DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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Noi volontari cristiani in lotta con l’Isis: «Preghiamo combattendo». Video. Sono duecento, tutti giovanissimi e sono sul fronte, a una decina di chilometri da Mosul







di Riccardo Bicicchi



Dwekh Nawsha si traduce più o meno con votati al sacrificio. Sono duecento volontari, tutti cristiani, per la maggior parte di rito assiro, uno dei gruppi che compongono il variegato mosaico di una cristianità dalle radici antichissime. Tre mesi fa erano solo una quarantina, tutti Assiri, adesso ci sono Caldei, Siriaci e Ortodossi, di fronte alla minaccia. «Non stiamo solo a pregare come pensa la gente fuori da qui, noi preghiamo e combattiamo, questa è la nostra terra e dobbiamo proteggerla dai terroristi», dice Nael, poco più di vent’anni, sul petto della mimetica l’emblema bianco con la croce al centro e i raggi in rosso e blu, un simbolo che sa di antico, non fosse per i due Kalashnikov incrociati, segno dei tempi che tutti loro si trovano ad affrontare. Sono a Duhok, capoluogo del Kurdistan occidentale, a metà strada tra Mosul - l’antica Ninive in mano alle bandiere nere -, ed il confine con Siria e Turchia, nel loro quartier generale, un grande appartamento al piano terra che è qualcosa di mezzo tra un ufficio ed un magazzino di armi.

Sono quasi tutti giovani tra i venti e i trent’anni, ben armati ed equipaggiati, comandati da ufficiali più anziani, gente che parla poco volentieri ma si vede che conosce bene la guerra, come il Capitano Odesho, sui sessant’anni, gli occhiali cerchiati di metallo, parla un discreto inglese. Non ha bisogno di gridare, esercita un forte ascendente sui suoi soldati, tutti ne parlano come di un uomo che sa il fatto suo. 

«Sono stato per dodici anni ufficiale nelle forze speciali, ai tempi di Saddam, ho fatto tutta la guerra con l’Iran», dice, «questi ragazzi sono come figli per me». 
I suoi raccontano che in quegli otto anni di guerra ha rimediato parecchie ferite.
I pick up scoperti partono alla volta del settore del fronte assegnato alla loro unità, nel villaggio di Baqofa, l’ultima località a nord di Mosul controllata dalle forze Peshmerga, cui i volontari sono aggregati. In questa guerra a bassa intensità, fatta di piccoli gruppi in movimento su mezzi spesso di fortuna più che di reggimenti o divisioni, la gente va in linea alla spicciolata: tutti salutano lungo la strada con colpi di clacson e braccia alzate.

Il fronte è ad una decina di chilometri a nord di Mosul, dalle linee dell’Isis ci sono solo un paio di chilometri di terra di nessuno, regno dei cecchini di entrambi gli schieramenti, in più non ci sono ostacoli naturali, e di notte si accendono sparatorie e tentativi di colpi di mano. Sopra il rombo costante dei jet, che bombardano le postazioni delle bandiere nere a quattro o cinque chilometri da qui. I ragazzi vengono tutti quanti da Mosul e dalle città cristiane intorno, indicano le luci e i bagliori dei vari luoghi, solo Batnaya, nelle mani dell’Isis, è oscurata, tranne un minuscolo puntino luminoso. «Come abbiamo ripreso Tel’skuf e Baqofa, riprenderemo Batnaya e anche Mosul, aspettiamo che cominci l’offensiva». 

Se ne sente parlare molto di questo attacco imminente, ma nei giorni trascorsi lungo il fronte sono gli jihadisti ad attaccare continuamente dopo il tramonto, piccole azioni per lo più, ma la tensione rimane alta. Al mattino l’ingresso a Baqofa: i miliziani cristiani vogliono andare a vedere in che condizioni è il piccolo monastero da cui le suore sono dovute scappare quando il villaggio è stato preso dall’Isis, durante l’offensiva dell’estate. Le bandiere nere non si sono acquartierate tra queste povere case, preferendo la vicina cittadina di Tel’skuf, dove la chiesa è stata pesantemente devastata, le immagini sacre coperte da drappi neri, mentre qui per fortuna i danni sono molto limitati, solo qualche sfregio qua e là.

Una croce gettata a terra con un braccio spezzato: uno dei ragazzi si dà da fare per ricomporla. Negli armadi aperti e rovistati trovano molti testi antichi, anche manoscritti in lingua assira, il Capitano li esamina e ne legge qualche passo. C’è il tempo per una breve preghiera, poi un soldato si arrampica sul piccolo campanile e fa suonare ancora la campana, a lungo, in un silenzio irreale. Nessuno parla, si fanno il segno della croce. «E’ per questo che siamo qui, vogliamo restituire alla cristianità la piana di Ninive, le nostre speranze sono qui, non lasceremo questa terra senza combattere…siamo dei buoni combattenti, sai?».

Corriere della Sera


Il cristianesimo è meglio. Parola di Chateaubriand. Nel 1802 usciva la monumentale opera dello scrittore francese che dimostra la superiorità morale, e soprattutto estetica, della religione cattolica



 - Il Giornale Mar, 09/12/2014 


«Quattro contadini, preceduti dal parroco, trasportavano sulle spalle l'uomo dei campi alla tomba. Se qualche agricoltore incontrava il convoglio funebre nelle campagne, interrompeva il lavoro, si scopriva il capo e onorava con un segno di croce il compagno deceduto.
Si vedeva da lontano quel rustico defunto viaggiare in mezzo ai biondi campi di grano forse da lui seminati. La bara, coperta da un drappo funebre, ondeggiava come un papavero nero al di sopra del grano dorato e dei fiori rossi e azzurri».
Génie du Christianisme (1802) di François-René de Chateaubriand (1768-1848) è questa cosa qui, la scrittura come pittura, la religione come memoria e consolazione. «La ragione non ha mai asciugato una lacrima» e «la filosofia può riempire pagine di parole magnifiche, ma dubitiamo che gli sfortunati vengano ad appendere i loro vestiti al suo tempio», come invece, trasformandoli in ex voto, facevano in chiesa i marinai scampati al naufragio.
A disagio nei panni del teologo, Chateaubriand era se stesso in quelli dello storico e del patriota, l'incarnazione quasi di una Francia ideale eppure reale che di generazione in generazione si perpetuava con il suo corteo di riti e di gesti, esempi e racconti, paesaggi e monumenti: qui un campanile e il fumo di un camino, lì una processione e una festa campestre, ovunque il mistero ovvero il fascino della vita. «Tutto è nascosto, tutto è ignoto nell'universo. Lo stesso uomo non è forse uno strano mistero? Da dove parte il lampo che noi chiamiamo esistenza e in quale notte si spegne?». E ancora: «I misteri del cuore sono come quelli dell'antico Egitto; il profano che cercava di scoprirli senza esservi iniziato dalla religione veniva immediatamente colpito a morte».
Nulla era più lontano da Chateaubriand del culto dell'ateo, lì dove «i dolori umani fanno fumare l'incenso, la Morte è il celebrante, l'altare una Bara e il Nulla la divinità». Tutto lo avvicinava al «bisogno del meraviglioso, di un avvenire, di speranze, perché l'uomo si sente fatto per l'immortalità». L'istinto della religione era per lui una delle prove più potenti della necessità di un culto: «Si è pronti a credere a tutto quando non si crede a nulla; si hanno degli indovini quando non si hanno più i profeti; si hanno sortilegi quando si rinuncia alle cerimonie religiose, e si aprono le spelonche degli stregoni quando si chiudono i templi del Signore».
È la potente bellezza dello stile a fare del Génie du christianisme un libro che supera la propria epoca e ora che Einaudi ne ripropone la lettura con una nuova, esemplare traduzione a cura di Mario Richter, autore anche di una puntuale introduzione ( Genio del cristianesimo , pagg. 878, euro 90), il lettore ha a disposizione il libro vessillo del romanticismo del suo tempo e un'opera tanto più attuale quanto le «radici cristiane dell'Europa» offrono ai nostri giorni materia di discussione e di polemiche.
Giustamente Richter affianca al testo un apparato iconografico che da Girodet a Millet, Ingres, Courbet, da Turner a Friedrich a Dahl illustra visivamente l'impatto della prosa di Chateaubriand sulla sensibilità artistica ottocentesca, i paesaggi come rovine, i luoghi del tempo, la natura che si fa cultura o che celebra la propria alterità. «Se gli anni fanno macerie, la natura vi semina fiori; se scoperchiamo una tomba, la natura vi pone il nido di una colomba: incessantemente occupata a rigenerare, la natura circonda la morte delle più dolci illusioni della vita».
Compendio di straordinaria erudizione, opera d un talento che non ha paura di fare razzia in campo altrui perché «lo scrittore originale non è quello che non imita nessuno, bensì quello che nessuno può imitare», il Génie muove da un assunto tanto semplice quanto vincente: «Non provare l'eccellenza del cristianesimo per il fatto che proviene da Dio, ma che proviene da Dio per il fatto che esso è eccellente». Non è un'apologia che ha a che fare con i dogmi, i fondamenti, le verità della fede, ma con la «bellezza», anzi «le bellezze», ovvero i valori legati ai sensi, al gusto, ai sentimenti. Nutrito di cultura classica, Chateaubriand la mette al servizio di una vertiginosa, spesso faziosa, operazione di recupero di una superiorità non solo morale, ma anche estetica: «Il cristianesimo ci fa vedere ovunque la virtù e la sventura, mentre il politeismo è un culto di delitti e di prosperità. La nostra religione è la nostra storia: è per noi che tanti spettacoli tragici sono stati dati al mondo».
Nel commentare, con competenza e sensibilità, famosi passi omerici e virgiliani, destinati a essere raffrontati con analoghe situazioni di autori moderni e cristiani, Chateaubriand cerca di trovare, alla luce del cristianesimo, quella che Richter definisce «una complessa, anche se significativa, convivenza». Del resto, «in confronto agli antichi, i moderni sono in genere più colti, più delicati, più sottili, spesso anche più interessanti nelle loro composizioni, ma gli antichi sono più semplici, più nobili, più tragici, più ricchi e, soprattutto, più veri dei moderni. Hanno un gusto più sicuro, un'immaginazione più nobile; sanno lavorare soltanto l'insieme trascurando le decorazioni».
Concepito allo scadere del secolo dei Lumi, in contrapposizione con l'entusiasmo rivoluzionario che aveva cercato di cancellare la religione con la ragione, Genio del cristianesimo pone le basi, nota ancora Richter, «di un nuovo umanesimo, insieme cattolico e popolare, aperto alla sapientia cordis , capace di rendere efficace la potenza creatrice della parola. Pochi scrittori sono riusciti, come Chateaubriand, a raccontare lo straordinario impasto che trasforma effimeri monadi umane in un concentrato religioso e nazionale di tradizioni e di speranze. «Se ci fosse chiesto quali sono i forti affetti che ci tengono legati alla terra natia, faremmo fatica a rispondere. Forse è il sorriso di una madre, forse i giovani compagni d'infanzia; forse le circostanze più semplici e, se si vuole, le più banali: un cane che abbaiava di notte in campagna, un usignolo che tornava tutti gli anni nel frutteto, il nido della rondine sulla finestra, il campanile della chiesa che si vedeva al di sopra degli alberi, il tasso del cimitero, la tomba gotica. Ecco tutto. Ma questi modesti mezzi dimostrano ancor meglio la realtà di una Provvidenza, in quanto non potrebbero essere la fonte dell'amor patrio e delle grandi virtù che quell'amore fa nascere, qualora ciò non fosse stabilito da una volontà suprema».


