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Il Papa: La preparazione al matrimonio è fondamentale! Il Diritto aiuta l'evangelizzazione dei fidanzati perchè scoprano la verità della vocazione

DISCORSO DEL PAPA ALLA ROTA ROMANA PER IL NUOVO ANNO GIUDIZIARIO


SINTESI


Bisogna adoperarsi affinché si interrompa, nella misura del possibile, il circolo vizioso che spesso si verifica tra un'ammissione scontata al matrimonio, senza un’adeguata preparazione e un esame serio dei requisiti previsti per la sua celebrazione, e una dichiarazione giudiziaria talvolta altrettanto facile, ma di segno inverso, in cui lo stesso matrimonio viene considerato nullo solamente in base alla costatazione del suo fallimento.


La dimensione canonica della preparazione al matrimonio forse non è un elemento di immediata percezione... è diffusa la mentalità secondo cui l'esame degli sposi, le pubblicazioni matrimoniali e gli altri mezzi opportuni per compiere le necessarie investigazioni prematrimoniali, tra i quali si collocano i corsi di preparazione al matrimonio, costituirebbero degli adempimenti di natura esclusivamente formale. Infatti, si ritiene spesso che, nell'ammettere le coppie al matrimonio, i pastori dovrebbero procedere con larghezza, essendo in gioco il diritto naturale delle persone a sposarsi. «Di fronte alla relativizzazione soggettivistica e libertaria dell'esperienza sessuale, la tradizione della Chiesa afferma con chiarezza l'indole naturalmente giuridica del matrimonio, cioè la sua appartenenza per natura all'ambito della giustizia nelle relazioni interpersonali. In quest'ottica, il diritto s'intreccia davvero con la vita e con l'amore; come un suo intrinseco dover essere» (Allocuzione alla Rota Romana, 27 gennaio 2007). Non esiste, pertanto, un matrimonio della vita ed un altro del diritto: non vi è che un solo matrimonio, il quale è costitutivamente vincolo giuridico reale tra l'uomo e la donna, un vincolo su cui poggia l'autentica dinamica coniugale di vita e di amore. Il matrimonio celebrato dagli sposi, quello di cui si occupa la pastorale e quello messo a fuoco dalla dottrina canonica, sono una sola realtà naturale e salvifica, la cui ricchezza dà certamente luogo a una varietà di approcci, senza però che ne venga meno l'essenziale identità. L'aspetto giuridico è intrinsecamente legato all'essenza del matrimonio... Il diritto a sposarsi, o ius connubii, va visto in tale prospettiva. Non si tratta, cioè, di una pretesa soggettiva che debba essere soddisfatta dai pastori mediante un mero riconoscimento formale, indipendentemente dal contenuto effettivo dell'unione. Il diritto a contrarre matrimonio presuppone che si possa e si intenda celebrarlo davvero, dunque nella verità della sua essenza così come è insegnata dalla Chiesa. Nessuno può vantare il diritto a una cerimonia nuziale. Lo ius connubii, infatti, si riferisce al diritto di celebrare un autentico matrimonio. Non si negherebbe, quindi, lo ius connubii laddove fosse evidente che non sussistono le premesse per il suo esercizio, se mancasse, cioè, palesemente la capacità richiesta per sposarsi, oppure la volontà si ponesse un obiettivo che è in contrasto con la realtà naturale del matrimonio.

«Data la complessità del contesto culturale in cui vive la Chiesa in molti Paesi, il Sinodo ha, poi, raccomandato di avere la massima cura pastorale nella formazione dei nubendi e nella previa verifica delle loro convinzioni circa gli impegni irrinunciabili per la validità del sacramento del Matrimonio. Un serio discernimento a questo riguardo potrà evitare che impulsi emotivi o ragioni superficiali inducano i due giovani ad assumere responsabilità che non sapranno poi onorare (cfr Propositio 40). Troppo grande è il bene che la Chiesa e l'intera società s'attendono dal matrimonio e dalla famiglia su di esso fondata per non impegnarsi a fondo in questo specifico ambito pastorale. Matrimonio e famiglia sono istituzioni che devono essere promosse e difese da ogni possibile equivoco sulla loro verità, perché ogni danno arrecato ad esse è di fatto una ferita che si arreca alla convivenza umana come tale» (Esort. ap. postsinodale Sacramentum caritatis, 22 febbraio 2007, n. 29).

