DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

"Navicula Petri": arte e storia dei Papi del Cinquecento. Per quel legno non c'è fortunale che tenga

di Damiano Pomi

Navicula Petri - la piccola nave di Pietro - un titolo senza dubbio evocativo, che incuriosisce il lettore, introducendolo in un lungo e ben strutturato percorso attraverso l'arte dei Papi nel Cinquecento o, per essere fedeli alle intenzioni degli autori (Massimo Firpo, Fabrizio Biferali, Roma-Bari, Laterza, 2009, pagine 398, euro 45) nei tormentati decenni che vanno dal 1527 al 1571, ben preciso limite cronologico che, partendo dalle drammatiche vicende del sacco di Roma, perpetrato dalle soldataglie dei lanzichenecchi nel maggio del 1527, giunge fino alla conclusione del pontificato di san Pio v, spentosi il 1° maggio del 1572.
Possiamo così osservare, attraverso l'analisi delle opere d'arte che il mecenatismo pontificio ha prodotto nell'arco di nemmeno mezzo secolo, i profondi mutamenti che hanno caratterizzato la Chiesa, sia nelle sue istituzioni, sia nelle persone che ne erano alla guida. Il protestantesimo, costituì uno dei momenti più delicati dell'ormai due volte millenaria storia della Chiesa. Di contro, il concilio di Trento, che prese avvio nella città alpina nel 1545, fu senz'altro un'occasione in cui la perenne fecondità dello Spirito che anima la Chiesa operò per delineare i contorni di un suo nuovo volto, in cui maggiormente e più efficacemente potevano riconoscersi i tratti del Buon Pastore. Anche e, forse soprattutto, nelle opere d'arte si possono scorgere i tratti di questo nuovo aspetto, raggiunto non senza poche difficoltà nel corso della travagliata stagione conciliare, conclusasi nel dicembre del 1563.
Per far comprendere il mutamento socio-politico e anche spiritual-religioso intercorso nel periodo esaminato, non a caso i due autori, nell'introduzione al loro studio, fanno riferimento all'iconografia di una moneta coniata nel pontificato di Paolo iii - Alessandro Farnese, riprodotta nel ricco apparato iconografico che correda il volume. Su una faccia sono ovviamente ritratte le fattezze del Pontefice, mentre sul lato opposto è raffigurato Ganimede, coppiere degli dei che, trattenendo con una mano un'aquila, simbolo del potere imperiale, innaffia dei gigli, emblema del casato del Papa stesso. Una chiara allusione all'azione politica che egli intraprese per rafforzare i possedimenti della sua famiglia, a cui concesse in feudo, nella persona del figlio Pier Luigi, il Ducato di Parma e Piacenza distaccato dallo Stato Pontificio. Tiziano ha immortalato in un quadro, commissionatogli dal Papa stesso, il suo programma di governo ritraendolo con i nipoti Alessandro, cardinale a quattordici anni nel 1534, e Ottavio, destinato alla successione nel Ducato.
Immagini che, se osservate a distanza di pochi decenni, sembrano appartenere a epoche e contesti ben più lontani, apparendo inconciliabili con quelle di un Papa come Pio v, rappresentato con il breviario in mano o in ginocchio, mentre implora dal cielo l'aiuto divino contro le potenze che allora sembravano insidiare la Chiesa. Un mutamento di iconografia che è conseguenza, ma anche descrive, il profondo cambiamento ripercorso nelle quattro sezioni del testo, a loro volta articolate in diversi percorsi, che conducono il lettore alla scoperta di molte e spesso poco conosciute pagine di storia europea, di cronaca romana o di esperienze personali che si nascondono dietro a ben più note opere d'arte, ammirate dai turisti o studiate dal punto di vista artistico, ma non sempre colte nell'originale intenzionalità di chi le ha commissionate e prodotte.