Leggende nere e altri luoghi comuni sul cristianesimo, come controbattere

Come si sa, un metodo rapido e infallibile
per apparire illuminati progressisti
politicamente molto corretti nonché aperti,
lungimiranti, antidogmatici e amabilmente
tolleranti è quello di sparare sul cristianesimo,
sulla chiesa cattolica e sul Papa.
Il successo è assicurato. In una cultura
come la nostra, nella quale, per dire, se ti
permetti di formulare un giudizio anche
vagamente critico verso l’islam ti ritrovi automaticamente
iscritto nel club dei reietti,
parlar male del cristiano e del cattolico
non solo è possibile, ma vivamente consigliato.
La patente di libero pensatore è garantita.
E poco importa che dal punto di vista
storico ciò che tu dici sia insostenibile,
condito di falsità e leggende. Nella società
dell’immagine non c’è tempo per la storia,
e approfondire è attività considerata poco
compatibile con l’apparire. Ciò che conta è
come tu ti presenti. E se vuoi essere à la page
devi attrezzarti: prova a buttare là una
battuta contro Benedetto XVI, fai un accenno
ai preti che insidiano i bambini, ricorda
che la chiesa è sempre stata un’istituzione
retrograda, innalza un inno alla liberazione
sessuale. Vedrai, non te ne pentirai. Da
quando poi il sistema mondiale della comunicazione
ha deciso di utilizzare i casi
di sacerdoti pedofili per allestire un processo
sommario contro il Papa e la chiesa
(perché di questo in effetti si tratta, anche
se nessuno nega che il reato-peccato c’è, e
anche bello grosso e disgustoso), il procedimento
suddetto ha ricevuto una sorta di
certificazione. Ma il problema è: il cristiano
sa controbattere? Purtroppo quel misto
di ignoranza, mancanza di consapevolezza
e superficialità che caratterizza il panorama
culturale contemporaneo alligna anche
fra i moderni seguaci di Gesù, i quali di
conseguenza, una volta messi sotto attacco,
non riescono a ributtare la palla nell’altra
metà campo e si lasciano intristire senza
una prospettiva.
La vulgata laicista
Bisogna dare il benvenuto quindi a un libro
come “Indagine sul cristianesimo” di
Francesco Agnoli (Piemme, 282 pagine, 17
euro), che dà gli strumenti non solo per rimandare
la palla di là ma per organizzare
un vero e proprio gioco offensivo incentrato
su quello schema antico ma sempre nuovo
che risponde al nome di verità. Un po’
saggio storico, un po’ approfondimento filosofico
e teologico con incursioni nella sociologia
della religione, il libro ha un intento
dichiarato: fare piazza pulita della vulgata
laicista secondo cui la maggior parte delle
calamità e delle sventure abbattutesi
sull’umanità da duemila anni a questa parte
sarebbe made in christianity. Compito
che Agnoli svolge con il giusto piglio polemico,
anche prendendosela con qualche
nostrano maitre à penser che ha fatto dell’anticristianesimo
militante un marchio di
fabbrica e un’ottima risorsa per campare
di rendita sfruttando i più triti luoghi comuni.
Ecco, appunto, i luoghi comuni.
Agnoli ne mette in fila un bel po’. Ma a tutti
aggiunge un salutare punto di domanda,
premessa per distruggerli a colpi di verità
storiche. Quella dell’imperatore Costantino
non fu vera conversione ma solo mossa politica?
Il cristianesimo è contro le donne?
Il cristianesimo, là dove arriva, distrugge le
culture locali? L’Inquisizione è stata solo
una spietata macchina punitiva? La fede
cristiana tiene i credenti in uno stato di
passività? La chiesa quando le fa comodo
usa la forza? Il cristianesimo è nemico della
scienza e dell’istruzione? La rottura dell’unità
fra i cristiani è stata colpa di Roma?
Con l’elenco si potrebbe andare avanti a
lungo. La storia si è incaricata di sgombrare
il campo dalle falsità e Agnoli, puntigliosamente,
corregge, confuta, precisa, contesta,
chiarisce. Un’arringa difensiva appassionata,
che offre gli strumenti per rispondere
ai calunniatori e rimetterli al loro posto.
E che, una confutazione dopo l’altra, dimostra
come i comportamenti che oggi consideriamo
più civili e i sentimenti che giudichiamo
più nobili si siano formati non,
come dicono i falsari della storia, nonostante
il cristianesimo e la chiesa cattolica,
ma precisamente grazie a loro.
Una vicenda poco nota
Una vicenda poco nota è quella che riguarda
il nazista Alfred Rosenberg, autore
di “Der Mythus des 20” (“Il mito del Ventesimo
secolo”), opera seconda solo al “Mein
Kampf” hitleriano come best seller del nazionalsocialismo.
Con lo stesso Hitler e con
Dietrich Eckart (finanziatore, fra l’altro, del
primo quotidiano nazista), Rosenberg si intrattiene
in lunghe discussioni incentrate
sull’influenza nefasta che ebraismo e cristianesimo
avrebbero avuto sull’umanità.
Ai loro occhi, veramente, le due fedi si
confondono, fino a diventare una cosa sola.
Il cattolicesimo sarebbe una perversione
del messaggio di Cristo operata dall’ebreo
Paolo, Cristo sarebbe stato un vincitore e
non uno sconfitto, un ariano e non un ebreo
e, soprattutto, non avrebbe mai sostenuto di
essere Dio. Inoltre il crocifisso, in quanto
simbolo di martirio e di cedimento, andrebbe
sostituito con monumenti ai soldati caduti
per la patria. Rosenberg non perdona
al cristianesimo di aver predicato e praticato
l’universalismo e l’individualismo, nemici
del concetto germanico di razza; difende
le eresie come giuste reazioni alla “ipnosi
romano-mediorientale” e si scaglia contro
la caccia alle streghe condotta, dice, per togliere
di mezzo le ultime tracce di religiosità
pagana germanica. Ma il vero pericolo
insito nel cristianesimo, scrive, è che innalza
gli esseri inferiori. Questo il nazismo non
può proprio accettarlo. La parola amore va
eliminata; un popolo non può permettersi
di cedere alla debolezza e all’umiltà. Le forze
vitali sono ben altre. Sulla scia di Nietzsche,
Rosenberg teorizza la creazione del
superuomo attraverso l’eugenetica e sostiene
che il cristianesimo potrà essere accettato
solo dopo un’opportuna trasformazione:
la chiesa cattolica romana dovrà essere
soppressa, Cristo germanizzato, il Vecchio
testamento eliminato e il Nuovo depurato
eliminando le parti meno funzionali al dominio
germanico. Non c’è da stupirsi che la
chiesa cattolica metta il libro di Rosenberg
all’indice. Ma intanto il volume, nonostante
le sue settecento pagine, ha venduto più di
due milioni di copie ed è stato imposto come
testo obbligatorio nelle scuole di tutta la
Germania. A guerra finita Rosenberg sarà
giustiziato a Norimberga senza aver riveduto
le sue idee e senza ombra di pentimento.
Ma in ciò che sosteneva non avvertite qualcosa
a noi familiare anche oggi?

Aldo Maria Valli

© Copyright Il Foglio 7 maggio 2010

Sorpasso cristiano in Africa

Uno studio pubblicato il 15 aprile dal Pew Forum on Religion & Public Life ha trovato che il numero dei cristiani nell'Africa sub-Sahariana è cresciuto da sette milioni nel 1900 a 470 milioni oggi. Nello stesso periodo, il numero dei musulmani è passato da 11 milioni a 234 milioni.
MARCO TOSATTI

Uno studio pubblicato il 15 aprile dal Pew Forum on Religion & Public Life ha trovato che il numero dei cristiani nell'Africa sub-Sahariana è cresciuto da sette milioni nel 1900 a 470 milioni oggi. Nello stesso periodo, il numero dei mususlmani è passato da 11 milioni a 234 milioni. In 1900, 76% della popolazione del sub-Sahara praticava religioni indigene, mentre il 14% era musulmano e il 9% era cristiano. Oggi il 57% della popolazione è cristiano, mentre il 29 per cento è musulmano e il 13% pratica religioni indigene.
Negli ultimi 100 anni si è registrato un forte aumento dei fedeli cristiani e di quelli musulmani in Africa. Lo rivela un rapporto presentato il 15 aprile a Washington dal Pew Research Center, frutto di un sondaggio condotto su 25mila africani tra il dicembre del 2008 e l'aprile del 2009, in 60 lingue e 19 Paesi (Botswana, Camerun, Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Ghana, Gibuti, Guinea Bissau, Kenya, Liberia, Mali, Mozambico, Nigeria, Rwanda, Sudafrica, Senegal, Tanzania, Uganda e Zambia). Secondo il rapporto il numero dei musulmani nell'Africa subsahariana è passato da 11 milioni nel 1900 a 234 milioni nel 2010. I cristiani sono cresciuti da 7 milioni nel 1900 agli attuali 470 milioni. Questo significa che un cristiano su cinque nel mondo e un musulmano su sette vive nell’Africa sub-sahariana. Tenendo conto anche dell’Africa settentrionale si è così creata una sostanziale parità tra il numero dei fedeli cristiani e di quelli musulmani in un continente dove si contano dai 400 ai 500 milioni di cristiani quanto di musulmani.
Gli estensori del rapporto sottolineano però che le credenze e le pratiche religiose tradizionali africane continuano ad essere adottate da un gran numero di musulmani e cristiani. Il rapporto constata che nell’Africa sub-sahariana cristiani e musulmani hanno generalmente una visione positiva gli uni degli altri, e nella maggior parte dei Paesi relativamente poche persone pensano che vi sia ostilità contro i cristiani oppure contro i musulmani. Ma, musulmani e cristiani riconoscono che sanno relativamente poco della fede degli altri. Molti africani affermano di essere preoccupati per l'estremismo religioso, anche all'interno della propria fede. Ad esempi diversi musulmani si dicono più preoccupati per la diffusione dell’estremismo islamico che di quello cristiano, mentre i cristiani in Ghana, Sudafrica, Uganda e Zambia si dicono più preoccupati per l'estremismo cristiano che non di quello islamico.