La preparazione al matrimonio ha certamente delle finalità che trascendono la dimensione giuridica, poiché il suo orizzonte è costituito dal bene integrale, umano e cristiano, dei coniugi e dei loro futuri figli, volto in definitiva alla santità della loro vita. Non bisogna mai dimenticare, tuttavia, che l'obiettivo immediato di tale preparazione è quello di promuovere la libera celebrazione di un vero matrimonio, la costituzione cioè di un vincolo di giustizia ed amore tra i coniugi, con le caratteristiche dell’unità ed indissolubilità, ordinato al bene dei coniugi e alla procreazione ed educazione della prole, e che tra battezzati costituisce uno dei sacramenti della Nuova Alleanza. Con ciò non viene rivolto alla coppia un messaggio ideologico estrinseco, né tanto meno viene imposto un modello culturale; piuttosto, i fidanzati vengono posti in grado di scoprire la verità di un'inclinazione naturale e di una capacità di impegnarsi che essi portano inscritte nel loro essere relazionale uomo-donna. È da lì che scaturisce il diritto quale componente essenziale della relazione matrimoniale, radicato in una potenzialità naturale dei coniugi che la donazione consensuale attualizza. Ragione e fede concorrono a illuminare questa verità di vita, dovendo comunque rimanere chiaro che, come ha insegnato ancora il Venerabile Giovanni Paolo II, «la Chiesa non rifiuta la celebrazione delle nozze a chi è bene dispositus, anche se imperfettamente preparato dal punto di vista soprannaturale, purché abbia la retta intenzione di sposarsi secondo la realtà naturale della coniugalità» (Allocuzione alla Rota Romana, 30 gennaio 2003, n. 8).

Tra i mezzi per accertare che il progetto dei nubendi sia realmente coniugale spicca l'esame prematrimoniale. Tale esame ha uno scopo principalmente giuridico: accertare che nulla si opponga alla valida e lecita celebrazione delle nozze. Giuridico non vuol dire però formalistico, come se fosse un passaggio burocratico consistente nel compilare un modulo sulla base di domande rituali. Si tratta invece di un'occasione pastorale unica - da valorizzare con tutta la serietà e l’attenzione che richiede - nella quale, attraverso un dialogo pieno di rispetto e di cordialità, il pastore cerca di aiutare la persona a porsi seriamente dinanzi alla verità su se stessa e sulla propria vocazione umana e cristiana al matrimonio. In questo senso il dialogo, sempre condotto separatamente con ciascuno dei due fidanzati - senza sminuire la convenienza di altri colloqui con la coppia - richiede un clima di piena sincerità, nel quale si dovrebbe far leva sul fatto che gli stessi contraenti sono i primi interessati e i primi obbligati in coscienza a celebrare un matrimonio valido.

Bisogna adoperarsi affinché si interrompa, nella misura del possibile, il circolo vizioso che spesso si verifica tra un'ammissione scontata al matrimonio, senza un’adeguata preparazione e un esame serio dei requisiti previsti per la sua celebrazione, e una dichiarazione giudiziaria talvolta altrettanto facile, ma di segno inverso, in cui lo stesso matrimonio viene considerato nullo solamente in base alla costatazione del suo fallimento. È vero che non tutti i motivi di un’eventuale dichiarazione di nullità possono essere individuati oppure manifestati nella preparazione al matrimonio, ma, parimenti, non sarebbe giusto ostacolare l'accesso alle nozze sulla base di presunzioni infondate, come quella di ritenere che, al giorno d'oggi, le persone sarebbero generalmente incapaci o avrebbero una volontà solo apparentemente matrimoniale. In questa prospettiva appare importante che vi sia una presa di coscienza ancora più incisiva circa la responsabilità in questa materia di coloro che hanno cura d'anime.

Di recente ho insistito sulla necessità di giudicare rettamente le cause relative all'incapacità consensuale (cfr Allocuzione alla Rota Romana, 29 gennaio 2009: AAS 101 [2009], pp. 124-128). La questione continua ad essere molto attuale, e purtroppo permangono ancora posizioni non corrette, come quella di identificare la discrezione di giudizio richiesta per il matrimonio (cfr CIC, can. 1095, n. 2) con l’auspicata prudenza nella decisione di sposarsi, confondendo così una questione di capacità con un'altra che non intacca la validità, poiché concerne il grado di saggezza pratica con cui si è presa una decisione che è, comunque, veramente matrimoniale. Più grave ancora sarebbe il fraintendimento se si volesse attribuire efficacia invalidante alle scelte imprudenti compiute durante la vita matrimoniale.

Penso, in modo particolare, alla questione dell'esclusione del bonum coniugum. In relazione a tale esclusione sembra ripetersi lo stesso pericolo che minaccia la retta applicazione delle norme sull'incapacità, e cioè quello di cercare dei motivi di nullità nei comportamenti che non riguardano la costituzione del vincolo coniugale bensì la sua realizzazione nella vita. Bisogna resistere alla tentazione di trasformare le semplici mancanze degli sposi nella loro esistenza coniugale in difetti di consenso. La vera esclusione può verificarsi infatti solo quando viene intaccata l'ordinazione al bene dei coniugi (cfr ibid., can. 1055, § 1), esclusa con un atto positivo di volontà.

