ROMA, giovedì, 21 gennaio 2010 (ZENIT.org).- L'ambasciatore di Israele presso la Santa Sede, Mordechay Lewy, ha pubblicato alcune dichiarazioni sui numeri di gennaio e febbraio della rivista mensile ebraica italiana “Pagine Ebraiche”, delle quali si è fatto eco “L'Osservatore Romano” e in cui chiede ai suoi connazionali una maggiore apertura al dialogo con la Chiesa cattolica.
In entrambi gli interventi, il diplomatico israeliano lamenta che “solo pochi rappresentanti dell'ebraismo sono realmente impegnati nell'attuale dialogo con i cattolici”, e riconosce che esiste un'“asimmetria” in questo colloquio.
Anche se il suo Governo è favorevole “al continuo dialogo ai massimi livelli ufficiali, tra il Rabbinato Centrale d'Israele e la Santa Sede, rimane scetticismo da parte della corrente principale degli ortodossi”, osserva.
Questa chiusura, ammette, è superiore dopo la Shoah, che ha visto l'ortodossia ebraica, prima plurale nella sua relazione con i cristiani, diventare a dir poco meno flessibile, soprattutto la corrente degli Haredim ultraortodossi, che proibisce anche l'incontro con i sacerdoti.
Attualmente, ha spiegato, l'ebraismo riformato e quello conservatore sono “più aperti al dialogo con i cristiani”. “Lo fanno dal punto di vista della loro esperienza americana, dove la convivenza tra gruppi etnici e religiosi è intrinseca alla società”.
Anche questo dialogo, guidato dal rabbino Soloweitchik, non voleva discutere i principi di fede, anche se almeno “non rifuggiva da un dialogo che si basasse su questioni che potessero migliorare il bene comune della convivenza sociale” in temi come la bioetica, l'ecologia, la violenza, ecc.
Questa difficoltà che sperimentano molti ebrei al momento di proporre un dialogo si spiega, secondo Lewy, con il fatto che la maggior parte degli ebrei “considera come autosufficienza nel definire la propria identità religiosa. Non abbiamo bisogno di nessun altro riferimento teologico, se non la Bibbia, per spiegare la nostra vicinanza a Dio come suoi figli prescelti”.
Ciò accade, spiega, per un meccanismo di autodifesa degli ebrei nel corso della loro storia, dovendo vivere in ambienti ostili, anche se la loro relazione con i cristiani non è sempre stata così.
“La maggior parte degli ebrei percepisce la loro storia durante la Diaspora come una battaglia traumatica per la sopravvivenza contro i costanti sforzi da parte dei cattolici di convertirli gentilmente, o, nella maggioranza dei casi, coercitivamente”.
Questa ferita “grave e dolorosa” è quelle che il diplomatico israeliano invita gli ebrei a superare, esortando anche a “conoscere meglio l'altro” per “comprenderlo meglio”.
“Potrebbe essere che molti di noi, ancora traumatizzati, desiderino evitare ogni situazione in cui si debba perdonare qualcuno, specialmente se viene identificato giustamente o erroneamente come rappresentante del carnefice”, ha aggiunto.
Accettare il dialogo
In questo senso, Mordechay Lewy, citando vari saggi ebrei di tutti i tempi, ricorda che l'ebraismo “si fonda sul riconoscimento dell'unità del genere umano, dell'aderenza ai principi morali e della verità, che regnano supreme sopra ogni uomo, a prescindere dalla razza o dalla religione”.
In questo senso, ricorda gli insegnamenti delle fonti rabbiniche medievali, soprattutto Maimonide, affermando che “mostrano rispetto verso le altre religioni”.
Il diplomatico insiste sulla necessità di accettare un dialogo con i cattolici, sulla linea dell'ortodossia moderna attuale, uno dei rappresentanti della quale è il rabbino statunitense David Rosen.
“Quaranta anni di dialogo ebraico-cattolico dopo la 'Nostra aetate' sono stati un periodo di prove ed errori reciproci in cui si è sviluppato un proprio dinamismo”, aggiunge.
“Dopo la Shoah la Chiesa cattolica ha avviato negli anni Sessanta un cambiamento radicale nei riguardi degli ebrei. La conversione è bandita a un orizzonte escatologico distante e sconosciuto”.
“La capacità di sopravvivenza dell'ebraismo è garantita dalla fondazione dello Stato Ebraico”, sottolinea Lewy, sostenendo la necessità di superare questo atteggiamento di autodifesa.
“I cattolici ci porgono la mano. Sarebbe insensato non afferrarla, a meno di non voler ipotecare il nostro futuro con una costante animosità con il mondo cattolico”.
Mordechay Lewy conclude poi rinnovando ai suoi connazionali l'invito al dialogo: “I primi duemila anni non legittimano una ripetizione. Entrambi meritiamo di meglio”.