© Copyright La Stampa blog di Tosatti

«Ho osato chiamare Dio "Padre"»: il cristianesimo che rinasce nell'islam

Da Tempi del 1 aprilr 2010

Sempre più musulmani riferiscono di visioni di Gesù e della Vergine. Per l’islamologo Khalil Samir è la prova che «Dio parla ad ognuno attraverso la sua cultura». E quella orientale è molto sensibile ai segni soprannaturali

di Rodolfo Casadei

«Vidi nuvole addensarsi sulla cima di una montagna. Dopo che le nuvole si erano raccolte, due angeli vestiti di tuniche bianche stavano su quella vetta. Gesù era in piedi in mezzo agli angeli. Si allontanò da loro e scese al luogo dove io mi trovavo a guardare. Quando fu giunto vicino a me, mi inginocchiai e lui stese la sua mano su di me». A questo primo sogno ne seguono altri due nei due anni successivi, poi Ibrahim decide di seguire Cristo e si procura una Bibbia cristiana in lingua araba, primo passo di un percorso che lo condurrà alla conversione. Invece Ibrahim Yousef James (nome vero) era un giovane produttore televisivo kuwaitiano di origine indiana col bernoccolo per gli affari, musulmano devoto con sette pellegrinaggi alla Mecca all’attivo. Ma anche quattro tentativi di suicidio. Durante un viaggio in Europa trova una copia della Bibbia dei Gedeoni in un cassetto della sua stanza d’albergo e inizia a leggerla. Più tardi incontra un predicatore evangelico di strada che di fronte alle sue domande replica: «Rivolgile a Dio. Lui ti ama e ti mostrerà la strada». Quella sera Ibrahim prega: «Dio, devi potermi parlare. Se non lo farai, ti rigetterò». Le cinque notti seguenti un sogno, sempre lo stesso, anima il suo sonno: «Vedo una luce nel cielo oscuro. Si avvicina, e io mi accorgo che si tratta di una croce. Poi una voce dal cielo dice: “Questa è la mia via. Gesù è mio figlio. Ti do la mia pace, e lascerò la mia letizia con te”». Per farsi cristiano Ibrahim romperà con la famiglia.

Una tradizione popolare
Anno dopo anno si accumulano le testimonianze di musulmani che raccontano sogni e visioni di Gesù e della croce. La faccenda è tornata d’attualità dopo che l’Ansa e il Los Angeles Times hanno raccontato che le presunte apparizioni luminose della Vergine Maria nel dicembre scorso sopra le cupole di una chiesa copta in un quartiere periferico del Cairo hanno attirato anche folle di musulmani. La sensibilità islamica per i segni soprannaturali è acclarata: manuali islamici di interpretazione dei sogni datano dall’ottavo secolo dell’era cristiana. Nell’islam popolare i sogni e la loro interpretazione sono funzionali a una serie di scopi: la comunicazione coi morti e coi santi, la diagnosi di una malattia, la chiamata ad una professione, il nome da imporre a un figlio, ecc. Ma anche nelle conversioni dall’islam al cristianesimo hanno spesso un ruolo: in uno studio pubblicato nel 1999 intorno alle esperienze di 600 musulmani di 39 paesi diversi convertiti al cristianesimo, condotto da Dudley Woodberry, pastore evangelico con lunghe esperienze in Afghanistan, Pakistan e Arabia Saudita, risulta che ben un quarto di essi affermano di aver avuto sogni, visioni ed esperienze soprannaturali. Il primo studio di qualità accademica sull’argomento risale al 1984, quando il noto missiologo Seppo Syrjanen documenta il ruolo di sogni e visioni nella conversione al cristianesimo di molti pakistani di fede islamica. La prima autobiografia di una convertita in cui si parla di sogni rivelatori è I Dared To Call Him Father, scritto nel 1979 da Bilquis Sheikh, gentildonna dell’alta borghesia pakistana e moglie divorziata dell’allora ministro degli Interni costretta a riparare negli Stati Uniti dopo la conversione per le reiterate minacce di morte. Da allora il flusso di racconti non si è mai arrestato. Heidi Baker, protestante carismatica americana di Iris Ministries parla di migliaia di musulmani africani che hanno incontrato Cristo e ricevuto il battesimo. Un libro su sogni e visioni di contenuto cristiano riferiti da musulmani è The Jesus visions – Miracles among Muslims, della predicatrice evangelica Christine Darg. Attiva col suo Exploits Ministry installato a Gerusalemme dal 1982, la Darg afferma di avere lei stessa sperimentato un incontro sovrannaturale con Cristo quand’era bambina. Nel libro si leggono anche esperienze di missionari evangelici in altri paesi.

Come si nota, le testimonianze sull’argomento arrivano tutte dal mondo protestante, soprattutto quello del revival evangelico degli ultimi trent’anni. La cosa ha una piuttosto facile spiegazione teologica: polemici nei confronti della mediazione umano-divina incarnata dalla Chiesa istituzionale, i protestanti sono molto più attratti dalle rivelazioni dirette di Dio ai credenti. Tuttavia anche in ambito cattolico si trovano testimonianze abbastanza numerose di sogni e visioni di contenuto cristiano fra i musulmani. Non solo a livello divulgativo (vedi per esempio Cristiani venuti dall’islam di Giorgio Paolucci e Camille Eid), ma anche fra autori di caratura accademica, come il padre Jean-Marie Gaudeul, che nel suo Appelés par le Christ, ils viennent de l’Islam scrive che non bisogna «trascurare il fatto che gli oscuri meccanismi della mente umana sono anch’essi soggetti all’azione divina (…). Dio ci parla nel linguaggio che siamo in grado di comprendere, e non è sorprendente che usi sogni e visioni e guarigioni di persone che credono in Lui».

Nessuna magia
D’accordo padre Samir Khalil Samir, studioso gesuita di islamistica: «Dio parla ad ogni uomo attraverso la sua cultura: allo scienziato parla attraverso la scienza, all’artista attraverso l’arte, all’uomo dell’Oriente anche attraverso i sogni, che sono considerati manifestazione del soprannaturale». Khalil Samir, che concilia perfettamente l’attività accademica (è autore di 40 libri e docente in molte università) con l’assistenza spirituale, ha incontrato personalmente musulmani che riferivano di sogni e visioni: «Mi ha colpito il fatto che molti avevano sognato Cristo o la Vergine che li invitava a un cammino. Io ho cercato di aiutarli in questo, invitandoli a leggere il Vangelo e poi a meditare insieme a me sui passi che li avevano colpiti e sulle domande che nascevano in loro. Sono tuttora in contatto con loro». Che il sogno e la rivelazione soprannaturale siano più spesso l’inizio di un cammino di fede che passa attraverso una compagnia umana che non le cause di una conversione istantanea e perfettamente conclusa lo afferma anche il battista americano Nik Ripkin, autore di un altro studio sul tema: «Questi segni e miracoli servono a spedire chi li ha ricevuti in un viaggio spirituale che spesso dura dai tre ai sette anni. In quel periodo molti musulmani cessano di pregare ritualisticamente in moschea». E nella loro vita puntualmente succedono due cose: vengono introdotti alla Parola di Dio, in forma orale o scritta, e incontrano altri credenti locali convertiti. È insieme a questi che si compie il cammino della conversione.

Islam e Occidente divisi da ironia e autocritica. di Roger Scruton

Vita e Pensiero n.1 Gennaio- febbraio 2010

Le questioni della cittadinanza, della nazione e della libertà d'associazione, certo, sono elementi di demarcazione che separano la civiltà occidentale dalla Mezzaluna e dal fondamentalismo in particolare. Ma solo il dubbio vincerà il risentimento.

di Roger Scruton (*)


L’Occidente Oggi è coinvolto in una lotta contro le forze più radicali dell'islam. Un conflitto intenso sia per il fanatismo dei nemici della civiltà occidentale, sia per l’enorme cambiamento culturale avvenuto in Europa dalla fine della guerra del Vietnam. In parole semplici, i cittadini degli Stati occidentali hanno perso ogni interesse per guerre all'estero; hanno perso la speranza di ottenere una qualche vittoria temporanea; hanno perso la fiducia nel loro stile di vita.

Allo stesso tempo si trovano di fronte un nuovo elemento di contrapposizione, che crede che il modo di vivere occidentale sia profondamente errato e addirittura rappresenti un'offesa contro Dio. Le società occidentali hanno poi permesso a esso di stabilirsi al proprio interno; alcune volte, come in Francia, Inghilterra e Olanda, ciò è avvenuto in veri e propri ghetti che nutrono relazioni molto deboli e notevolmente antagoniste con l'ordine politico circostante. E sia in America che in Europa c'è stato un crescente desiderio di appeasement: un'abitudine alla contrizione pubblica; un'accettazione, sebbene a malincuore, degli editti censori dei mullah; un'escalation nel ripudio della nostra eredità culturale e religiosa.