Occorre invece favorire in tutti i settori, e in modo particolare nel campo del matrimonio e della famiglia, una dinamica di segno opposto, di armonia profonda tra pastoralità e giuridicità, che certamente si rivelerà feconda nel servizio reso a chi si avvicina al matrimonio.



* * *


DISCORSO INTEGRALE



Cari Componenti del Tribunale della Rota Romana!

Sono lieto di incontrarvi per questo annuale appuntamento in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Un cordiale saluto rivolgo al Collegio dei Prelati Uditori, iniziando dal Decano, Mons. Antoni Stankiewicz, che ringrazio per le cortesi parole. Saluto gli Officiali, gli Avvocati e gli altri collaboratori di codesto Tribunale, come pure tutti i presenti. Questo momento mi offre l’opportunità di rinnovare la mia stima per l’opera che svolgete al servizio della Chiesa e di incoraggiarvi ad un sempre maggiore impegno in un settore così delicato ed importante per la pastorale e per la salus animarum.

Il rapporto tra il diritto e la pastorale è stato al centro del dibattito postconciliare sul diritto canonico. La ben nota affermazione del Venerabile Servo di Dio Giovanni Paolo II, secondo la quale «non è vero che per essere più pastorale il diritto debba rendersi meno giuridico» (Allocuzione alla Rota Romana, 18 gennaio 1990, n. 4: AAS 82 [1990], p. 874) esprime il superamento radicale di un’apparente contrapposizione. «La dimensione giuridica e quella pastorale – diceva – sono inseparabilmente unite nella Chiesa pellegrina su questa terra. Anzitutto, vi è una loro armonia derivante dalla comune finalità: la salvezza delle anime» (ibidem). Nel mio primo incontro, che ebbi con voi nel 2006, ho cercato di evidenziare l'autentico senso pastorale dei processi di nullità del matrimonio, fondato sull'amore per la verità (cfr Allocuzione alla Rota Romana, 28 gennaio 2006: AAS 98 [2006], pp. 135-138). Oggi vorrei soffermarmi a considerare la dimensione giuridica che è insita nell'attività pastorale di preparazione e ammissione al matrimonio, per cercare di mettere in luce il nesso che intercorre tra tale attività e i processi giudiziari matrimoniali.

La dimensione canonica della preparazione al matrimonio forse non è un elemento di immediata percezione. In effetti, da una parte si osserva come nei corsi di preparazione al matrimonio le questioni canoniche occupino un posto assai modesto, se non insignificante, in quanto si tende a pensare che i futuri sposi abbiano un interesse molto ridotto per problematiche riservate agli specialisti. Dall'altra, pur non sfuggendo a nessuno la necessità delle attività giuridiche che precedono il matrimonio, rivolte ad accertare che «nulla si oppone alla sua celebrazione valida e lecita» (CIC, can. 1066), è diffusa la mentalità secondo cui l'esame degli sposi, le pubblicazioni matrimoniali e gli altri mezzi opportuni per compiere le necessarie investigazioni prematrimoniali (cfr ibid., can. 1067), tra i quali si collocano i corsi di preparazione al matrimonio, costituirebbero degli adempimenti di natura esclusivamente formale. Infatti, si ritiene spesso che, nell'ammettere le coppie al matrimonio, i pastori dovrebbero procedere con larghezza, essendo in gioco il diritto naturale delle persone a sposarsi.

È bene, in proposito, riflettere sulla dimensione giuridica del matrimonio stesso. È un argomento a cui ho fatto cenno nel contesto di una riflessione sulla verità del matrimonio, nella quale affermavo, tra l'altro: «Di fronte alla relativizzazione soggettivistica e libertaria dell'esperienza sessuale, la tradizione della Chiesa afferma con chiarezza l'indole naturalmente giuridica del matrimonio, cioè la sua appartenenza per natura all'ambito della giustizia nelle relazioni interpersonali. In quest'ottica, il diritto s'intreccia davvero con la vita e con l'amore; come un suo intrinseco dover essere» (Allocuzione alla Rota Romana, 27 gennaio 2007, AAS 99 [2007], p. 90). Non esiste, pertanto, un matrimonio della vita ed un altro del diritto: non vi è che un solo matrimonio, il quale è costitutivamente vincolo giuridico reale tra l'uomo e la donna, un vincolo su cui poggia l'autentica dinamica coniugale di vita e di amore. Il matrimonio celebrato dagli sposi, quello di cui si occupa la pastorale e quello messo a fuoco dalla dottrina canonica, sono una sola realtà naturale e salvifica, la cui ricchezza dà certamente luogo a una varietà di approcci, senza però che ne venga meno l'essenziale identità. L'aspetto giuridico è intrinsecamente legato all'essenza del matrimonio. Ciò si comprende alla luce di una nozione non positivistica del diritto, ma considerata nell'ottica della relazionalità secondo giustizia.

