DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

MARTINI DRY. Studio ragionato dell’ultima stagione spirituale del Card. Martini

di Paolo Rodari
E’dal 23 giugno scorso che l’arcivescovo
emerito di Milano Carlo
Maria Martini, 83 anni il prossimo
febbraio, cura una rubrica dedicata
alla fede sul Corriere della Sera rispondendo
alle domande poste dai
lettori. Il tratto delle risposte è inconfondibile:
interventi problematici,
in non pochi punti infarciti di se, di
ma e di forse, quasi non volesse mai
arrivare a ledere le diverse sensibilità
di coloro che si accostano a quanto
scrive. Ma, insieme, niente a che
vedere col Martini prima maniera,
quello del biblista ed esegeta gesuita
prestato per ventidue anni (dal 1980
al 2002) alla diocesi più ricca d’Italia
e, forse, più prestigiosa del mondo:
Milano. Quello, insomma, che alla rigorosa
predicazione di Joseph Ratzinger,
e soprattutto a quella profetica
ma altrettanto cristallina di Karol
Wojtyla, contrapponeva metodicamente
pagine di interventi e interviste
ricolme di dubbi e “zone grigie”.
In special modo quando in ballo c’erano
i temi della vita, del nascere e
del morire, Martini interveniva lanciando
idee-manifesto che dai più
erano giudicate come una contrapposizione
netta al magistero petrino. Così
in molti leggevano le parole di Martini
che ribaltavano sistematicamente
l’intero “evangelium vitae” dei due
Pontefici.
Che il Martini ultima maniera sia
diverso da quel primo Martini, lo dicono
i testi. Gli interventi contenuti
nelle sette pagine di risposte ai lettori
che il Corriere ha offerto da giugno
a oggi. E, insieme, lo dice al Foglio
uno che Martini lo conosce bene: Massimo
Introvigne, direttore del Center
for Studies on New Religions. Introvigne
è torinese come l’emerito di Milano:
“Conosco Martini fin dai tempi in
cui non era cardinale e frequentavo il
liceo dei gesuiti di Torino”, spiega.
“Poi l’ho frequentato quando lui era
rettore al Pontificio Istituto Biblico.
Non è mai stato un progressista alla
Edward Schillebeeckx o alla Hans
Küng. Martini, a differenza di altri,
non pensa che l’etica cattolica sia
sbagliata. Non pensa che la morale
cattolica debba essere demolita. Semplicemente
egli vede innanzi a sé la
deriva secolarista che rifiuta e rigetta
la morale cattolica. E allora ritiene
che adattare la morale in cui anch’egli
crede fermamente alla morale secolare
possa aiutare la chiesa a recuperare
posizioni, fedeli. Martini, insomma,
è un progressista pratico, non
teorico. Il suo errore è sociologico: è
il medesimo errore che compie la
chiesa episcopaliana negli Stati Uniti:
apre ai vescovi gay e lesbiche col
plauso del New York Times e del Washington
Post e non si rende conto
che, nonostante il plauso della stampa
laica, dimezza ogni anno i propri
membri. Però oggi Martini è diverso:
mi sembra che nella rubrica di lettere
del Corriere sia molto più rimarcata
in lui la nostalgia per la morale cattolica,
per l’etica cattolica in cui egli
crede nonostante tutto, piuttosto che
la volontà di adattarla allo spirito dei
tempi”.
L’ultima rubrica di Martini sul Corriere
è di alcuni giorni fa. In apertura,
Martini stupisce andando contro corrente.
O meglio, contro la corrente che
una volta era tra i primi a percorrere.