Il primo elemento di tale eredità è, secondo me, la cittadinanza. Le nazioni occidentali concordano sul fatto che la legge sia resa legittima dal consenso di quanti vi devono obbedire. Questo consenso viene ottenuto tramite un processo politico in cui ciascun cittadino partecipa a creare e decretare la legge. Il diritto e il dovere di partecipazione è quanto intendiamo con la parola «cittadinanza» e la distinzione tra le comunità politiche e quelle religiose può essere riassunta nel fatto che le prime sono composte da cittadini, mentre le seconde sono formate da soggetti che si devono «sottomettere» (questo è il significato primario della parola islam). Se noi cerchiamo una definizione semplice di cosa sia oggi l'Occidente, potrebbe essere saggio prendere in considerazione questo concetto di cittadinanza come punto di partenza. Infatti è quello che cercano milioni di migranti che vagano nel mondo: un ordine che conferisca sicurezza e libertà in cambio di consenso.

La tradizionale visione islamica, per contro, vede la legge come un sistema di comandi e raccomandazioni che discendono da Dio. Questi editti non possono essere emendati, sebbene la loro applicazione in casi particolari possa coinvolgere argomenti giurisprudenziali. La legge, come l'islam la concepisce, è un comando per la nostra coscienza e il suo autore è Dio. Questo è l'opposto del concetto di legge che abbiamo ereditato in Occidente. La legge per noi è garanzia delle nostre libertà. Essa non è creata da Dio, bensì dall'uomo, che segue l'istinto della giustizia inerente alla condizione umana. Essa non consiste in un sistema di ordini divini, bensì nel risultato di accordi umani.

Questo è particolarmente evidente ai cittadini inglesi e americani che hanno goduto dell'inestimabile beneficio della common law, un sistema che non è disceso dall'alto da qualche potere sovrano ma, al contrario, è stato costruito dai tribunali nel loro tentativo di amministrare la giustizia nei conflitti individuali. Per questo motivo possiamo definire la legge occidentale un sistema "bottom-up", che si rivolge al sovrano con lo stesso tono che riserva al cittadino. Essa insiste sul fatto che prevarrà la giustizia, non il potere. In realtà, è stato evidente fin dal Medioevo che la legge, anche se dipende dal sovrano che la impone, può deporre il sovrano se questi cerca di sfidarla.

Per noi, ad esempio, una legge che punisce l'adulterio non è solo assurda, ma anche oppressiva. Noi disapproviamo l'adulterio, ma pensiamo anche che non è affatto compito della legge punire il peccato solo perché esso è peccato. Nella sharia, invece, non esiste distinzione tra moralità e legge. Entrambe derivano da Dio e vengono imposte dalle autorità religiose in obbedienza al suo volere divino. Una durezza che viene mitigata da una tradizione che permette alcune raccomandazioni nel regolamentare la legge santa. Nondimeno, non esiste alcuno spazio nella sharia per la privatizzazione degli aspetti morali della vita, ancor meno per quelli religiosi.

La maggior parte dei musulmani non vive sotto la sharia. Essa esiste solo qui e là, per esempio in Iran, Arabia Saudita e Afghanistan. Altrove è stato adottato il codice civile e penale occidentale, in seguito a una tradizione iniziata al principio del XIX secolo dagli ottomani. Ma questo riconoscimento accordato dagli Stati islamici alla civiltà occidentale ha i suoi pericoli. Esso provoca inevitabilmente l'idea che la legge dei poteri laici non sia realmente una legge; che, in verità, essa non abbia una reale autorità e anzi possa contenere una sorta di blasfemia. Sayyid Qutb, l'ex leader dei Fratelli musulmani, argomentava appunto tutto questo nel suo fondamentale lavoro Milestones. Infatti, è facile giustificare la ribellione contro i poteri laici quando la loro legge viene vista come un'usurpazione dell'autorità sovrana di Dio. Dalle sue origini, quindi, l'islam ha trovato difficile da accettare il fatto che il genere umano abbia bisogno di un'altra legge, o di un'altra sovranità, rispetto a quella rivelata nel Corano. Di qui il grande scisma seguito alla morte di Maometto, che ha diviso gli sciiti dai sunniti.

In breve, la cittadinanza e la legge laica procedono mano nella mano. Noi tutti partecipiamo al processo di creazione della legge: a partire da ciò possiamo vedere le altre persone come cittadini liberi, i cui diritti devono essere rispettati e le cui vite private sono di loro proprio interesse. Questo è stato reso possibile dalla separazione fra religione e politica nelle società occidentali e dallo sviluppo degli ordini politici nei quali i doveri del cittadino hanno la precedenza sulle direttive religiose. Come questo sia possibile è una domanda profonda e difficile propria della teoria politica: che questo sia possibile è un fatto del quale la civiltà occidentale offre una testimonianza incontrovertibile.

Questo mi porta a una seconda caratteristica che identifico come centrale nella civiltà europea: la nazionalità. Nessun ordine politico può raggiungere stabilità se non può poggiare su una lealtà condivisa, una "prima persona plurale" che distingue chi condivide i benefici e i confini della cittadinanza da coloro che sono al di fuori di questo limite. In tempi di guerra il bisogno di questa lealtà condivisa è auto-evidente, ma essa è necessaria parimenti in tempi di pace se la gente veramente vuole considerare la propria cittadinanza come definizione dei propri obblighi pubblici. La lealtà nazionale mette in secondo piano le lealtà alla famiglia, alla tribù e alla fede, e in primo piano il cittadino come focus del proprio sentimento patriottico; non una persona o un gruppo, ma un Paese. Questo Paese è definito da un territorio, e dall'insieme di storia, cultura e legge che hanno reso questo territorio il nostro. La nazionalità è costituita dalla terra insieme alla narrazione del suo possesso.

È questa forma di lealtà territoriale che ha reso capaci i popoli nelle democrazie occidentali di esistere fianco a fianco, rispettando i diritti degli altri come cittadini nonostante differenze radicali in termini di fede e senza che altri legami di famiglia, parentele, o costumi locali di lunga tradizione, sostenessero la solidarietà tra loro. Una tale lealtà nazionale non è conosciuta ovunque nel mondo e certamente non in quei Paesi dove gli islamisti sono radicati. Alcuni si riferiscono alla Somalia, per esempio, come a uno "Stato fallito" dal momento che essa non ha un governo centrale capace di prendere decisioni a nome del popolo come un insieme, o di imporre qualsia-si tipo di ordine legale. Il problema reale della Somalia non è che essa sia uno Stato fallito, ma una nazione fallita. Essa non ha mai sviluppato quel tipo di lealtà laica, territoriale e pensata in termini di legge che rende possibile per un Paese modellarsi in uno Stato-nazione, e non semplicemente in un'assemblea di tribù e famiglie che competono tra loro.

Lo stesso è vero in molti altri luoghi dove sono attivi gli islamisti. Anche se, come nel caso del Pakistan, questi Paesi funzionano come Stati, essi hanno spesso fallito come nazioni. Non hanno avuto successo nel generare quel tipo di lealtà territoriale che rende persone di fedi, reti di parentela e tribù differenti capaci di vivere pacificamente fianco a fianco, e anche di combattere insieme in nome di una patria comune. La storia recente di questi Paesi dovrebbe portarci a domandare se, alla fine, non vi sia un autentico e profondo conflitto tra la concezione islamica della comunità e i concetti che hanno nutrito la nostra idea di governo nazionale. Forse quella dello Stato-nazione è veramente un'idea anti-islamica.

Questa osservazione, certamente, è molto pertinente nel Medio Oriente odierno, dove troviamo i resti di un grande impero islamico diviso in Stati-nazioni. Con poche eccezioni, questa divisione è il risultato di confini tracciati dalle potenze occidentali, soprattutto da Inghilterra e Francia nel Patto di Sykes-Picot del 1916. Dovrebbe sorprendere molto, perciò, che l'Iraq abbia avuto una storia con così tanti alti e bassi in quanto Stato-nazione, dato che esso è stato spa-smodicamente solo uno Stato, e mai una nazione. Potrebbe accadere che curdi, sunniti e sciiti in Iraq arriveranno, con il tempo, a vedere se stessi come iracheni. Ma questa identità nazionale sarà comunque fragile e in ogni conflitto questi tre gruppi si identificheranno in situazioni opposte rispetto agli altri. Solo i curdi sembra abbiano sviluppato un'autentica identità nazionale, ma essa è opposta allo Stato nel quale sono inclusi. Ciò vale anche per gli sciiti, per i quali la loro prima lealtà è religiosa: essi guardano e guarderanno alla patria dell'isiam sciita, l'Iran, come un modello.

È vero che non tutti gli Stati-nazione scaturiti dai resti dell'Impero ottomano sono arbitrari come l'Iraq. La Turchia, che si è salvata come un "resto" dell'Impero, ha avuto successo nel ricrearsi come autentico Stato-nazione, sebbene non senza l'espulsione o il massacro di molte minoranze non turche. Il Libano e l'Egitto hanno goduto di una sorta di identità quasi nazionale sotto la forma occidentale del governo nazionale su territori che vengono messi in discussione proprio per questa ragione. Questi esempi, comunque, non riescono in nessun modo ad allontanare il sospetto che l'islam non accolga facilmente l'idea delle lealtà nazionali e meno ancora quella per cui, in una crisi o in un conflitto, debba prevalere l'istanza nazionale, piuttosto che quella spirituale.

Il terzo elemento fondamentale della civiltà europea è il cristianesimo. Non ho dubbi che sia la dominazione cristiana di diversi secoli in Europa ad aver gettato le basi della lealtà nazionale, sulla quale possono essere fondati una giurisdizione laica e un ordine di cittadinanza. Può suonare paradossale identificare una religione come la forza più grande dietro lo sviluppo di un governo secolare. Ma dovremmo ricordare le peculiari circostanze con le quali il cristianesimo è entrato nel mondo. Gli ebrei della Giudea del I secolo erano una comunità chiusa, stretta in una forte rete di legalismo ma nondimeno governata da Roma tramite una legge che non faceva nessun riferimento ad alcun Dio e che offriva un ideale di cittadinanza al quale poteva aspirare ogni soggetto libero dell'Impero.