Il diritto a sposarsi, o ius connubii, va visto in tale prospettiva. Non si tratta, cioè, di una pretesa soggettiva che debba essere soddisfatta dai pastori mediante un mero riconoscimento formale, indipendentemente dal contenuto effettivo dell'unione. Il diritto a contrarre matrimonio presuppone che si possa e si intenda celebrarlo davvero, dunque nella verità della sua essenza così come è insegnata dalla Chiesa. Nessuno può vantare il diritto a una cerimonia nuziale. Loius connubii, infatti, si riferisce al diritto di celebrare un autentico matrimonio. Non si negherebbe, quindi, lo ius connubii laddove fosse evidente che non sussistono le premesse per il suo esercizio, se mancasse, cioè, palesemente la capacità richiesta per sposarsi, oppure la volontà si ponesse un obiettivo che è in contrasto con la realtà naturale del matrimonio.

A questo proposito vorrei ribadire quanto ho scritto dopo il Sinodo dei Vescovi sull'Eucaristia: «Data la complessità del contesto culturale in cui vive la Chiesa in molti Paesi, il Sinodo ha, poi, raccomandato di avere la massima cura pastorale nella formazione dei nubendi e nella previa verifica delle loro convinzioni circa gli impegni irrinunciabili per la validità del sacramento del Matrimonio. Un serio discernimento a questo riguardo potrà evitare che impulsi emotivi o ragioni superficiali inducano i due giovani ad assumere responsabilità che non sapranno poi onorare (cfr Propositio 40). Troppo grande è il bene che la Chiesa e l'intera società s'attendono dal matrimonio e dalla famiglia su di esso fondata per non impegnarsi a fondo in questo specifico ambito pastorale. Matrimonio e famiglia sono istituzioni che devono essere promosse e difese da ogni possibile equivoco sulla loro verità, perché ogni danno arrecato ad esse è di fatto una ferita che si arreca alla convivenza umana come tale» (Esort. ap. postsinodale Sacramentum caritatis, 22 febbraio 2007, n. 29: AAS 99 [2007], p. 130).

La preparazione al matrimonio, nelle sue varie fasi descritte dal Papa Giovanni Paolo II nell'Esortazione apostolica Familiaris consortio, ha certamente delle finalità che trascendono la dimensione giuridica, poiché il suo orizzonte è costituito dal bene integrale, umano e cristiano, dei coniugi e dei loro futuri figli (cfr n. 66: AAS 73 [1981], pp. 159-162), volto in definitiva alla santità della loro vita (cfr CIC, can. 1063,2°). Non bisogna mai dimenticare, tuttavia, che l'obiettivo immediato di tale preparazione è quello di promuovere la libera celebrazione di un vero matrimonio, la costituzione cioè di un vincolo di giustizia ed amore tra i coniugi, con le caratteristiche dell’unità ed indissolubilità, ordinato al bene dei coniugi e alla procreazione ed educazione della prole, e che tra battezzati costituisce uno dei sacramenti della Nuova Alleanza. Con ciò non viene rivolto alla coppia un messaggio ideologico estrinseco, né tanto meno viene imposto un modello culturale; piuttosto, i fidanzati vengono posti in grado di scoprire la verità di un'inclinazione naturale e di una capacità di impegnarsi che essi portano inscritte nel loro essere relazionale uomo-donna. È da lì che scaturisce il diritto quale componente essenziale della relazione matrimoniale, radicato in una potenzialità naturale dei coniugi che la donazione consensuale attualizza. Ragione e fede concorrono a illuminare questa verità di vita, dovendo comunque rimanere chiaro che, come ha insegnato ancora il Venerabile Giovanni Paolo II, «la Chiesa non rifiuta la celebrazione delle nozze a chi è bene dispositus, anche se imperfettamente preparato dal punto di vista soprannaturale, purché abbia la retta intenzione di sposarsi secondo la realtà naturale della coniugalità» (Allocuzione alla Rota Romana, 30 gennaio 2003, n. 8: AAS95 [2003], p. 397). In questa prospettiva, una cura particolare deve essere posta nell’accompagnare la preparazione al matrimonio sia remota, sia prossima, sia immediata (cfr Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio, 22 novembre 1981, n. 66: AAS 73 [1981], pp. 159-162)

Tra i mezzi per accertare che il progetto dei nubendi sia realmente coniugale spicca l'esame prematrimoniale. Tale esame ha uno scopo principalmente giuridico: accertare che nulla si opponga alla valida e lecita celebrazione delle nozze. Giuridico non vuol dire però formalistico, come se fosse un passaggio burocratico consistente nel compilare un modulo sulla base di domande rituali. Si tratta invece di un'occasione pastorale unica - da valorizzare con tutta la serietà e l’attenzione che richiede - nella quale, attraverso un dialogo pieno di rispetto e di cordialità, il pastore cerca di aiutare la persona a porsi seriamente dinanzi alla verità su se stessa e sulla propria vocazione umana

e cristiana al matrimonio. In questo senso il dialogo, sempre condotto separatamente con ciascuno dei due fidanzati - senza sminuire la convenienza di altri colloqui con la coppia - richiede un clima di piena sincerità, nel quale si dovrebbe far leva sul fatto che gli stessi contraenti sono i primi interessati e i primi obbligati in coscienza a celebrare un matrimonio valido.