Ogni potere, compreso quello spirituale e temporale dei Papi, dall'antichità ai nostri giorni, si manifesta e contemporaneamente si cela nella propria rappresentazione, colta e trasferita nella percezione dell'osservatore. In particolare, questo appare vero per l'arte legata al soglio di Pietro che, nel corso del XVI secolo, è andata moltiplicandosi, assumendo forme e contenuti che non solo hanno caratterizzato una particolarmente feconda stagione della storia dell'arte, ma ne hanno anche influenzato il successivo sviluppo. L'arte dei Papi, inevitabilmente, è andata percorrendo due parallele direttrici iconografiche, seguendo le due fondamentali dimensioni che caratterizzano la Chiesa: insieme istituzione di ordine divino, voluta e costantemente sostenuta da Cristo, ma costituita e condotta dagli uomini, con e nella loro storia. Pertanto, nell'indagare le diverse opere e le diverse circostanze che ne hanno determinato la produzione, è stata tenuta presente questa duplicità di significato, cercando di cogliere anche i molti e non sempre immediati simbolismi e allegorie di cui è così ricca l'iconografia del tempo.
È andato così delineandosi un tragitto che parte dagli anni precedenti il drammatico sacco di Roma, al tempo della morte dell'austero Adriano vi - ultimo Pontefice non italiano fino a Giovanni Paolo ii - che, invano, cercò di riformare i costumi della curia. La calata sull'Urbe delle soldataglie dei lanzichenecchi, che ne misero a ferro e fuoco i monumenti, costituì un non solo simbolico spartiacque nell'ambito della produzione figurativa papale, segnata anche materialmente da quei tragici momenti - come testimoniano i graffiti ancora visibili su celebri affreschi vaticani - come la Disputa sul Sacramento. È proprio in seguito a questa drammatica circostanza che è offerto, nel testo, un esempio di come l'immagine possa essere veicolo di una specifica intenzionalità. Clemente vii, scampato al sacco asserragliandosi in Castel Sant'Angelo, grazie all'eroico sacrificio del suo corpo di guardia, esule a Orvieto prima e a Viterbo poi, con altri scampati membri della curia, si fece crescere la barba in segno di lutto per la situazione in cui versavano la città e il Papato stesso. L'immagine che egli diede così di sé, e del ruolo da lui rivestito, venne immortalata in un quadro di Sebastiano del Piombo, lo stesso artista, peraltro testimone diretto della rovina della Città Eterna, che nel 1526 già aveva ritratto il Pontefice in posa ben diversa. Ora, dopo quanto accaduto, egli non appare più come un altezzoso potente del mondo, ma come il pastore di un gregge colpito e ferito nel proprio cuore, come si può direttamente constatare attraverso le riproduzioni delle due opere.
Con il Papato farnesiano di Paolo iii, durato ben quindici anni (1534-1549) cui è dedicata la seconda parte del libro, si configura una ripresa dell'autorità e del ruolo della Chiesa di Roma, attraverso l'organizzazione e l'apertura del Tridentino. Una stagione in cui vengono riproposte immagini artistiche nuove, per disegnarne i tratti sia religiosi che temporali. Dei primi sono dimostrazione le esecuzioni di Michelangelo nelle cappelle papali, dei secondi i cicli eseguiti nei rinnovati ambienti della fortezza leonina (Castel Sant'Angelo). Dal Giudizio universale, nella Cappella Sistina, alle Storie di Pietro e Paolo, nella Cappella Paolina. La collocazione stessa del capolavoro del Buonarroti, insolita rispetto all'abituale presenza del Giudizio sulla controfacciata - come per esempio quello giottesco agli Scrovegni di Padova - è indice di un preciso significato che all'opera si vuole dare e che a essa si chiede di trasmettere. Da quel momento in poi, i Pontefici avrebbero lì celebrato le solenni liturgie al cospetto del Cristo, impassibile giudice del tempo e della storia, attorniato dalle figure di uomini e donne che, come loro stessi in potenza, sono salvati o dannati.
I fasti terreni del casato e del Papato sono invece trasmessi dagli affreschi dell'antico mausoleo di Adriano, in cui vi è la proposta di storie e miti dell'antichità classica, con un accostamento di simboli e figure cristiane e pagane. Soprattutto, tale intento celebrativo è stato sintetizzato nell'arte di cui sono ricche la Cancelleria e il vicino palazzo Farnese dove un più ampio pubblico ne avrebbe potuto cogliere il messaggio. L'ultima esaltazione del suo pontificato venne affidata al mausoleo che, nella basilica Vaticana, ne conserva le spoglie e in cui prevale più un simbolismo profano che sacro, nonostante il monumento sia stato terminato solo nel 1574.
