DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Canonista spiega che per i preti pedofili la giustizia dello stato non basta

Roma. “La società contemporanea ritiene
che la giustizia dello stato sia l’unica
giustizia valida. Per questo motivo anche
oggi, quando osserva i presunti abusi
su minori commessi da sacerdoti, invoca
la giustizia dello stato. Beninteso: è
corretto che sia così. Gli uomini di chiesa
devono seguire le leggi dello stato in
cui vivono e a queste obbedire e probabilmente
devono farlo di più delle altre
persone. Ma ciò che oggi troppo spesso si
dimentica è che la giustizia può essere
applicata in diversi modi. Che, insomma,
non esiste soltanto la giustizia dello stato.
Lo sapevano bene nel medioevo quando
la giustizia si esercitava in famiglia
oppure nelle corporazioni. Per la chiesa
cattolica esiste la giustizia divina. Questa
si esercita, ad esempio, tramite la confessione
oppure nei processi interni che
prevedono certe pene che lo stato non
può dare. Processi che tengono conto di
tanti fattori come ad esempio lo scandalo
che il presunto colpevole ha recato al
popolo di Dio, tutte cose estranee alla
giustizia degli stati. In questo senso se è
vero che gli uomini di chiesa devono sottostare
alle leggi vigenti nei paesi in cui
abitano, è altrettanto vero che la giustizia
si può applicare in tanti modi. Lo disse
bene Beda il Venerabile nell’ottavo secolo
con un esempio ancora oggi valido: ‘Se
tutto il paese dice che una donna è adultera
io, in quanto giudice, devo condannarla.
Ma se in confessione questa stessa
donna mi dice che è innocente io devo
crederle e quindi assolverla”’.
A parlare col Foglio è don Davide Cito,
docente di Diritto penale canonico alla
Pontificia Università della Santa Croce.
Nel giorno in cui il Papa annuncia l’uscita
della lettera ai cattolici irlandesi a riguardo
degli abusi su minori compiuti da
sacerdoti (Benedetto XVI firmerà la lettera
venerdì prossimo), don Cito spiega,
da canonista, come la chiesa si comporta
sia quando deve accertare eventuali reati
di pedofilia commessi da preti, sia
quando questi stessi presunti reati diventano
occasione per assediare e diffamare
la chiesa. “Il rapporto tra stato e chiesa
è delicato” dice. “Occorre distinguere
bene i due piani. Lo dice del resto l’articolo
7 della Costituzione italiana che la
chiesa e lo stato sono indipendenti e sovrani
ognuno nel proprio ordine. Cosa significa
questa indipendenza? Significa
che la chiesa deve denunciare sempre
ogni cosa allo stato? Dipende. Per lo stato
italiano, ad esempio, l’obbligo della
denuncia c’è soltanto in caso di delitti
che attentano contro la personalità dello
stato. Ciò significa che se un prete commette
un abuso su un minore la chiesa
non deve denunciarlo? Certamente non
significa questa cosa. Ma, ad esempio, significa
che se un prete in confessionale
dice di aver commesso un abuso su un
minore il confessore non può, pena la
violazione del sigillo, denunciarlo. Può
cercare di convincere il prete ad autodenunciarsi
alla magistratura ordinaria,
ma non spetta a lui fare altrettanto”. Dice
ancora don Cito: “Occorre tenere conto
poi che vi sono delitti importanti per
la chiesa e non per lo stato. Ad esempio
la profanazione dell’eucaristia. Per la
chiesa è il delitto più grave mentre per lo
stato non ha alcun valore. Ci sono invece
alcuni delitti che sono rilevanti per entrambi,
è il caso dei reati di pedofilia. Ma
per quest’ultimo delitto già la chiesa prevede
pene importanti come ad esempio
la dimissione dallo stato clericale. Se poi
il prete è chiamato a rispondere del proprio
delitto anche davanti alla magistratura
ordinaria la chiesa non si oppone,
ma la sua giustizia la applica in parallelo,
su un piano distinto e diverso”.
Don Cito dice un’altra cosa: “La chiesa
cattolica conosce la pedofilia da tempo.
Benedetto XIV nel 1741 emanò la Costituzione
‘Il sacramento della penitenza’ dove
si diceva che il penitente deve denunciare
il sacerdote colpevole del delitto di avere
istigato a cose turpi. Il concetto venne approfondito
negli anni successivi fino a Giovanni
XXIII nell’istruzione ‘Crimen sollicitationis’
dove si parla esplicitamente del
delitto di pedofilia, chiamato crimen pessimum.
La Costituzione apostolica ‘Pastor
bonus’ del 1988 riconosceva che la competenza
dei delitti più gravi (tra questi gli
abusi sui minori da parte di chierici) sono
di competenza della Congregazione per la
dottrina della fede. E nel 2001 il motu proprio
‘Sacramentorum sanctitatis tutela’ ha
stabilito la procedura da utilizzare. Insomma
si tratta di un iter di lunga data che
conferma che la chiesa non ha mai avuto
la volontà di insabbiare nulla dal momento
che, essendo delitti odiosi, sono gravi offese
a Dio e ai fratelli”.

Paolo Rodari

© Copyright Il Foglio 18 marzo 2010