I lettori gli parlano di una chiesa che
non sa più riconoscere “la purezza e
l’umiltà del Vangelo”, una chiesa che
non sa portare avanti riforme “necessarie
come è quella dell’abolizione
del celibato dei preti”, una chiesa
“che sta morendo perché manca la
passione e la sofferenza”. Martini non
risponde dicendo che sì, è tutto vero,
ma occorre resistere. Non attacca la
chiesa istituzionale che dovrebbe lasciare
spazio al popolo di Dio, all’attivismo
dei laici, alla voglia di fare dei
fedeli della base. Al contrario, dice
che secondo lui la chiesa, la chiesa di
Benedetto XVI, “non è mai stata così
fiorente come essa è ora”. Non solo:
“Può esibire una serie di Papi di altissimo
livello” e “teologi di grande valore
e spessore culturale”. E ancora:
“Malgrado alcune inevitabili tensioni
interne, la chiesa si presenta oggi unita
e compatta, come forse non lo fu
mai nella sua storia”. Niente a che vedere,
insomma, con dichiarazioni del
passato. Come quelle scritte in “Conversazioni
notturne a Gerusalemme”.
Qui si definisce un “ante-Papa”, “un
precursore e preparatore per il Santo
Padre”. Insomma uno che detta la linea
al Papa, che gli dice come e in che
modo muoversi e agire.
Quando il 23 giugno Martini inizia
la collaborazione col Corriere ricorda
il suo motto episcopale: “Preso dalla
Regola pastorale di san Gregorio Magno
– dice – il mio motto suona così:
‘pro veritate adversa diligere’, e cioè
per il servizio della verità essere
pronto ad amare le avversità. Oggi la
negazione della verità assume spesso
la figura dell’omissione voluta e colpevole,
condizionata dalla paura o
dall’interesse, o anche dalla paciosità:
mi guardi il Signore da queste
trappole!”. E, in effetti, è da tutte le
trappole, anche da quelle che in passato
lo portavano su terreni teologicamente
limacciosi e a volte poco chiari,
che Martini sembra voler rifuggire
in questa sua ultima età: non tanto la
stagione dell’esilio assoluto in quel di
Gerusalemme (Martini ha trascorso
sei anni in Terra Santa dopo essersi
ritirato da Milano) quanto quella del
grande cardinale che, grazie a una
proposta fattagli dal Corriere, torna
sacerdote tra la gente, parroco di fedeli
che tutte le domande, tutti i dubbi,
anche i più banali o inconsueti, vogliono
risolti. Torna semplice sacerdote,
Martini, come probabilmente
non è riuscito a essere quando guidava
Milano e si dedicava tra gli innumerevoli
impegni a divulgare attraverso
libri e conferenze il suo credo
in tutto l’orbe.
Il 30 agosto il titolo della sua rubrica
è: “I divorziati e l’amore coniugale”.
Un lettore dice di andare in chiesa
tutte le domeniche ma di astenersi
dalla comunione perché “ritengo ingiustificato
che la chiesa cattolica
continui ad escludere i divorziati risposati”.
Martini non risponde usando
le medesime parole pronunciate
in una conversazione con Armando
Torno e don Luigi Verzé a Milano: qui
chiese un Concilio per ridiscutere il
“no” all’eucaristia per queste persone.
Sul Corriere scrive che “bisogna
fare di tutto per salvare anche i naufraghi”.
Come? “Tocca alla chiesa deciderlo.
Noi possiamo solo pregare,
soffrire e attendere”. Ma, insieme,
puntualizza che è “importante anzitutto
non favorire in nulla né la leggerezza
né l’infedeltà, promuovere la
perseveranza, difendere l’amore coniugale
dai pericoli che ne minacciano
la perennità”.
Ha sorpreso, nell’ultima rubrica, la
presa di posizione del cardinale sulla
presenza del crocefisso nelle aule
scolastiche e in altri luoghi pubblici.
Martini che la scorsa primavera aveva
scritto che nei confronti dell’islam
è anzitutto la chiesa che “deve combattere
pregiudizi diffusi e nemici immaginari”
perché “i fondamentalisti
esistono da entrambe le parti”, sul
Corriere dice altro: “Tutti – scrive –
devono tener conto delle tradizioni e
delle sensibilità della gente. Chi viene
dal di fuori (dell’Italia, ndr) deve
imparare e rispettare tutto ciò”. E ancora:
il dialogo tra religioni deve presupporre
“stima sincera per le credenze
e le tradizioni degli altri. Non
si richiede affatto di mettere tra parentesi
le proprie credenze”.
