DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

«Le nostre città in esilio La forza della memoria» I sindaci delle comunità giuliano- dalmate: nessuno potrà mai estirpare le nostre radici

il giorno del ricordo Si rievoca oggi, data della firma del Trattato di pace del 1947, l’esodo di oltre 350mila italiani costretti ad abbandonare le loro terre invase dalle truppe comuniste
Benco/Pola

«In 30mila nel mondo ma il cuore è ancora là»


DI
L UCIA B ELLASPIGA
O
ggi è fisico nucleare, un passato come ca­po divisione al Centro nucleare di Ispra per la Comunità europea. Ma a chiedergli di raccontare Pola piange come il bambino che e­ra quando dovette abbandonarla. «Il mio addio all’Istria è un ricordo tragico - dice Argeo Benco, classe 1930, sindaco del 'Libero Comune di Pola in esilio' dal maggio 2009 - . Guardai la mia città fino all’ultimo lembo, fino a vedere l’arena scom­parire dietro Punta Cristo. Lì il vaporetto gira die­tro il promontorio puntando a nord e la città sparisce per sempre».
Quanti anni aveva?

Era il 1946, avevo 16 anni e in quel momento il mio pensie­ro era 'non tornerò più se non col Tricolore'. Non ho mante­nuto la promessa, perché a Pola avevo lasciato una non­na molto anziana, che molto tempo dopo volle conoscere la sua prima bisnipotina. Non ho saputo resistere, era l’ini­zio degli anni ’60 e tornai a Pola con mia figlia. Da allora non ho più smesso di torna­re.

Sua nonna era una «rima­sta
», dunque?
Come tanti anziani, che non potevano abbandonare la ca­setta e andare in giro per il mondo. Mio nonno addirittura riceveva ancora la pensione austriaca. Chi restò e visse sotto la Ju­goslavia,
però, se la passò molto male, erano an­ni bui, di povertà e dittatura.
Come fu accolto dai suoi connazionali italiani, dopo l’esodo?

Io per fortuna fui accolto dai miei zii a Milano e non finii nei campi profughi, ma ricordo la pessi­ma accoglienza al liceo classico Carducci, dove il mio professore si storia entrava in classe con 'l’U­nità' sotto braccio e diceva 'c’è qualcuno in que­sta classe che afferma di essere italiano e non sa nemmeno parlarlo, l’italiano!'... Si riferiva al mio accento istriano, che non ho mai perso. Però quan­do passai al liceo Beccaria incontrai un altro do­cente comunista, il professor Mattalia, ma di una correttezza esemplare, erano gli anni delle mani­festazioni per Trieste italiana e lui mi lasciava par­tecipare, 'vada, Benco, io non l’ho vista...'.

E oggi che senso ha essere sindaco di Pola?

Significa tenere unita una città ideale di 30mila persone, sparse in tutta Italia ma anche in Au­stralia, Argentina, Canada... Conservare la nostra storia, la cultura, il dialetto, consegnare alle futu­re generazioni le nostre radici, continuare a vive­re virtualmente nella nostra terra, che abbiamo tutti nel cuore, soprattutto grazie al nostro gior­nale, 'L’Arena di Pola', che ogni mese ci raggiun­ge
in tutti i continenti.
Argeo Benco

«I miei nonni sono rimasti in Jugoslavia Furono anni bui, di povertà e di dittatura»





Un’immagine della splendida arena romana di Pola, che si affaccia sulle sponde dell’Adriatico, in una foto d’epoca
Un dramma a lungo dimenticato, quello dei 350mila giu­liano- dalmati fuggiti da Istria, Pola e Dalmazia alla fine del­la seconda guerra mondiale per sfuggire all’orrore delle foi­be e delle purghe del dittatore comunista Tito. Si trattò di un esodo epocale, che separò famiglie, distrusse una del­le più antiche e splendide culture della nostra millenaria tradizione, scrisse una delle pagine più sanguinose della nostra storia recente. L’occupazione jugoslava del mag­gio 1945 fu presentata come una 'liberazione' ma si risolse in un incubo. Seguirono ondate di massacri di decine di migliaia di italiani. Dopo la pulizia etnica venne il Tratta­to
di pace del 10 febbraio 1947 (data oggi scelta per cele­brare il Giorno del Ricordo), con cui all’Italia venivano sot­tratti due terzi della Venezia Giulia di allora: era la stagio­ne dolorosa dell’esodo, dei campi profughi, delle umilia­zioni subite per decenni. Del silenzio. Della negazione. Fi­no alla legge 92 che solo nel 2004 istituiva il Giorno del Ri­cordo. Oggi le popolazioni di Pola, Fiume e Zara vivono in tutti i continenti, lontane fisicamente dalle loro terre ma unite da un ricordo comune. Eleggono i loro 'sindaci in esilio', primi cittadini di città fisicamente 'virtuali', ma ancora vive nell’amor di patria dei loro abitanti.

Luxardo/Zara
«Quella barbarie che non dimentico»


DA MILANO

A
Zara non c’erano le foibe, le profonde ca­vità di origine carsica, ma c’era il mare, co­sì le purghe di Tito avvenivano per anne­gamento, con una pietra al collo. E il grande eso­do dei 350mila partì proprio da Zara, capoluogo della Dalmazia, che già nel 1943 si svuotò in pochi mesi, quando 24mila dei 25mila abitanti fuggiro­no. Per gli altri fu la mattanza. «Mio zio Nicolò, in­dustriale molto in vista e ultimo deputato di Zara italiana, fu annegato, mia zia Bianca venne fucila­ta da una partigiana croata sulla stessa barca», rac­conta Franco Luxardo, 74 anni, tuttora proprieta­rio dello storico marchio di liquore Maraschino e sindaco del 'Libero Comune di Zara in esilio' con i suoi 20mila 'abitanti' nel mondo.
Solo suo padre si salvò, in famiglia?