Gesù entrò in conflitto con il legalismo della tradizione ebraica in aperta simpatia con l'idea di un governo laico. Da qui derivano le sue famose parole nella parabola del tributo: «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio». Dopo la sua morte la fede cristiana venne plasmata da Paolo per le comunità all'interno dell'Impero romano che cercavano solo la libertà di perseguire il proprio culto, e non avevano intenzione di sfidare i poteri laici. Questa idea di una doppia lealtà continuò dopo Costantino e fu rafforzata da papa Gelasio I nel V secolo con la sua "dottrina delle due spade" date per il governo del genere umano: una che preserva l'ordinamento politico e l'altra l'anima individuale. Questo endorsement della legge laica da parte della prima Chiesa ebbe conseguenze sul pensiero politico in Europa, dalla Riforma e dall'Illuminismo fino alla semplice legge territoriale che prevale nell'Occidente attuale.

Il cristianesimo viene talvolta descritto come una sintesi della metafisica ebraica e dell'idea greca di libertà politica. Non c'è dubbio che vi sia una verità in questo, dato il contesto storico in cui è nato. E forse l'input greco nel cristianesimo è fondamentale per il quarto argomento che io credo sia davvero significativo quando confrontiamo l'Occidente con l'islam: l'ironia. Già nella Bibbia ebraica vi è un concetto ben sviluppato di ironia, cosa che viene amplificata nel Talmud. Ma nei giudizi e nelle parabole di Gesù vi è un nuovo tipo di ironia, che assomiglia allo spettacolo dell'umana follia e mostra come possiamo convivervi. Un esempio eloquente è il verdetto di Gesù nel caso della donna sorpresa in flagrante adulterio. «Chi è senza peccato scagli la prima pietra». Alcuni hanno sostenuto che questa storia sia un'aggiunta tardiva, una delle tante elaborate dai primi cristiani dall'eredità di saggezza attribuita a Gesù dopo la sua morte. Anche se questo fosse vero, comunque, ciò confermerebbe appunto il fatto che la religione cristiana ha reso l'ironia centrale nel suo messaggio. Ironia condivisa dai grandi poeti sufi, specialmente Rumi e Hafiz, ma che sembra sia largamente sconosciuta dalle scuole dell'islam che plasmano gli animi degli islamisti. Si tratta di una religione che non sempre permette di essere criticata, ancor meno di essere derisa: qualcosa di cui siamo stati abbondantemente testimoni in tempi recenti (si pensi al caso delle vignette satiriche pubblicate su un quotidiano danese nel 2006).

Tutto ciò invece appare in maniera notevole nel giudizio ironico di Gesù. La morte per lapidazione è ancora ufficialmente praticata in molte parti del mondo islamico come punizione per l'adulterio. L'argomento del sesso, che non può essere utilmente discusso senza un pizzico di ironia, è diventato perciò un tema doloroso tra i musulmani, specialmente se confrontato, come è inevitabile, con la morale lassista e la libidinosa confusione delle società occidentali. Come risultato, nelle comunità islamiche situate nelle città occidentali si è sviluppata un'enorme tensione, con i ragazzi che godono delle libertà dell'ambiente circostante e le donne nascoste e spesso terrorizzate.

L'ironia è stata vista dall'ultimo Richard Rorty come uno stato del pensiero intimamente connesso con la visione del mondo postmoderna (Contingency, Irony, Solidarity, 1989). Si tratta di una sospensione del giudizio che nondimeno tende a un tipo di consenso, un accordo condiviso sul non giudicare. A me sembra, comunque, che l'ironia, sebbene coinvolga la condizione dei nostri pensieri, è compresa meglio come virtù. Se dovessi dare una definizione di questa virtù, dovrei descriverla come l'abitudine di conoscere l'alterità di ogni cosa, incluso me stesso. Per quanto si sia convinti della correttezza delle proprie azioni e della verità delle proprie opinioni, occorre guardare a esse come azioni e pensieri di qualcun altro, e riformularli di conseguenza. Definita in questo modo, l'ironia è una cosa abbastanza distinta dal sarcasmo. È un modo per accettare, piuttosto che per rifiutare. E procede in entrambe le direzioni: attraverso l'ironia io imparo ad accettare sia l'altro verso il quale fisso la mia attenzione, sia me stesso, colui che sta osservando. Con buona pace di Rorty, l'ironia non è sciolta dal giudizio. Essa semplicemente riconosce che chi giudica è al tempo stesso giudicato, e giudicato da se stesso.

L'ironia è strettamente collegata con la quinta, notevole, caratteristica propria della civiltà occidentale: l'autocritica. Fa parte della nostra "natura" permettere a qualcuno di argomentare contro quanto di volta in volta affermiamo per illustrare le nostre tesi. Il metodo del contraddittorio nel deliberare è rafforzato dalla nostra legge, dalle nostre forme di educazione, e dai sistemi politici che abbiamo costruito per portare avanti i nostri interessi e risolvere i nostri conflitti. Pensate a quei corifei critici della civiltà occidentale, quali l'ultimo Edward Said e Noam Chomsky. Said ha parlato in termini davvero velenosi in nome del mondo islamico contro quella che lui considera la persistente visione dell'imperialismo occidentale. Come conseguenza, è stato premiato con una prestigiosa cattedra in una delle università più importanti degli Usa e con molte opportunità di interventi pubblici in America e in tutto il mondo occidentale. Le conseguenze per Chomsky sono state in larga parte le stesse. L'abitudine di premiare i nostri critici, penso, è una cosa unica della civiltà occidentale.

Questo atteggiamento di autocritica ha determinato un'altra caratteristica cruciale per la civiltà occidentale: la rappresentanza. In Occidente - e tra le popolazioni di lingua inglese ciò avviene frequentemente - siamo eredi di una lunga tradizione di libera associazione, per cui ci riuniamo in club, gruppi di affari e di pressione, fondazioni educative. Questo genio associativo era stato segnalato con chiarezza da Tocqueville nei suoi viaggi in America ed è stato facilitato da una caratteristica sezione della common law inglese - l'equità e la legge dei trusts - che mette le persone in condizione di istituire fondi in comune e amministrarli senza chiedere il permesso ad autorità superiori.

Le caratteristiche alle quali mi sono riferito non spiegano solo l'unicità della civiltà occidentale; esse danno anche conto del suo successo nell'aver guidato gli enormi cambiamenti che sono avvenuti tramite il perfezionamento della tecnologia e della scienza, così come spiegano la stabilità politica e l’ethos democratico dei suoi Stati-nazione. Questi argomenti, inoltre, distinguono la civiltà occidentale dalle comunità islamiche nelle quali vengono "coltivati" i terroristi. E possono aiutare a spiegare il grande risentimento di quei terroristi che non riescono a far fronte alla competenza con cui i cittadini d'Europa e d'America sanno rapportarsi al mondo moderno.

Se le cose stanno così, come si dovrebbe difendere l'Occidente dal terrorismo islamista? Vorrei suggerire una breve risposta a questa domanda. Primo, dovrebbe essere chiaro quel che stiamo o non stiamo difendendo. Non stiamo difendendo, per esempio, il nostro benessere o il nostro territorio; non è questa la posta in gioco. Piuttosto, stiamo difendendo la nostra eredità politica e culturale, rappresentata nelle tematiche che ho fin qui presentato. Secondo, ci dovrebbe essere chiaro che non possiamo vincere il risentimento sentendoci sempre e solo colpevoli.

Detto questo, dobbiamo riconoscere che non è solo l'invidia ad animare i terroristi, ma appunto anche il risentimento. L'invidia consiste nel desiderio di possedere quel che l'altro ha; il risentimento è il desiderio di distruggerlo. Come comportarci con il risentimento? Questa è una questione a cui pochi leader del genere umano sono stati capaci di rispondere. I cristiani, comunque, sono fortunati nell'essere eredi di uno dei grandi tentativi di risposta sinora realizzati. Gesù ci ha detto che si può superare il risentimento perdonando. Essere animati dallo spirito del perdono non significa accusare se stessi, bensì fare un dono all'altro. E qui, mi sembra, che abbiamo preso una strada sbagliata negli ultimi decenni. L'illusione che siamo noi che dobbiamo essere rimproverati e confessare le nostre colpe, tutto questo ci espone a un odio ancor più determinato. La verità è che noi non siamo da rimproverare; che l'odio dei nostri nemici è interamente ingiustificato; che la loro implacabile inimicizia non può essere disinnescata dal nostro batterci il petto.

Vi è comunque un azzardo nel realizzare tale verità. Sembra che noi siamo del tutto impotenti. Ma non è vero. Vi sono due risorse che possiamo chiamare in nostra difesa, una pubblica, e l'altra privata. Nella sfera pubblica, possiamo cercare di proteggere le buone cose che abbiamo ereditato. Questo significa non fare concessioni a chi vuole scambiare la cittadinanza con l'asservimento, la nazionalità con la conformità in nome della religione, la legge laica con la sharia, la tradizione ebraico-cristiana con l'islam, l'ironia con la solennità, l'autocritica con il dogmatismo o la rappresentanza con la sottomissione. Dobbiamo rispondere alla loro violenza con quella forza che è richiesta per contenerla. I cristiani dovrebbero poi seguire il cammino tracciato per loro da Gesù: ovvero, guardare con sguardo fermo e in spirito di perdono ai colpi che ricevono e mostrare, con l'esempio, che quei colpi non raggiungono nessuno scopo se non quello di screditare coloro che li assestano. Questo è un duro compito da realizzare, difficile da portare a termine, da sostenere e da raccomandare agli altri. Nondimeno si tratta di un obiettivo che non possiamo fallire.