A proposito di “Conversazioni notturne
a Gerusalemme”. E’ qui che
Martini mette in pagina un attacco
pesante alla “Humanae Vitae” di
Paolo VI. Nel libro divulgato nel 2008
non senza forti appoggi ecclesiastici,
distribuito gratuitamente dalle riviste
dei gesuiti di Milano “Popoli” e “Aggiornamenti
Sociali”, e recensito con
toni entusiastici su quest’ultima rivista
dal suo direttore, padre Bartolomeo
Sorge, e su Repubblica da Eugenio
Scalfari, Martini attacca frontalmente
la decisione di Montini di pubblicare
l’enciclica. “Lo fece – scrive il
cardinale – nonostante già nel 1964
una commissione composta da specialisti
dei settori della medicina, della
biologia, della sociologia, della psicologia
e della teologia presentasse a
Paolo VI un parere esauriente sui temi
che furono in seguito trattati nella
enciclica”. Montini tuttavia, “con un
solitario senso del dovere e mosso da
profonda convinzione personale, pubblicò
il testo. E sottrasse scientemente
l’argomento ai dibattiti dei padri
conciliari; in questa materia volle assumere
una responsabilità altamente
personale”. Martini nel libro ricorda
anche Giovanni Paolo II che “ha seguito
la via di una rigorosa applicazione
dell’enciclica: non voleva che
su questo punto sorgessero dubbi. Pare
che avesse perfino pensato a una
dichiarazione che godesse del privilegio
dell’infallibilità papale”. E, quindi,
dice la sua: “Dopo l’Humanae Vitae,
i vescovi austriaci e tedeschi, e
molti altri vescovi, hanno seguito, con
le loro dichiarazioni di preoccupazione,
un orientamento che oggi potremmo
portare avanti. Quasi quarant’anni
di distanza (un periodo lungo quanto
il passaggio di Israele nel deserto)
potrebbero consentirci una nuova visione”.
Parole pesanti. Parole che
non ricorrono nelle risposte ai lettori
del Corriere. I temi della vita e della
bioetica, le battaglie su aborto, eutanasia
e quant’altro non ricorrono mai
nei titoli che danno il leit motiv della
rubrica. E difficilmente si trovano
passaggi espliciti nei testi. Anzi, non
se ne trovano proprio. Basti pensare,
ad esempio, che le ultime parole di
Martini dedicate alla bioetica sono sì
di quest’anno (settembre 2009) ma si
trovano in una recensione scritta di
un saggio di Ignazio Marino.
Se c’è un martiniano doc, questi è
don Giovanni Nicolini. Mantovano, fu
a Bologna che conobbe e frequentò
Giuseppe Dossetti. Quindi la lunga
amicizia con Martini che l’ha sostenuto
nel progetto di fondazione della comunità
le Famiglie della Visitazione.
Dice don Nicolini al Foglio che Martini,
prima di inaugurare la sua rubrica
di lettere al Corriere, “ha sempre
svolto interventi di audacia spirituale
ma mai duri”. E ora, in questa sua terza
età, “continua con questa linea
seppure sia maggiormente la sapienza
dell’anziano a venire fuori. Mi pare
che riesce a vedere tutto come da
una pace superiore. Riesce a offrire
un giudizio realistico sulla vita della
chiesa al di là delle polemiche”.
C’è una certa parte della chiesa
che più volte ritorna a parlare della
questione del celibato dei preti. Non
è un dogma, si sa, ma una consuetudine
che, tuttavia, più volte sia Giovanni
Paolo II che Benedetto XVI hanno
detto di non voler che la chiesa disattenda.