Sì, perché anche il fratello Pietro, direttore di pro­duzione in azienda, sparì nel nulla, esattamente come cen­tinaia
di altri zaratini.
Un genocidio vero e proprio.

Con l’intento dichiarato di de­italianizzare la città. Una bar­barie paradossale, al punto che un anno dopo aver affo­gato mio zio il 'tribunale croa­to' lo accusò di non aver ri­sposto all’invito di compari­zione e per questo lo con­dannò all’impiccagione...

Zara in realtà subì di tutto, co­me
città.
Prima dell’arrivo dei titini, per un anno intero fu bombarda­ta ben 54 volte dagli anglo­americani, loro alleati. La città, un gioiello di architettu­ra veneta, andò in briciole. Poi, finite le bombe, dopo l’8 settembre del ’43 iniziarono i rastrellamenti. Per fortuna io, che avevo 7 anni, e­ro in Valsugana per motivi di salute e mi salvai.

A differenza di Pola e Fiume, Zara non esiste più. Lei è sindaco di una città fantasma...

Io, che non avevo vissuto il travaglio della fuga, vis­si lo choc del ritorno. Era il 1965 e avevo 30 anni quando rividi Zara, e della mia città restava solo il cimitero.

Oggi che rapporti ha con l’«altra» Zara?

Decisamente buoni con la città fisica, dove ormai torno regolarmente e dove come Comune in esi­lio abbiamo stimolato la rinascita di una comunità locale di italiani. Prima stavano nascosti per pau­ra, perché il governo jugoslavo non ne riconosce­va l’esistenza: nel censimento del 1991 a Zara si sono dichiarati italiani 13 coraggiosi, oggi, dopo 20 anni, c’è una fiorente comunità di 500 iscritti, di cui andiamo molto fieri.

Tra le due Zara c’è un ponte ideale, dunque.

Pensi che qualcuno degli esuli fa traslare le cene­ri dei propri vecchi laggiù. Quanto alle future ge­nerazioni, stiamo trattando per aprire un asilo i­taliano a Zara. Sarebbe un simbolo fortissimo: l’ul­tima scuola italiana l’hanno chiusa nel ’53. (
L. Bell.)



Brazzoduro/ Fiume
«Per noi il 25 aprile segna l’inizio dell’occupazione titina»


DA MILANO

I
l paradosso dei giuliano-dal­mati, italiani rimasti senza pa­tria quando l’Italia con la se­conda guerra mondiale perse le sue regioni d’oltre Adriatico, è tut­to nelle parole di Guido Brazzo­duro, nato a Fiume nel 1938 e og­gi sindaco del Comune in esilio: «Da noi il 25 aprile del 1945, gior­no in cui per tutti gli altri italiani aveva inizio la Liberazione, co­minciava invece l’occupazione». Già, perché mentre altrove sorri­denti truppe americane faceva­no l’ingresso trionfale nelle no­stre città, accolti con applausi dal­la popolazione in festa, in Istria, Fiume e Dalmazia a 'liberare' la gente dal nazifascismo facevano irruzione ben altre truppe. «Il 3 maggio del ’45 - spiega Brazzo­duro - la violenza cieca esplose quando le squadre di Tito fecero irruzione e la sua polizia segreta, la Ozna, fece strage». Di 60mila a­bitanti, 54mila dovettero scappa­re nelle altre regioni d’Italia. «Io me ne andai nel 1946, con mia mamma - ricorda ­. Anche noi, co­me tanti altri, fummo aiutati dal no­stro ve­scovo, U­go Ca­mozzo, ad andarcene e a trovare una prima destinazione in un i­stituto a Mogliano Veneto. Lì ci ha raggiunto mio papà dopo la pri­gionia in India, e lì l’ho cono­sciuto: era partito che ero picco­lissimo...
». Si scappava per restare italiani, ma quando si approdava dall’al­tra parte dell’Adriatico, con mez­zi di fortuna e il terrore negli oc­chi, spesso non si era bene accol­ti.
Seguivano anni nei campi pro­fughi, accampati in caserme ria­dattate, con le coperte tirate a mo’ di parete per dividere le famiglie e dare l’illusione di un po’ di ri­servatezza. «Scappando, lascia­vamo case, terreni, negozi, e ri­cominciavamo altrove, poveri di tutto», commenta Brazzoduro. Optando per l’Italia si rinunciava ai beni abbandonati, «e lo Stato i­taliano li ha utilizzati per pagare i danni di guerra...», una guerra persa dall’intera nazione, non so­lo dai giuliano-dalmati, gli unici a saldare i conti per tutta Italia: «L’intera comunità nazionale ha un debito con noi - ricorda il sin­daco di Fiume - e dopo 65 anni devo dire che un equo e definiti­vo indennizzo non s’è mai visto». Va invece avanti il riavvicina­mento tra le due comunità, i 30mila fiumani oggi esuli e i 'ri­masti', minoranza da salvaguar­dare in una Croazia che per lo meno inizia a riconoscerne l’'au­toctonia', ovvero ad ammettere che «gli italiani lì non erano im­migrati o occupanti, ma origina­ri da secoli. Il nostro compito og­gi è dialogare con gli italiani a Fiu­me, perché saranno loro a tenere in vita la nostra cultura». Ancora una volta il ponte può essere l’ar­civescovo della città. Che questa volta ha un nome croato, Ivan Devcic, «ma con lui ho un ottimo rapporto». ( L.B.)
«L’intera Italia ha un debito con i giuliano dalmati ma dopo 65 anni non abbiamo visto nulla»