DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Quell’«uomo solo al comando» metafora di un secolo a due volti

PIO CEROCCHI
C
inquanta anni sono passati, tanti, mezzo secolo, un’altra epoca storica: eppure quella morte all’aurora del due gennaio 1960, non si riesce a dimenticarla. Essa appartiene alla memoria nazionale, perché il ricordo di Fausto Coppi va oltre il pur straordinario mondo dello sport e ­assumendone tutta la carica simbolica ­si trasforma in metafora di un tempo ben più lungo del breve arco della vita del Campionissimo. Metafora del Novecento. Di un secolo refrattario a una classificazione condivisa, tant’è che le definizioni di 'secolo breve' e di 'secolo lungo' finiscono per essere entrambe pertinenti. Comunque un secolo denso di enormi sofferenze, di delitti e di stragi, ma anche un secolo attraversato da correnti di solidarietà umana e d’amore.
Ed è così che tra le icone del Novecento c’è anche quella di Fausto Coppi. E la sua non è l’icona della vittoria, del grido del più forte che irrompe sul traguardo umiliando gli avversari. Non c’è nella sua figura, tantissime volte immortalata sui media, il piglio arrogante del vincitore; pure sui traguardi raggiunti al termine di grandissime prove sportive, Coppi conteneva la sua gioia in modesto sorriso. Quasi che la corsa appena finita non fosse stata altro che un brano di un lungo discorso interiore.
E così questo evidente contrasto tra il valore delle sue imprese agonistiche e il tono dimesso con il quale egli le rappresentava, ha finito per disegnare i contorni di un’immagine luminosa ma fragile. La sua lunga carriera sportiva che si è snodata dal 1938 sino al dicembre del 1959, infatti, ha conosciuto la gloria e la delusione; la gioia e il dolore. E scorrendo le mille storie che su di lui sono state scritte, si ha l’impressione che i suoi successi avessero a che fare più con il destino che non con lo sport al quale esse, invece, appartenevano. Ed è in questa consapevolezza tragica che la sua figura simboleggia un secolo sperimentato dal male.
E segni dolorosi furono la morte in corsa del fratello Serse nel 1951 e la sua stessa fine, quasi presagita dopo il safari e le ultime due corse nell’Alto Volta (oggi Burkina Faso). Sembrava sempre che sul volto di Coppi passassero insieme la consapevolezza della gioia per la gloria sportiva e l’ombra dei pericoli che l’hanno costantemente accompagnata.
Nel fisico (subì gravissimi incidenti), ma anche nell’animo soprattutto quando la storia difficile della sua vita sentimentale divenne di pubblico
dominio, motivo di scandalo e di pietà.
E fu allora che avversari, amici e gregari per inconfessata gratitudine del rispetto che egli, in corsa e nelle vita, ebbe sempre per loro, lo protessero nelle sue ultime sfortunate stagioni agonistiche, custodendone, poi, una intatta ed eroica memoria.
Fausto Coppi sia nei giorni dei trionfi, sia in quelli delle cadute, non fu mai banale. Nulla fu scontato nei suoi comportamenti di ciclista, e anche per questo egli riuscì a imprimere a uno sport di fatica, l’idea che c’era pure dell’altro nel correre sulle strade e sulle piste del mondo. La fatica, insomma, non risolveva l’interezza di quest’uomo che non si potrebbe spiegare, senza considerare la sua voglia di solitudine, la sua capacità di stare con se stesso (quel correre davanti, appunto, per essere solo). E nel secolo delle folle oceaniche unite nel grido, nella paura e nell’odio, l’immagine dell’uomo solo in testa alla corsa sembra segnare un valore che rende attuale il ricordo, che ciascuno può leggere a modo proprio: sia come vincitore, sia come sconfitto.
Contraddittorio come il tempo che gli toccò di vivere. Come il 'suo' Novecento.