(Traduzione di Lorenzo Fazzini)

(*)Roger Scruton, filosofo, insegna all’Istitute for the Psychological Sciences della Virginia. Tra i suoi libri: Guida filosofica per tipi intelligenti (1997), La filosofia moderna (1998) e Manifesto dei conservatori (2007). Presso l’editrice Vita e Pensiero ha pubblicato L’Occidente e gli altri. La globalizzazione e la minaccia terroristica (2004) e La cultura conta. Fede e sentimento in un mondo sotto assedio (2008)

Usato e anche abusato, il cristianesimo me lo tengo caro. a

I media, nel mondo occidentale, stanno mettendo
sul banco degli imputati la chiesa e il suo
Pontefice, Benedetto XVI. Si ha l’impressione che
alcuni vogliano approfittare di scandali senz’altro
abominevoli che riguardano singole persone per
regolare i conti con la chiesa. Ma forse qualcuno
pensa che sia giunto anche il momento di
regolare i conti con lo stesso cristianesimo,
magari in nome di un individualismo che è niente
altro che la legittimazione ideologica
dell’egoismo. Lo ha capito molto bene
l’arcivescovo anglicano di Canterbury, che è sceso
in campo con forza a difesa di Benedetto XVI.
Ma cosa sarebbe il mondo moderno senza il
messaggio di Cristo? “Vi do un comandamento
nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho
amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da
questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se
avrete amore gli uni per gli altri”. Questo
insegnava Cristo, e fu un messaggio dirompente
che cambiò il corso della storia. L’idea di
filantropia non era estranea al mondo classico,
ma nel cristianesimo si aggancia a una verità
soprannaturale, e trasforma una idea generica di
amicizia e di buona predisposizione verso l’altro,
in amore operoso verso il prossimo destinato ad
alleviare la sofferenza umana, ovunque la
incontri.
Ed è proprio Cristo che in virtù di questo amore
pronuncia parole durissime contro chi
scandalizzi i più piccoli, i più indifesi: “Sarebbe
meglio per lui che gli fosse appesa al collo una
macina girata da un asino, e fosse gettato negli
abissi del mare”. Il cristianesimo ha dato agli
uomini, più di qualsiasi altra religione o filosofia,
una meta alta e nobile, un’alternativa al nostro
egoismo, ha additato un esempio, spesso difficile,
qualche volta, per molti, quasi impossibile, ma ha
contribuito a elevare la storia dell’umanità.
Il cristianesimo è stato usato e abusato, come
“instrumentum regni”, come occasione di
successo personale, come copertura per vizi
individuali, ma tutto ciò non ha scalfito in nulla la
portata del suo insegnamento perché quella
Parola appartiene per sempre alla storia
dell’umanità.
D’altro canto senza la fede in quell’ordine
naturale delle cose che discende dal Vangelo,
persino il giudizio su tutto ciò che di più
spaventoso è accaduto nel corso della storia,
sarebbe senz’altro relativo e affidato ai meri
equilibri di potere. Di fronte al messaggio
cristiano, mi comporto come quel legato che si
dice fosse stato inviato da Tiberio in Palestina per
assumere notizie su Cristo e i suoi discepoli. Di
ritorno, avrebbe detto: “Io non so se Cristo sia
effettivamente il figlio di Dio, ma ciò che lui dice
è buono e giusto e perciò io credo in Lui”. E
questo grande messaggio di amore che pretende
di fondarsi sulla verità, val la pena difendere, a
prescindere dagli errori che uomini
necessariamente imperfetti possano aver
compiuto, consapevoli che quelle ignominie sono
nient’altro che il frutto perverso di un egoismo
che ha rinnegato la parola di Cristo.

Giuseppe Valditara

© Copyright Il Foglio 31 marzo 2010

Neocattolici d’Italia. Parecchi sono i «figli del Sessantotto»

Per raccontare la sua storia di catecumeno un ricercatore del Cnr di Roma ha usato questa metafora: «Pensavo che dietro la porta della fede ci fosse un bugigattolo soffocante. E invece ho trovato la stanza più grande della mia vita». A Padova nella prossima veglia di Pasqua diventeranno membri della Chiesa, tra gli altri, un direttore di banca e uno di supermercato, un avvocato, uno chef. Anche Irish Pighi, 28 anni, ingegnere a Roveleto (Pc), sarà battezzato a Pasqua insieme al fratello Fabien, di un anno più giovane: «È una scelta maturata nel tempo, la nostra. Da aprile dell’anno scorso facciamo incontri di formazione ogni 15 giorni con una coppia di sposi, i nostri catechisti. Per me il battesimo è un passo verso Dio che prima non avevo fatto: ora lo compio da persona adulta e consapevole». Così è anche per Marco Manfredi, pediatra di Castelnovo ne’ Monti (Re): «Partecipando ad incontri della parrocchia ho cominciato a sperimentare personalmente che cosa vuol dire 'parlare col Signore'. Ogni volta mi sentivo sempre più contento, sempre più 'pieno'. Proprio così, più 'pieno' – ha raccontato il medico al settimanale diocesano – . Avvertivo che il vuoto interiore che accompagnava la mia esistenza andava progressivamente riempiendosi di una Presenza finora sconosciuta. Prima non avevo mai sperimentato nulla di simile». Il dottor Manfredi si accosterà al fonte battesimale durante la prossima veglia pasquale nella sua nuova «casa», la comunità parrocchiale del suo paese, adagiato sull’Appennino. Altri 32 catecumeni faranno lo stesso nella cattedrale di Reggio Emilia: 13 sono nostri connazionali. Irish, Marco, il ricercatore del Cnr, i professionisti di Padova non sono mosche bianche. Il cattolicesimo italiano del 2010 ha anche il loro volto, di quegli adulti di casa nostra che – insieme a stranieri immigrati – consapevolmente chiedono di entrare a far parte della Chiesa con il sacramento del battesimo. La sapienza millenaria del cristianesimo li chiama catecumeni, ovvero «coloro che sono istruiti» nella fede. E anche tra la gente d’Italia d’oggi tale numero, a piccoli passi, cresce. Sorpresa della post-modernità, che vuol far sempre più a meno di Dio? Una rivincita della fede rispetto alla secolarizzazione considerata straripante nel XXI secolo? Beh, le cifre non sono eclatanti, si parla di numeri contenuti. Eppure non sono in regresso, quasi a testimoniare l’invitto fascino che il Nazareno, la sua vita e il suo messaggio infondono sull’uomo di ogni tempo e luogo. Già il quadro generale che offre don Walter Ruspi, responsabile del Servizio nazionale per il catecumenato della Cei, è indicativo: «Gli ultimi dati disponibili sono del 2008 e parlano di 1500 catecumeni, per il 30% italiani. Quando nel 1997 iniziai ad occuparmi del fenomeno, il numero era di 600 e gli italiani erano circa il 50% ». Dunque un leggero, ma costante trend di crescita.
Conferma don Andrea Fontana, delegato per l’arcidiocesi di Torino: «I catecumeni italiani sono in aumento, lo percepisco rispetto a 15 anni fa, quando iniziammo questo percorso: diventare cattolici da adulti non è più qualcosa di cui vergognarsi». Alcuni altri dati forniti dalla Cei lo confermano: nel 2005 ci sono stati 1044 battesimi di adulti; nel 2007 si era a 1302, di cui 543 italiani e 727 immigrati. Cifre da considerarsi per difetto, perché non tutte le 223 diocesi italiane fanno pervenire a Roma i loro dati. In base alle ultime rilevazioni, la regione con il maggior numero di battesimi è stata la Lombardia, seguita a ruota da Toscana, Lazio, Emilia-Romagna e Sicilia. E gli indici si confermano, in maniera più o meno precisa, in un rapido sguardo di orizzonte nelle Chiese locali del Belpaese. A Firenze gli adulti battezzati a Pasqua sono 31, di cui 12 italiani.
Genova presenta un totale di 19 catecumeni: 4 sono «locali». A Novara, su 16, 5 sono italiani; statistiche simili a Verona, dove su 14 futuri nuovi cristiani gli italiani sono 6. I 26 battezzandi di Padova comprendono 5 italiani, la cui età varia tra i 17 e i 50 anni. A Milano nel 2010 riceveranno il battesimo 41 italiani: i catecumeni della Chiesa ambrosiana sono in tutto 143. In quel di Roma, su 88 imminenti cattolici, la metà sono «nostrani», provenienti soprattutto dal mondo universitario. Torino quest’anno conta 58 nuovi membri della comunità cattolica: 25 gli italiani. Spiega don
Andrea Lonardo, responsabile dell’ufficio catechistico di Roma: «Queste persone hanno bellissime storie di libertà. Vengono dalla generazione del ’68, quando tante famiglie non battezzavano i figli». Otto hanno compiuto un cammino comune nella parrocchia di Santa Francesca Romana, dove il parroco don Fabio Rosini da anni tiene un corso d’introduzione alla fede basato sui Dieci comandamenti. Da dove vengono – religiosamente parlando – questi nuovi cattolici? Risponde Filippo Margheri, dell’équipe diocesana per il battesimo degli adulti di Firenze: «Vi sono varie tipologie: c’è chi, alla soglia del matrimonio, non ha un percorso di fede e quindi approfondisce la questione insieme al futuro marito o moglie, loro sì battezzati, e giunge a domandare i sacramenti. Oppure c’è chi ha vissuto esperienze del limite, difficoltà o un lutto che li ha chiamati a una ricerca spirituale ulteriore. A volte capita una felice coincidenza: il percorso del catecumeno diventa un volano per la comunità parrocchiale cui appartiene, che ne approfitta per un cammino di rinnovamento nell’annuncio ai non credenti». L’identikit del catecumeno italiano? «Per la quasi totalità al fondo c’è una domanda religiosa – spiega don Ruspi – , un interrogativo di fede che sfocia nel battesimo. Tale domanda nasce nel mondo studentesco o universitario, nell’ambito del volontariato, e porta a scoprire il senso di un’appartenenza ecclesiale». Don Ruspi annota come tanti catecumeni si ritrovino a «rimpiangere» il fatto di non esser stati battezzati da piccoli: «Ricordo una ragazza di 27 anni, culturalmente molto quotata, che mi diceva: i miei non hanno voluto farmi battezzare da piccola, ora scopro che mi hanno privato della mia infanzia religiosa». Don Gianfranco Calabrese, delegato dell’arcidiocesi di Genova per il catecumenato: «Questi catecumeni sono figli della cultura del 'scelgono loro'. Risentono molto di una certa ideologia che ha segnato molte famiglie, dove il battesimo veniva visto come un’imposizione.
Ma il loro non è un ritorno infantile, sono credenti 'smaliziati': accostano il senso del sacramento in maniera più integrale di tanti battezzati. Sono interessati a Cristo e basta, non hanno paura di essere presi in giro per la loro decisione. Anche chi si battezza in vista del matrimonio non fa una scelta 'coreografica', giusto per sposarsi in chiesa: sono motivati dalla fede in Cristo». Don Ruspi annota: «Dovrebbe stupirci di più un adulto italiano che oggi chiede il battesimo rispetto a tanti che abbandonano. Questo deve diventare motivo di meraviglia per noi: è una novità non fragorosa ma che indica una rottura rispetto a un movimento ormai dato per scontato. La scelta ideologica di tante coppie del ’68 di non dare il battesimo ai figli segna un impoverimento delle persone». Don Fontana, della diocesi di Torino, vede in questo fenomeno un segno di cambiamento: «Tutto questo è il sintomo di una diversità che si sta introducendo nella nostra società, per cui è possibile non essere più cristiani per tradizione, ma per convinzione.
Questi catecumeni cercano qualcuno che dia senso alla vita e lo hanno già incontrato. Si sente che lo Spirito era già là con loro quando noi, come Chiesa, non eravamo ancora presenti. Diventano anche uno stimolo per le nostre parrocchie, che devono cambiare stile per prendere su serio le domande di chi non crede e si vuole accostare al cristianesimo».