In questo modo, con i vari mezzi a disposizione per un’accurata preparazione e verifica, si può sviluppare un'efficace azione pastorale volta alla prevenzione delle nullità matrimoniali. Bisogna adoperarsi affinché si interrompa, nella misura del possibile, il circolo vizioso che spesso si verifica tra un'ammissione scontata al matrimonio, senza un’adeguata preparazione e un esame serio dei requisiti previsti per la sua celebrazione, e una dichiarazione giudiziaria talvolta altrettanto facile, ma di segno inverso, in cui lo stesso matrimonio viene considerato nullo solamente in base alla costatazione del suo fallimento. È vero che non tutti i motivi di un’eventuale dichiarazione di nullità possono essere individuati oppure manifestati nella preparazione al matrimonio, ma, parimenti, non sarebbe giusto ostacolare l'accesso alle nozze sulla base di presunzioni infondate, come quella di ritenere che, al giorno d'oggi, le persone sarebbero generalmente incapaci o avrebbero una volontà solo apparentemente matrimoniale. In questa prospettiva appare importante che vi sia una presa di coscienza ancora più incisiva circa la responsabilità in questa materia di coloro che hanno cura d'anime. Il diritto canonico in generale, e in specie quello matrimoniale e processuale, richiedono certamente una preparazione particolare, ma la conoscenza degli aspetti basilari e di quelli immediatamente pratici del diritto canonico, relativi alle proprie funzioni, costituisce un'esigenza formativa di primaria rilevanza per tutti gli operatori pastorali, in particolare per coloro che agiscono nella pastorale familiare.

Tutto ciò richiede, inoltre, che l'operato dei tribunali ecclesiastici trasmetta un messaggio univoco circa ciò che è essenziale nel matrimonio, in sintonia con il Magistero e la legge canonica, parlando ad una sola voce. Attesa la necessità dell'unità della giurisprudenza, affidata alla cura di codesto Tribunale, gli altri tribunali ecclesiastici debbono adeguarsi alla giurisprudenza rotale (cfr Giovanni Paolo II, Allocuzione alla Rota Romana, 17 gennaio 1998, n. 4: AAS 90 [1998], p. 783). Di recente ho insistito sulla necessità di giudicare rettamente le cause relative all'incapacità consensuale (cfr Allocuzione alla Rota Romana, 29 gennaio 2009: AAS 101 [2009], pp. 124-128). La questione continua ad essere molto attuale, e purtroppo permangono ancora posizioni non corrette, come quella di identificare la discrezione di giudizio richiesta per il matrimonio (cfr CIC, can. 1095, n. 2) con l’auspicata prudenza nella decisione di sposarsi, confondendo così una questione di capacità con un'altra che non intacca la validità, poiché concerne il grado di saggezza pratica con cui si è presa una decisione che è, comunque, veramente matrimoniale. Più grave ancora sarebbe il fraintendimento se si volesse attribuire efficacia invalidante alle scelte imprudenti compiute durante la vita matrimoniale.

Nell'ambito delle nullità per l'esclusione dei beni essenziali del matrimonio (cfr ibid., can. 1101, § 2) occorre altresì un serio impegno perché le pronunce giudiziarie rispecchino la verità sul matrimonio, la stessa che deve illuminare il momento dell'ammissione alle nozze. Penso, in modo particolare, alla questione dell'esclusione del bonum coniugum. In relazione a tale esclusione sembra ripetersi lo stesso pericolo che minaccia la retta applicazione delle norme sull'incapacità, e cioè quello di cercare dei motivi di nullità nei comportamenti che non riguardano la costituzione del vincolo coniugale bensì la sua realizzazione nella vita. Bisogna resistere alla tentazione di trasformare le semplici mancanze degli sposi nella loro esistenza coniugale in difetti di consenso. La vera esclusione può verificarsi infatti solo quando viene intaccata l'ordinazione al bene dei coniugi (cfr ibid., can. 1055, § 1), esclusa con un atto positivo di volontà. Senz'altro sono del tutto eccezionali i casi in cui viene a mancare il riconoscimento dell'altro come coniuge, oppure viene esclusa l'ordinazione essenziale della comunità di vita coniugale al bene dell'altro. La precisazione di queste ipotesi di esclusione del bonum coniugumdovrà essere attentamente vagliata dalla giurisprudenza della Rota Romana.

