Pubblichiamo integralmente un articolo dal numero di marzo di "Pagine ebraiche" il mensile dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane diretto da Guido Vitale.
di Claudio Vercelli Ritorniamo su Pio XII non per vocazione afflittiva, che non ci appartiene, ma perché la sua figura, o forse dovremmo dire la sua ombra, si accompagna, volenti o nolenti, ai passi dell'attuale pontificato. Se la complessa procedura di beatificazione, con il recente decreto sulle "virtù eroiche", avesse avuto seguito in tempi diversi, benché sia ancora lungi dal pervenire ai suoi esiti ultimi, o se fosse stata presentata esclusivamente come uno degli interna corporis della Chiesa, evitando la ricerca di un qualche consenso preventivo in campo ebraico, non ci troveremmo a doverci confrontare in maniera ripetuta su un dibattito che ha assunto i tratti bislacchi della maniacalità.
Il fatto stesso che la riflessione collettiva abbia preso tale piega, ordinando i più intorno alle due opposte (ma simmetriche) polarità, costituite dagli apologeti e dai detrattori, la dice lunga sulla impossibilità di pervenire, nel presente come - plausibilmente - nei tempi a venire, a un accordo di massima sul giudizio da formulare. Peraltro quest'ultimo, quanto meno su un piano storiografico, non è mai riducibile a quel criterio tribunalizio e ai quei connotati giudiziari che sembrano invece tanto gratificare chi intende la storia come una clava da dare in testa a qualcuno.
In questo agire, compiaciuto e irresponsabile, non c'è nessuna intenzione di fare luce su quel che Pio XII concretamente fu (o tentò di essere) ma, piuttosto, l'intendimento di perseguire con armi improprie l'obiettivo di una polemica anticlericale che dovrebbe invece onestamente alimentarsi del ricorso a strumenti meno manipolabili.
Segnatamente, se le cose sono così poste, si rischia di scivolare sulla china di un revisionismo "progressista", che torce la pur legittima disposizione d'animo a un approccio critico in un assai deprecabile gusto polemico fine a sé. Quest'ultimo non ci occorre né soccorre, poiché non costituirebbe una riparazione per i torti del passato bensì un'ambiguità compiaciuta nel presente.
Ci pare di potere dire che la figura di Eugenio Pacelli vada inquadrata, tra le altre cose, all'interno della più generale dicotomia tra comunismo e anticomunismo. In quegli anni uno degli affanni delle Cancellerie era la dimensione geopolitica dell'esperimento bolscevico e la sua potenziale concorrenzialità rispetto agli equilibri in casa propria. Tutti gli atti che derivarono dai pontificati di quel tempo hanno quindi anche questo rilevante retroterra, per Pio XII tanto più in un periodo di tempo, quello che va dalla sua nunziatura in terra tedesca fino all'assunzione della Cattedra petrina, in cui la frattura tra due opzioni fu tanto secca e netta perché ordinativa delle opinioni e, ancor più, dei comportamenti collettivi.
Eugenio Pacelli viveva le tensioni di quell'epoca su di sé, in corpore vili: uomo assai vicino alla cultura germanica, alla cui ricca austerità intellettuale ben aderiva la sua interiore fisionomia morale, poco proclive a un riformismo interno all'istituzione romana che, peraltro, doveva già confrontarsi di suo con la crisi dei regimi liberali (di cui era stata nel secolo precedente la grande antagonista), ascese al trono petrino quando la guerra era ormai alle porte. Lo scenario che si aprì, oltre che di per sé angosciante, fu quello di un confronto tra due totalitarismi che, a Pacelli, continuavano a parere entrambi detestabili ma su presupposti diversi.
Da ciò la sua asimmetria di giudizio che, se da un lato lo indusse a non confidare oltre misura sulla forza delle democrazie liberali (verso le quali coltivava le irrisolte perplessità che aveva ereditato dai suoi predecessori), dall'altro lo coinvolse verso un diniego totale nei confronti dello stalinismo, che superava di molto altri ordini di considerazione e di priorità. I motivi di riserbo nel giudizio sulla Germania di Hitler si inquadravano inoltre dentro le residue garanzie che il regime concordatario, del tutto assente in Russia, offriva invece al cattolicesimo tedesco.
Se ciò non ci è di certo sufficiente per giustificare, aiuta senz'altro a capire meglio. Pio XII, suo malgrado, fu quindi uno dei Papi che ebbe in sorte il difficile compito di traghettare la Chiesa nell'epoca della modernità, ovvero della politica di massa e della società della moltitudine, di cui il totalitarismo era una potente variante. Non lo fece per virtù, cioè per maturata convinzione in tal senso, bensì per stringente necessità. Fatto tanto più stridente se si pensa alla caratura riformista del suo successore, Angelo Roncalli. Non di meno, trattandosi nel caso della Chiesa di una policrazia a centralismo monocratico, ovvero basandosi sull'azione di una pluralità di istituzioni, enti e uomini, ricondotti al magistero papale, del pari alle diverse opinioni che venivano formulate nel merito della contrapposizione all'Est comunista, anche nel caso tedesco e, dal 1942, verso i crimini che la Germania stava commettendo, si confrontarono linee distinte, in particolare quelle del Sant'Uffizio e della Segreteria di Stato, dove gli accenti potevano essere non sempre coincidenti. Sul grado di condanna, e sui toni da usare, le opinioni potevano quindi essere diverse.
Una ricerca sulle fonti, ancora non accessibili, che di certo poco muterebbe però del quadro di valutazione che già abbiamo dell'operato di Pio XII, potrebbe forse aiutarci a comprendere lavorando non tanto sul Papa, e le sue eventuali reticenze, bensì sulla Santa Sede nel suo complesso come poliedrico soggetto politico e diplomatico.
Questa matassa di elementi, dicevamo, non si presta quindi a facili semplificazioni di giudizio né, tanto meno, a sensazionalismi di sorta. Non diamo pagelle ma ci preme dire che la riflessione di alcune donne e uomini vicini, quanto meno per sentire morale e culturale, alla Chiesa cattolica ci offrono degli spunti di dialogo. Lucetta Scaraffia, Andrea Riccardi, Giovanni Miccoli e tanti altri ci aiutano, con i loro studi e le riflessioni pacate, a far luce non solo sulla biografia storica di un uomo sofferto, a tratti freddo, qual era Eugenio Pacelli, ma anche sulla sua iniziativa pastorale e, soprattutto, sulla natura di certe cautele (ciò gli si contesta, non altro) rispetto ai fenomeni in corso. Ragion per cui pare di potere dire che il fuoco dei ragionamenti dovrebbe semmai orientarsi nel senso dell'adeguatezza delle sue scelte, laddove Pacelli, in virtù del "doppio corpo" che gli era proprio in quanto Pontefice, il più alto magistero spirituale dell'Ecclesia cattolica e la massima autorità civile dello Stato del Vaticano, visse senz'altro uno sdoppiamento che oggi mal si presta a facili sintesi. D'altro canto ogni pontificato conosce stagioni di maturazione, durante e anche dopo la sua conclusione. Il resto, in tutta onestà, ci pare essere un esercizio polemico sterile. Ci dobbiamo muovere nell'ottica del giudizio, non del pregiudizio.
(©L'Osservatore Romano - 19 febbraio 2010)