© Copyright Avvenire 28 marzo 2010

I Dialoghi delle Carmelitane, un canto contro il terrore







Francis Poulenc (1899-1963), compositore francese dalla produzione eclettica, nei primi mesi del 1953 si mise a scrivere l’opera Dialoghi delle Carmelitane, di cui nel 2007 cadeva il 50° anniversario della prima rappresentazione, e che è tratta da una vicenda storica la quale può essere esemplare per comprendere a quali atrocità arrivò il furore rivoluzionario contro la Chiesa Cattolica.

di Tommaso Scandroglio

Durante la Rivoluzione Francese il secco schiocco della ghigliottina risuonò migliaia di volte in centinaia di piazze, facendo ruzzolare nel paniere le teste non solo di aristocratici, ma anche di borghesi, di popolani, di sacerdoti e di religiosi. Forse solo in questo la rivoluzione fu davvero “democratica”, non facendo per nulla discriminazioni di ceto. È comunque indubitabile che il terrore giacobino prediligeva una categoria molto invisa alle menti illuminate di allora: la categoria del clero e dei religiosi.

Voto di martirio

Il 15 dicembre 1789 l’Assemblea Nazionale vietò a tutti gli ordini religiosi di pronunciare nuovi voti e molti conventi furono fatti sfollare. Questa sorte toccò anche alle carmelitane di Compiègne, piccolo borgo a nord est di Parigi, le quali nel 1792 furono obbligate ad andarsene dal convento e smettere gli abiti da religiose.

Ma dato che il loro proponimento era quello di “vivere e morire da carmelitane”, si risolsero di continuare ad incontrarsi per pregare in comune, nonostante ciò fosse vietato. Così, divise in tre gruppi e alloggiate in abitazioni tra loro vicine, si trovavano quotidianamente per pregare di nascosto.
In una di queste riunioni segrete, su proposta della Superiora, fecero voto di martirio, un «atto di consacrazione per il quale la comunità si offre in sacrificio affinché cessino i mali che affliggono la Chiesa e il nostro Regno infelice», come si può leggere nei documenti di archivio.

Morire cantando le lodi al Redentore

Nel giugno del 1794 le carmelitane furono scoperte e arrestate «per aver tenuto conciliaboli antirivoluzionari, mantenuto corrispondenze fanatiche e conservato scritti liberticidi». Dapprima furono incarcerate nel locale convento della Visitazione e poi tradotte nella stessa prigione parigina dove fu detenuta Maria Antonietta. In questo luogo rimasero quattro giorni, tempo sufficiente affinché Suor Giulia componesse un inno al martirio da cantarsi sulla linea melodica della Marsigliese. I versi iniziali della prima strofa suonano così: «Disponiamo i nostri cuori all’allegrezza / Il giorno della gloria è arrivato / (…) Prepariamoci alla vittoria».

Giunte davanti al tribunale rivoluzionario, la Madre Superiora cercò di addossarsi tutte le colpe, ma il suo tentativo fu vano. Dal tribunale furono subito fatte salire su un carro che le avrebbe condotte al patibolo.

Durante il tragitto intonarono in coro il Miserere, il Salve Regina ed infine il Te Deum. La folla che assisteva al loro passaggio – di solito abituata ad inveire contro i condannati – rimase ammutolita per il coraggio dimostrato da costoro.
Arrivate al patibolo, ai piedi di esso, cantarono il Veni Creator. Poi furono chiamate una ad una per essere giustiziate. Sedici volte la lama scese per compiere, su quell’altare laico, un sacrificio di sangue così simile a quello sofferto da Cristo sul Calvario.

Dalla prima all’ultima esecuzione le sorelle non cessarono mai un istante di cantare il salmo Laudate Dominum omnes gentes. Il canto, man mano che l’eccidio si compiva, si affievoliva sempre più dato che le religiose non ancora giustiziate diminuivano progressivamente di numero.
L’ultima a trovare la morte fu la Madre Superiora che aveva chiesto al boia di essere giustiziata per ultima, affinché potesse sostenere le sue consorelle in quell’ora tremenda. Il canto con essa si spense definitivamente qui sulla terra, ma continuò in cielo per sempre. Infatti nel 1906 la Chiesa Cattolica beatificò le sedici martiri.

Una conversione

La vicenda delle carmelitane di Compiègne per più di un secolo rimase sconosciuta, dal momento che costituiva cattiva pubblicità ai falsi ideali della Rivoluzione Francese e stonava non poco con il famigerato motto “Liberté, Égalité, Fraternitè”. La prima ad interessarsi di quei fatti madidi di sangue fu appunto Santa Romana Chiesa e poi il martirio delle carmelitane attirò anche l’attenzione della scrittrice Gertrud Von Le Fort che nel 1931 compose una novella dal titolo L’ultima al patibolo.

Successivamente, nel 1948, Georges Bernanos pubblicò il romanzo Dialoghi della Carmelitane, da cui prese spunto Poulenc per il suo dramma utilizzando il testo di Bernanos come libretto (nel ’59 e nell’83 furono girati anche due film sullo stesso canovaccio).
Il compositore fino all’età di 37 anni era rimasto abbastanza indifferente alla pratica cristiana; ma nel 1936, in seguito alla morte in un incidente stradale di un suo caro amico, Pierre Ferroud, volle recarsi in pellegrinaggio presso il santuario della Vergine Nera a Rocamadour.

Lì, per sua stessa ammissione, fece ritorno alla fede dell’infanzia, e sempre lì, ai piedi della Vergine Nera, successivamente pose sotto la protezione di Maria diverse sue opere tra cui i Dialoghi. La morte dell’amico non fu solo il detonatore che innescò la sua conversione, ma costituì una sorta di presagio e fonte di ispirazione per la realizzazione dei Dialoghi, opera che incominciò a scrivere solo 17 anni dopo. Infatti il suo amico, nell’incidente, morì decapitato.

La forza di Bianca

Poulenc rispettò sostanzialmente lo svolgersi dei fatti storici avvenuti nell’ultimo decennio del 1700, ma inserì nella trama un personaggio di fantasia, Bianca de la Force, già presente nello scritto della Von Le Fort. Bianca, decisa ad entrare in convento perché terrorizzata dal mondo, sperava di trovare tra quelle mura una vita protetta e sicura. La Seconda Guerra Mondiale era terminata da pochi anni e il musicista vedeva in Bianca la personificazione dell’uomo sopravvissuto a tale conflitto, smarrito e desideroso di pace interiore, atterrito ed anelante ad un vivere tranquillo e sereno. L’autore la descrive così: «l’incarnazione dell’angoscia umana posta di fronte a un’era che stava avanzando inesorabilmente verso la sua fine».

Quando entra nel Carmelo, quasi presaga del suo destino futuro, sceglie di prendere come nome da religiosa Suor Bianca dell’Agonia di Cristo. Anche lei aderirà al voto di martirio perché, come si legge nel libretto, «la preghiera è un dovere, il martirio una ricompensa. […] Non si muore mai ciascuno per sé, ma gli uni per gli altri, ed anche gli uni al posto degli altri».

Dopo che i commissari rivoluzionari hanno evacuato il convento, Bianca si rifugia nella casa paterna, ma apprende che il genitore è stato ghigliottinato, la casa ceduta e i nuovi inquilini decidono di tenerla presso di loro come serva. Intanto le carmelitane vengono arrestate e arriva il giorno dell’esecuzione della sentenza capitale. Tutte le monache salgono al patibolo intonando il Salve Regina (e non il Laudate Dominum come avvenne in realtà) e ricevendo dal cappellano l’assoluzione.

Bianca però non è tra loro, si nasconde tra la folla. È atterrita, ma ad un certo punto tutto cambia in lei e si fa avanti continuando il canto della consorella Costanza, canto interrotto dalla lama della ghigliottina.
Ecco le ultime battute del libretto in cui si descrive il martirio di Bianca, alla quale la ghigliottina troncherà sulle labbra la parola “Amen”: «(Bianca, con il viso spoglio di ogni timore, si apre un varco nella folla tra la quale è confusa) Costanza: “O clemens…”. (Costanza la scorge. Il suo volto si fa radioso di gioia. Si ferma un breve istante. Riprendendo la sua marcia verso il patibolo, ella sorride dolcemente a Bianca). Costanza: “O pia, o dulcis Virgo Ma…”. (Incredibilmente calma, Bianca si fa strada tra la folla stupita, e sale al supplizio). Bianca: “Deo Patri sit gloria/ Et filio qui a mortuis/ Surrexit ac Paraclito/ In saeculorum secula…”. (Improvvisamente, la voce tace, come hanno fatto, ad una ad una, le voci delle Suore. La folla si disperde lentamente)».