Nel concludere queste mie riflessioni, torno a considerare il rapporto tra diritto e pastorale. Esso è spesso oggetto di fraintendimenti, a scapito del diritto, ma anche della pastorale. Occorre invece favorire in tutti i settori, e in modo particolare nel campo del matrimonio e della famiglia, una dinamica di segno opposto, di armonia profonda tra pastoralità e giuridicità, che certamente si rivelerà feconda nel servizio reso a chi si avvicina al matrimonio.

Cari Componenti del Tribunale della Rota Romana, affido tutti voi alla potente intercessione della Beata Vergine Maria, affinché non vi venga mai a mancare l’assistenza divina nello svolgere con fedeltà, spirito di servizio e frutto il vostro quotidiano lavoro, e ben volentieri imparto a tutti una speciale Benedizione Apostolica.

[© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana]

La religione e gli ordinamenti dello Stato moderno Dove poggia la ragnatela del diritto

Pubblichiamo stralci di una delle relazioni presentate alla giornata di studio su "La libertà di religione. Un diritto umano che sta cambiando?" che si è svolta nel Pontificio istituto teutonico di Santa Maria dell'Anima.

di Ottavio De Bertolis
Pontificia Università Gregoriana

Secondo una metafora notissima, ogni ordinamento giuridico ha la fisionomia di una piramide a gradini, una sorta di ziqqurat giuridica: a partire dalle norme inferiori, quelle a noi immediatamente accessibili, regredendo di norma in norma, giungiamo alla norma fondamentale, la Grundnorm, al vertice della piramide, dalla quale tutte le altre fondano la loro validità.
Vale la pena sottolineare come in tal modo l'ordinamento, e dunque lo Stato che è metafora logica della sua unità, si presenta come un tutto, circoscritto e conchiuso, in sé sussistente e perfetto, un vero "dio mortale", o secolarizzato, secondo l'espressione hobbesiana. Dalle leggi ordinarie fino all'ultimo regolamento comunale e agli usi del commercio, tutte le norme sono riassunte e ricapitolate nella norma fondamentale, in essa virtualmente contenute, come una geometria è contenuta negli assiomi di partenza. Ma come ogni geometria si basa su postulati detti "evidenti", così nel fenomeno giuridico la validità logico-formale dell'ordinamento, cioè la sua deducibilità dalle norme sulla produzione poste dalla Grundnorm, dipende dal fatto che l'ordinamento sia effettivamente osservato, ossia che la norma fondamentale sia percepita come cogente, ossia degna di essere obbedita.
Il tessuto dell'ordinamento si poggia su una base, non posta ma presupposta, accettata e condivisa, che rende perciò stesso l'ordinamento non solo valido, ma anche effettivo. In tal modo, siamo in presenza di una sorta di ragnatela: essa si appoggia su dei punti-forza che come tali non appartengono alla ragnatela, ma sulle pareti esterne, alle quali la ragnatela si appoggia. Possiamo chiamare queste pareti i valori condivisi in una determinata comunità, a loro volta influenzati da molti fattori, come l'etica, le religioni, l'economia, le stesse scienze con la percezione del mondo che esse inducono, le strutture umane familiari e sociali, e molti altri ancora. In questo senso, ogni ordinamento giuridico nasce all'interno della cultura umana, essendo esso stesso nient'altro che cultura umana, storica, mutevole e perciò relativa. Fuor di metafora, ogni ordinamento si appoggia su altri ordinamenti, non giuridici ovviamente ma valoriali, pertinenti ad altri saperi. Il diritto è un sapere tra altri saperi, un'interpretazione del mondo che si affianca, e anche appoggia, su altre, che lo supportano e dal quale a loro volta sono supportate. Così i diritti fondamentali, quelli che sono dichiarati tali nelle moderne Costituzioni, non sono altro che prodotti della nostra storia giuridica occidentale e sono il modo che noi abbiamo per tradurre giuridicamente alcuni valori che condividiamo.
Possiamo capire il senso profondo della nota affermazione di Ernst-Wolfgang Böckenförde, per la quale lo Stato moderno, secolarizzato, vive di presupposti che esso non può garantire, proprio perché ne sono la premessa, non la conseguenza. Tra questi presupposti indubbiamente la religione ha un posto non insignificante, sebbene non sia la sola, ma concorrano altre etiche e i vari altri saperi. Questo non significa, come paventato da alcuni, che in tal modo la religione venga invocata non per la salvezza dell'anima, ma per la fondazione o lo stabilimento dello Stato; né tale proposta si risolve in una nuova e strana alleanza tra l'altare e i Governi, in una sorta di moderno giurisdizionalismo per la quale lo Stato si trovi a tutelare con i propri mezzi valori e proposte che non gli competono. Dovrebbe essere ovvio che questo non significa nemmeno che i chierici occupino ruoli non loro, surrogandosi a compartecipi istituzionali della vita dello Stato, quasi moderne assemblee del secondo Stato.
È invece assolutamente vero che non sono politici i fondamenti della politica, proprio come non sono scientifici i fondamenti della scienza: potremmo dire, sviluppando la stessa linea di pensiero, che non sono nemmeno giuridici i fondamenti del diritto. E questo non per un postulato confessionale, come tale non necessariamente condivisibile, né per una sorta di verità metafisica, ma per il fatto che il procedere razionale, ossia deduttivo-sillogistico delle nostre dimostrazioni, che è l'unico sapere accettato nella moderna ragion pubblica, richiede l'accettazione previa di un ubi consistam teorico, delle premesse che non sono dimostrate, ma fondano ogni possibile dimostrazione.
