ANTONIO AIRÒ
« I n quaranta giorni di dominazione titina, 3.500 persone furono prelevate a Trieste, 2.700 a Gorizia, in ogni città o villaggio passò la rabbia distruggitrice… Chi potrà riferire i massacri e l’incubo di quei giorni? In occasione del compleanno di Tito (23-24 maggio) vennero nottetempo condotte in aperta campagna e quivi falcidiate dai mitra muniti di silenziatore russo. Per le povere vittime dell’odio slavo le foibe di Basovizza, Gropada, Cesana, Santa Croce, Prosecco, Aurisina spalancarono le loro fauci». È la descrizione dell’inferno quella esposta in alcuni articoli già del 1948 dall’ispettore di polizia Umberto De Giorgi, in servizio nel capoluogo giuliano, al quale le autorità alleate avevano affidato il compito di recuperare dalle foibe i tanti corpi scomparsi in quei tragici giorni. Già 216 voragini naturali erano state da lui esplorate portando alla luce 864 salme di cui solo una parte identificata.
Restavano a quell’epoca senza risposta le foibe del territorio di Gorizia allora sotto l’amministrazione del regime comunista di Tito.
Basterebbe questa relazione dell’ispettore De Giorgi per motivare oggi la celebrazione del 'Giorno del ricordo'. Una giornata che mette insieme, in un succedersi di imperdonabili crimini nei confronti degli italiani (ex fascisti ma anche membri dei comitati di liberazione locali, preti e militari, operai e impiegati, intellettuali e analfabeti), compiuti a Trieste dal 1° maggio al 9 giugno 1945 dalle bande partigiane di Tito, sotto gli occhi indifferenti degli alleati arrivati il 2 maggio, un nazionalismo esasperato (quello slavo), un’ideologia senza pietà (quella comunista), e un odio etnico senza pari, che non possono in alcun modo essere dimenticati. Anche perché il risentimento anti-italiano, a lungo covato, avrebbe provocato un esodo biblico di 300.000 nostri connazionali costretti ad abbandonare, tra il 1945 e la fine degli anni 50, tutto ciò che avevano e era stato costruito nei secoli da generazioni e generazioni.
Celebrare il 'Giorno del ricordo' non significa dimenticare le responsabilità che gli italiani – non sempre 'brava gente' – hanno avuto nei confronti delle popolazioni slovene e croate all’indomani della Grande Guerra e durante il regime fascista, caratterizzato da un processo spinto di italianizzazione non sempre rispettoso delle identità locali, e nemmeno si possono tralasciare le barbarie compiute dai tedeschi e anche da nostri militari durante l’ultima guerra in quei territori. Ma chi sostiene solo questo sembra offrire giustificazioni più o meno contorte al comunismo titino e presentare le stragi delle foibe quasi come un incidente di percorso, certamente condannabile, dovuto alle esasperazioni del momento, rese ancora più crudeli dalla guerra che gli italiani avevano portato contro sloveni e croati.
Noi riteniamo che i giudizi storici non si facciano col bilancino, pesando torti e ragioni degli uni e degli altri in modo neutrale. Le guerre, le occupazioni militari, le lotte di resistenza hanno indubbiamente non pochi lati oscuri, che finiscono con l’essere pagati dai cittadini comuni.
Ma non possono essere poste sullo stesso piano. Per questo non siamo d’accordo con il giudizio (salomonico?) dello storico sloveno, Joze Pirjevec, nel suo recente volume Foibe (Einaudi editore) per il quale «gli orrori del 1945 possono essere forse, se non scusati, almeno collocati nella loro dimensione storica: esecrandi atti di vendetta provocati da altrettanti esecrandi odi e pregiudizi razziali». Per noi, invece, vale il proverbio inglese per il quale «due torti contrapposti non fanno una ragione».
Avvenire 10 febraio 2010