(RC n. 32 - Febb/Marzo 2008)

Il cristianesimo, la filantropia e una lettera di Arturo Carlo Jemolo


L'insegnamento cattolico è molto mutato da quando ero bambino, in cui s'insegnava che c'era una unica via per giungere a Dio; oggi si ammette che ci sono molti accessi a Dio, se pure non ne pronunciano mai il nome, anzi ne neghino la esistenza. Vogliamo dire che cioè un unico bene assoluto che vale per tutti i movimenti e che consiste nell'amore, nell'aiutare gli altri, nel compatire, e ci sono poi tante strade, di cui il cristianesimo è una? Diciamolo pure, ma non chiamiamo cristianesimo la filantropia, né altri movimenti e non vogliano i filantropi turbare confondendo le idee quelli che ricordano che Cristo disse che il suo regno non era di questa terra, mentre da tutto il suo insegnamento emerge chiaro che quello che contava per lui era l'uomo interiore. Che l'assetto sociale d'ieri e di oggi presenti grosse tare e iniquità, non è dubbio; ma mi fa paura anche chi vuole distruggere senza piano per riedificare e tanto più quando dinanzi a lui ha una visione utopistica. Dio si presenta come salvatore, venuto a liberare il suo popolo dalla schiavitù; si è errato per secoli, soggiungendo dalla schiavitù del peccato, della concupiscenza, degli aspetti carnali e dovremo invece interpretare: dalla schiavitù del non avere la indipendenza economica, le piccole comodità, che debbono essere comuni a tutti? Scompaia il ricco; anzi ritengo una delle brutture del nostro tempo che alla scomparsa dei ricchi di vecchio stampo, proprietari terrieri, patrizi con tradizioni eccetera si accompagni un tumultuoso irrompere di ricchi avventurieri, spietati, senza alcun principio di bene o di male. Chi è cristiano non può tuttavia dimenticare che Cristo cenò anche alla tavola dei ricchi e che la Sindone, in cui credo, è il lenzuolo donato da un ricco. Cristo non aveva per i ricchi i sentimenti del contestatore di oggi. (27 marzo 1972)

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Cardinale Schönborn: la doppia cittadinanza del cristianesimo

Conferenza all'Università Cattolica d'America


di Kirsten Evans

WASHINGTON, mercoledì, 10 febbraio 2010 (ZENIT.org).- Il ghiaccio e la neve non gli hanno impedito di andare. Nonostante le sferzate della tempesta di neve, il Cardinale Christoph Schönborn, Arcivescovo di Vienna, è intervenuto davanti a un uditorio gremito di studenti, docenti, ecclesiastici e laici alla Catholic University of America (CUA).

La conferenza, organizzata congiuntamente dalle Facoltà di Teologia e Studi Religiosi, di Filosofia e di Diritto Canonico dell'Università, era aperta al pubblico. E il pubblico si è presentato. L'affluenza è stata così copiosa che alcuni studenti hanno dovuto rinunciare per mancanza anche di posti in piedi.

Il Cardinale Schönborn, religioso domenicano, è stato ordinato sacerdote nel 1970. Prima di essere nominato Arcivescovo di Vienna nel 1995, è stato docente di Teologia dogmatica a Friburgo, in Svizzera. È stato creato Cardinale nel 1998. Nella sua conferenza del 3 febbraio scorso, il porporato ha trattato il tema "Cristianesimo: presenza estranea o fondamento dell'Occidente?".

Un'alternativa affascinante

Il Cardinale Schönborn ha iniziato il suo intervento delineando tre legati, che ritiene essenziali, che l'Occidente ha ereditato dalla cultura cristiana: un senso di integrità morale, per il quale i cristiani sono spesso riconosciuti non solo per ciò che fanno, ma anche per ciò che non fanno; il concetto di umanità intesa come famiglia unitaria universale; l'idea che la libertà sia ciò che rende l'uomo più simile a Dio e costituisca la più grande ricchezza dell'uomo.

Il Cardinale ha poi proseguito con la domanda: "E' vero che l'uomo moderno ha conquistato la sua libertà lottando aspramente contro la Chiesa? È vero che è stato l'Illuminismo e non il cristianesimo a dare libertà e dignità all'uomo?". Questa, a suo avviso, è la grande ipotesi della storia moderna.

Un'ipotesi che non lo convince.

Secondo il porporato, gran parte della Chiesa primitiva nacque ed emerse dal mondo pluralistico greco-romano, 2.000 anni fa, e oggi il cristianesimo si propone ad un mondo secolarizzato come un'alternativa affascinante.

"La posizione del cristianesimo nell'Europa moderna è paradossale", ha osservato. "È al contempo un corpo estraneo e una radice per l'Europa. Sebbene sia visto come un'entità estranea, comunque evoca un sentimento di casa e di nostalgia per molte persone in Europa."

"In Europa vi è un numero crescente di persone che, dopo aver vissuto una vita pienamente secolarizzata, si incamminano consapevolmente verso la fede cristiana. E queste persone descrivono la loro scoperta del cristianesimo come un ‘ritorno a casa', come aver ‘trovato casa'".

Del cielo e della terra

Alludendo a Sant'Agostino, il Cardinale Schönborn ha poi spiegato che "in questo si trova la caratteristica e inequivocabile forza del cristianesimo: la sua doppia cittadinanza. Ad un tempo terreno e celeste, esso invita ad una leale partecipazione nella società, a prendersi la responsabilità della città dell'uomo, senza volerla rovesciare per creare una sorta di società utopistica. Questo impegno nel mondo temporale si fonda sul fatto di avere un'incrollabile cittadinanza nella città di Dio".

La convinzione cristiana di essere cittadino sia della terra che del cielo è ciò che rende il Cristianesimo odioso ai sistemi totalitari, in particolare a quelli del XX secolo. "Il cristiano è libero", ha affermato. "Libero rispetto allo Stato, perché non è mai solo cittadino dello Stato. Questa libertà del cristiano ha avuto la sua più chiara espressione durante il periodo del fascismo, del comunismo e del nazismo del secolo scorso, in cui l'autentica testimonianza cristiana ha portato a milioni e milioni di martiri".

Secondo il Cardinale, proprio questo fondamento di libertà è ciò che il cristianesimo è in grado di offrire all'Europa moderna. "È una libertà dalle pretese della maggioranza, dal politicamente corretto, o semplicemente dalle pressioni dell'ultima moda. Libertà cristiana", ha commentato.

Una libertà radicale

A testimonianza della forza della libertà cristiana, il Cardinale Schönborn ha ricordato i grandi movimenti spirituali che sono diventati movimenti culturali nella storia occidentale. "Quest'anno segna esattamente 1.100 anni dalla riforma monastica di Cluny", ha ricordato.

"Questa riforma monastica porto i monasteri in Europa a più di 4.000, nell'arco di 200 anni. Una fantastica rete in tutta Europa, con enormi potenziali economici, sociali, artistici e spirituali".

Il porporato ha spiegato che con l'inizio del declino di Cluny iniziò a sorgere un altro grande rinnovamento, quello innescato da Bernardo di Chiaravalle, e poi ancora con i cistercensi. E la storia si è poi ripetuta con gli ordini mendicanti di San Francesco e San Domenico. Ognuno di questi rinnovamenti spirituali ha dato enormi contributi alle società culturali e civili dell'epoca.

"È stata data una considerazione sufficiente all'apporto di libertà proveniente da questi movimenti di rinnovamento e a quanto l'Europa sia stata influenzata da questi?", ha domandato.

"Sin dal suo inizio, il Cristianesimo ha consentito alle persone di fare un passo al di fuori dell'ordine temporale e politico. L'idea che l'uomo debba obbedire a Dio prima che all'uomo ha contribuito enormemente alla libertà nella società".

Il Cardinale ha quindi sostenuto che nel corso dei secoli la libertà di poter seguire Cristo in modo radicale ha sciolto enormi energie creative in tutto il mondo occidentale, e rappresenta "una delle fonti permanenti della vitalità europea".

Allo stesso modo, ha manifestato la sua gioia per il risorgere di movimenti spirituali nella Chiesa di oggi. "Perché la storia non dovrebbe ripetersi?", ha chiesto. "Perché non dovremmo anche noi avere quella sorta di sorpresa, che non ci si sogna nemmeno, che Francesco d'Assisi portò all'Europa 800 anni fa?".

I movimenti laici della Chiesa di oggi sono "un segno molto vitale", secondo il Cardinale, e puntano allo stesso Spirito creativo che nei secoli precedenti diede vita ai rinnovamenti cristiani, spirituali e culturali. In particolare l'Opus Dei, i Neocatecumenali e Comunione e Liberazione.

Chiamata alla purificazione

Il porporato non ha mancato di sottolineare che il moderno rapporto tra secolarismo e cristianesimo si pone come un necessario processo di purificazione e maturazione del cristianesimo stesso: "Anche il Cristianesimo ha bisogno della voce critica dell'Europa laica, che faccia domande difficili, talvolta sgradevoli, domande che non dovremmo cercare di evitare o di sfuggire".

"È bene per il cristianesimo ascoltare le domande della società secolare e accogliere la sfida a darvi risposta. Serve a svegliare i cristiani e a stimolarli. Serve a riconfermare la credibilità del cristianesimo. E il cristianesimo ha bisogno di essere riconfermato."

"È un bene per noi dover dare conto".

L'analisi critica del mondo laico, ha spiegato, stimola il cristianesimo ad essere ciò che dovrebbe, e aiuta a purificare le incoerenze tra il dire e il fare. "Perché?", ha chiesto. "Perché nel profondo, l'Occidente laico desidera un cristianesimo autentico e auspica un cristianesimo che sia credibile nella sua vita".

Il Cardinale Schönborn ha quindi concluso con un appello alla fede. "La libertà cristiana è una fonte inesauribile. ‘Ecco, io sono con voi fino alla fine del mondo'. Queste parole di Gesù Cristo sono la più potente risorsa del Cristianesimo!", ha esclamato.

"Solo questo spiega l'inesauribile forza rigeneratrice del cristianesimo, il quale vive ripetutamente la propria risurrezione, nella potenza di Colui che è risorto".