E questo è, mi sia consentita l'espressione, il sempiterno "sgusciar fuori" della metafisica dalle dita della scienza che pretende di rinserrare la realtà nelle proprie interpretazioni. Questo dice semplicemente l'insopprimibilità della domanda sul "perché" delle cose - qui dell'ordinamento giuridico - che sempre si accompagna a quella, legittima, ma non unica, sul "come" del loro funzionamento.
Questa posizione non ha nulla di confessionale: al contrario, è la constatazione che i diritti umani sono il prodotto della nostra storia giuridica occidentale, che è così indelebilmente segnata dal cristianesimo. Eppure la storia del diritto non è storia della cristianità o del cristianesimo, e può perfino darsi che nella storia secolare dell'Europa le vicende dei diritti umani si siano sviluppate anche indipendentemente dalle Chiese, come se, almeno in alcuni settori, il lievito evangelico sia fermentato in forme inaspettate e al di là delle stesse istituzioni.
Così è sterile, almeno secondo il punto di vista da me sostenuto, dibattere sul problema se i diritti dell'uomo derivino e in che misura dalle radici cristiane dell'Europa: la domanda (o l'affermazione che vi è implicita) è significativamente posta in un contesto, come quello odierno, in cui con il tramonto delle ideologie pare tramontato anche l'unico modo di concepire i valori evitando di cadere nella pura sudditanza del mercato e delle sue logiche.
In realtà tale domanda nasce innegabilmente dalla paura, di fronte a quanti sono percepiti come nemici della nostra civiltà, e può in effetti sembrare equivoco vedere invocato il cristianesimo come collante o supporto di un'identità, quella europea, che sembra affondare, specie se in funzione oppositiva o non inclusiva, il che contraddice alla sua stessa cattolicità. Viene osservato giustamente che in tal modo si tematizza un uso politico della religione, in fondo un suo svilimento, o una miscomprensione del suo significato più profondo, diventando un "ingrediente necessario a ogni forma di governo".
Le religioni sono fonte di cultura, ossia di pensiero, anche giuridico, e queste operano a partire dal linguaggio e dalle categorie culturali in cui vivono, ma non sono esse stesse immediatamente cultura, e cultura giuridica in particolare. Il concetto di diritti dell'uomo - al di là del fatto se questi diritti siano dell'uomo o del cittadino, cioè se la politica venga prima o dopo del diritto, o se lo Stato preceda o no la società - non postula immediatamente quello di persona, che è concetto filosofico, nato all'interno del dibattito teologico cristiano, ma quello di soggetto di diritto, che è una creazione della cultura giuridica occidentale e che dice al contempo la coincidenza dell'individuo, concetto più propriamente empirico, con la soggettività giuridica, creazione propria del sapere giuridico.
Potremmo dire che esso declina in termini giuridici il concetto filosofico, e non giuridico, di persona come essere relazionale, lo dice in modo ad esso proprio, in particolare predicandolo - e questa è la novità - ad ogni individuo. E questo è stato reso possibile certamente dal cristianesimo: secondo la lezione di Hegel, se nel mondo orientale uno solo, il sovrano, è libero, in quello greco e romano lo sono solo alcuni, i migliori, in quello moderno invece, ossia in quello cristiano, tutti sono liberi, perché lo Spirito è dato a tutti e a ognuno.
D'altra parte è fuor di dubbio che il cristianesimo, precisamente attraverso l'epopea meravigliosa delle vicende degli ordini religiosi, ha reso possibile storicamente la stessa esperienza della democrazia e delle sue stesse tecniche elettorali. Potremmo dire che il cristianesimo è stato fonte di riflessione, cioè di cultura, permettendo di torcere il significato delle parole antiche, qui quella di "persona", riempiendolo di significati nuovi. Infatti, come tutte le religioni, anche il cristianesimo veicola simboli - qui quello dell'uomo come "figlio di Dio" - e questi "danno a pensare", cioè creano cultura, anche giuridica. Con le parole di Bernanos, con il cristianesimo ogni uomo, anche il più vile, vale il sangue di Dio: queste parole, messe insieme, esplodono al primo contatto, e di fatto hanno trasformato la cultura antica. E questo continua ad accadere: il lievito continua a fermentare.
Vorrei osservare che rendersi conto di tutto questo non significa necessariamente uscire dal positivismo giuridico, ma piuttosto assumerlo responsabilmente: è vero che le leggi sono dei "nomodotti", potenzialmente adatti ad assumere o a farvi scorrere qualsiasi contenuto - la storia lo dimostra dolorosamente - ma rimane vero che le stesse Costituzioni, e i diritti umani che vi sono precipitati, ci mostrano che all'interno della stessa prospettiva positivista non cadiamo necessariamente nel nichilismo giuridico. Anzi, i diritti dell'uomo, come la laicità delle istituzioni, il costituzionalismo, la promozione della cultura - compito certamente non assunto né dallo Stato né dai privati, con la conseguenza del panorama certamente spettrale che ci circonda - sono una risorsa contro di esso. In questo senso, la sfida oggi è di rimanere nella modernità senza rimpiangere un passato, facile solo perché da noi non vissuto, e di abitare la complessità che viviamo, evitando il pensiero unico o le irreali semplificazioni che un laicismo sempre più becero e gridato o un rinnovato clericalismo possono fare proprie.



