentazione piuttosto “povera”: l’assunzione giornaliera di calcio riferita dalle pazienti, circa 1 g al giorno, è al limite della dose raccomandata». Lo scetticismo di Nappi si spiega anche col fatto che i risultati ottenuti in questo campo dal suo gruppo di ricerca vanno in tutt’altra direzione, mostrando piuttosto un’azione protettiva degli anticoncezionali ormonali sulle ossa.
GLI STUDI ITALIANI - «Innanzi tutto i nostri lavori, pubblicati sulla stessa rivista dei colleghi di Seattle, sebbene condotti su un minor numero di donne erano di tipo “prospettico”, e quindi più affidabili dal punto di vista scientifico: abbiamo cioè arruolato le pazienti nel momento in cui cominciavano a utilizzare il contraccettivo e le abbiamo seguite per un anno» spiega Nappi. «Abbiamo così osservato che tanto la pillola con 30 microgrammi di etiniletradiolo che quella con 20 microgrammi non modificano dopo 12 mesi la densità minerale ossea, che le nuovissime pillole con il progestinico drospirenone si comportano altrettanto bene di quelle più vecchie e che il cerotto contraccettivo e l’anello vaginale non differiscono a questo riguardo dalla contraccezione orale». Inoltre i ricercatori napoletani, oltre a valutare la densità ossea prima e dopo lo studio, hanno dosato nel sangue delle pazienti alcuni marcatori del riassorbimento osseo: osservando che i contraccettivi ormonali sono in grado di ridurre i livelli di queste sostanze, hanno dimostrato che inibiscono il riassorbimento, cioè l’indebolimento, dell’osso. «Le discrepanze tra i nostri lavori e quello condotto oltreoceano» prosegue Nappi, «possono essere dovute al fatto che i nostri studi si sono fermati a un anno mentre gli autori statunitensi notano differenze visibili dopo due anni. Inoltre potrebbero esserci differenze nella popolazione, oltre alla diversa impostazione dei lavori». C’è un punto debole in particolare, secondo l’esperto napoletano, nello studio della Scholes: il dato che le pazienti più giovani, cioè quelle che stanno “creando” il proprio patrimonio osseo e che quindi dovrebbero essere più suscettibili, sono invece quelle che non risentono del trattamento».
Roberta Villa
Corriere della sera 24 gennaio 2010