Non diverso fu l'inizio del pontificato di Giulio iii, la cui cerimonia di incoronazione fu corredata da un apparato scenografico in cui, ancora una volta, la presenza di classicheggianti figure allegoriche, sembra trascurare la pur fondamentale dimensione spirituale del seggio petrino. Gli echi della classicità, recuperata dal rinascimento e mai tramontata, erano ravvisabili non solo nelle opere d'arte, ma anche negli spettacoli in cui vennero messe in scena commedie di autori classici.
Il vento di un radicale cambiamento, che condizionerà definitivamente anche le scelte in campo artistico, iniziò a spirare con il seppur brevissimo pontificato di Marcello ii, che guidò la Chiesa per soli ventidue giorni. Le sue serie intenzioni riformatrici, già espresse sotto il governo di Paolo iii, di cui criticò apertamente il nepotismo, furono evidenti fin dalla sobria liturgia dell'incoronazione, i cui soldi risparmiati furono per metà devoluti ai poveri e per metà all'amministrazione della Santa Sede. Ugualmente modesta la sua sepoltura, in un semplice sarcofago che ancora si può vedere nelle grotte vaticane. Gli successe il più noto Gian Piero Carafa, che prese il nome di Paolo iv, già vescovo di Chieti e confondatore, con san Gaetano da Thiene, dell'ordine dei Teatini che, votato alla povertà, auspicava un ritorno allo spirito dell'età apostolica. Per quanto concerne i suoi interventi in ambito figurativo, al di là delle vicende politico amministrative per altro ben sintetizzate nel testo, non si può che osservare una opposta tendenza rispetto ai predecessori. Alcune sue prese di posizione, come quella riguardante l'invito rivolto a Michelangelo di coprire i nudi presenti sulla parete del Giudizio, segnano infatti una rottura con il passato anche se, come ben ricordano gli autori, non forniscono ancora la base per nuovi e più efficaci modelli iconografici e figurativi, come avverrà durante la controriforma. I suoi interventi, più che volti a proporre qualcosa di nuovo, furono causa della perdita di opere realizzate in precedenza come, per esempio, il ciclo, per la verità assai profano, delle fatiche di Ercole, dipinte dallo Zuccari nelle stanze di Giulio iii. Una intransigenza che non gli procurò il favore del popolo romano che, alla morte, ne abbatté la statua in Campidoglio e si avventò sui pochi segni lasciati dal suo pontificato.
La grande assise tridentina, che fornirà le premesse per una svolta anche in ambito figurativo, si concluse sotto il pontificato di Pio iv che, a differenza del predecessore, si mostrò un buon mecenate, sapendo coniugare le istanze riformatrici emerse dal concilio con una nuova attenzione alle arti. Di questo restano emblemi l'edificio del Boschetto, con la sua descritta decorazione classica, i nuovi progetti decorativi degli ambienti vaticani e i costosissimi interventi in città, predisposta a divenire una vera capitale cosmopolita. Alla sua morte successe, nel gennaio del 1571, san Pio v che inaugurò, con il suo pontificato, la stagione della cosiddetta controriforma. Religioso domenicano, proveniente dagli ambienti dell'Inquisizione, fin dall'inizio si presentò come continuatore del sentiero già tracciato dal Carafa e momentaneamente abbandonato da Pio iv, nel segno di un rigorismo che, del resto, appare fissato anche nei suoi ritratti. Canuto e con il viso austeramente segnato, il Papa appare spesso benedicente o in preghiera, trasmettendo l'idea di un effettivo ruolo di mediazione con il divino che appare sempre più protagonista della tormentata storia terrena. L'ultima sezione del saggio è, infatti, dedicata alla restituzione artistica della battaglia di Lepanto che, il 7 ottobre 1571, si risolse a favore della coalizione cristiana, con una vittoria attribuita all'intercessione della Vergine, invocata dal Pontefice con la preghiera del Rosario. Nel quadro di Grazio Cossali, per il convento di Santa Croce di Bosco Marengo, paese natale del Pontefice, i santi Domenico e Caterina dall'alto vegliano, accanto alla Madonna, sulla storia umana, personificata appunto da Pio v, da Filippo ii e dal doge veneziano Alvise Mocenigo. Una ideale corrispondenza di intenti che sembra essere riuscita a condurre, in acque spesso perigliose, la piccola eppur salda barca di Pietro che, con la sua storia e la sua arte, solca le onde della storia.


(©L'Osservatore Romano - 20 febbraio 2010)