Martini, invece, spesso ha ricordato
anche altro. Ad esempio è
dopo quanto detto nel dialogo con
don Verzé che le sue parole suscitano
feroci polemiche: “E’ una questione
delicatissima. Io credo che il celibato
sia un grande valore, che rimarrà
sempre nella chiesa: è un
grande segno evangelico (ethos, ndr).
Non per questo è necessario imporlo
a tutti”. Diversa, invece, la risposta
che sull’argomento Martini dà a un
lettore del Corriere lo scorso 27 settembre.
“Eminenza, le scrivo perché
vorrei avere una chiara e soddisfacente
risposta riguardo a una questione
che forse può apparire banale
ma per me invece molto importante:
perché i sacerdoti non possono sposarsi?”.
Così risponde Martini: “I sacerdoti
possono sposarsi di fatto anche
nella chiesa cattolica, quando appartengono
ai riti orientali. In quel
caso si richiede che il prete prima si
sposi, poi sarà ordinato prete. Ma
nella chiesa di occidente è prevalso
da molti secoli l’uso di dare il sacramento
dell’ordine solo a coloro che
fanno professione di vita celibataria.
Sono molte le ragioni sia spirituali
che sociali di questo fatto. Esse si rifanno
alla lode che Gesù fa della verginità
per il Regno e allo stesso esempio
di Gesù”. Nessun accenno, dunque,
al fatto che il celibato sacerdotale,
pur essendo importante, può non
essere imposto a tutti. Soltanto un’asciutta
spiegazione del perché in occidente
i preti non si sposano.
Beninteso, c’è ancora nel Martini
del Corriere il chiaroscuro, lo sfumato,
il detto e non detto, l’affondo ardito
su tematiche scottanti e poi la ritrattazione.
Ma a prevalere non è mai
la parte che dà scandalo. Come non
dà scandalo, ma anzi affascina, il fatto
che è qui, nella risposta a queste
lettere, che viene fuori anche il Martini
più intimo, sconosciuto ai più. Accade
d’un tratto il 26 luglio. Un lettore
gli dice di aver perduto la fede e
gli domanda: “Potrò ritrovarla? Avevo
in me due forme di fede, in Dio e
nella chiesa romana. Perduta la seconda,
ho annullato anche la prima...”.
La risposta di Martini è sincera
e personale: “Il suo itinerario intellettuale
è molto simile al mio. Ho
percorso un po’ le stesse tappe, ma le
mie conclusioni sono state di continuata
adesione alla fede nel Dio biblico,
pur ammettendo che la storia
della chiesa delinea dei momenti più
oscuri e dei passi falsi. Ma la concezione
che il Dio di Gesù Cristo mi dà
della vita, della morte, del senso della
vita umana e dell’eternità mi soddisfa
e mi nutre, anche quando sto
lottando con qualche difficoltà a credere.
Queste ed altre lettere ricevute
mi pongono di fronte alla domanda
più generale: come recuperare la
gioia della fede e della preghiera?
Non do consigli astratti, ma porto
quattro immagini. La prima è quella
di una cascata di montagna: se l’acqua
non si butta coraggiosamente, imputridisce.
La seconda è quella dell’alpinista
di fronte a una parete ripida.
Ha bisogno almeno di tre appigli:
nel nostro caso sono un uomo di consiglio,
il buon umore e qualche buon
libro. La terza immagine è quella del
mormorio di un vento leggero. Questa
è la preghiera fatta a partire da qualche
Salmo, meditata nel profondo del
cuore. La quarta immagine è quella
di chi sale in elicottero e vede un più
vasto panorama, che gli dà orientamento
e chiarezza. Ho sperimentato
in me stesso che le difficoltà contro la
fede crescono a misura che si rimpicciolisce
il quadro di riferimento”.
Martini non affonda il coltello nella
contrapposizione tra chiesa istituzionale
e chiesa dei fedeli. Traspare tutto
il suo amore per la fede vissuta
nell’intimo, personalmente, ma nello
stesso tempo non attacca. Semplicemente
dà quattro buoni consigli per
non smarrire la via.

Il Foglio 5 gennaio 2010