(©L'Osservatore Romano - 16 maggio 2010)

Le procedure della Chiesa sugli abusi: i casi denunciati alle autorità civili, per i più gravi laicizzazione senza processo. Revisione di alcune norme

E’ stata pubblicata oggi sul sito della Santa Sede, www.vatican.va, nell'apposito Focus dedicato alla risposta della Chiesa alla questione degli abusi sui minori, una Guida alla comprensione delle procedure di base della Congregazione per la Dottrina della Fede (CDF) relative alle accuse di abusi sessuali. Non si tratta di un nuovo documento ma di una scheda riassuntiva di procedure operative già definite che possa essere di aiuto per laici e non canonisti. Le procedure si rifanno al Motu Proprio di Giovanni Paolo II "Sacramentorum sanctitatis tutela" del 30 aprile 2001 e al Codice di Diritto Canonico del 1983. Per quanto riguarda le procedure preliminari, la diocesi indaga su qualsiasi sospetto di abusi sessuali da parte di un religioso nei riguardi di un minore. Qualora il sospetto risulti verosimile, il caso viene deferito alla CDF. Il vescovo locale trasmette ogni informazione necessaria alla CDF ed esprime la propria opinione sulle procedure da seguire e le misure da adottare a breve e a lungo termine. Va sempre dato seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda la denuncia di tali crimini alle autorità civili. Nella fase preliminare e fino a quando il caso sia concluso, il vescovo può imporre misure precauzionali per la salvaguardia della comunità, comprese le vittime. In realtà, al vescovo locale è sempre conferito il potere di tutelare i bambini limitando le attività di qualsiasi sacerdote nella sua diocesi. Questo rientra nella sua autorità ordinaria, che è chiamato ad esercitare in qualsiasi misura necessaria per garantire che i bambini non ricevano danno, e questo potere può essere esercitato a discrezione del vescovo prima, durante e dopo qualsiasi procedimento canonico. Per quanto riguarda le procedure autorizzate dalla CDF, il dicastero studia il caso presentato dal vescovo locale e, dove necessario, richiede informazioni supplementari. La CDF può autorizzare il vescovo locale a istruire un processo penale giudiziario davanti a un Tribunale ecclesiale locale. Qualsiasi appello in casi simili dovrà essere eventualmente presentato ad un tribunale della CDF. La CDF può anche autorizzare il vescovo locale a istruire un processo penale amministrativo davanti ad un delegato del vescovo locale, assistito da due assessori. Il sacerdote accusato è chiamato a rispondere alle accuse e ha il diritto di presentare ricorso alla CDF contro un decreto che lo condanni ad una pena canonica. La decisione dei cardinali membri della CDF è definitiva. Qualora il sacerdote venga giudicato colpevole, i due procedimenti, giudiziario e amministrativo penale, possono condannarlo ad un certo numero di pene canoniche, fino alla dimissione dallo stato clericale. Anche la questione dei danni subiti può essere trattata direttamente durante queste procedure. In casi particolarmente gravi, in cui un religioso durante un processo è ritenuto colpevole di abusi sessuali su minori o in cui le prove siano schiaccianti, la CDF può scegliere di portare questo caso direttamente al Santo Padre con la richiesta che il Papa emetta un decreto di dimissione dallo stato clericale “ex officio”. Non esiste ricorso canonico dopo un simile decreto papale. La CDF porta al Santo Padre anche richieste di sacerdoti accusati che, consapevoli dei crimini commessi, chiedano di essere dispensati dagli obblighi del sacerdozio e chiedano di tornare allo stato laicale. Il Santo Padre concede tale richiesta per il bene della Chiesa (“pro bono Ecclesiae”). In quei casi in cui il sacerdote accusato abbia ammesso i propri crimini ed abbia accettato di vivere una vita di preghiera e penitenza, la CDF autorizza il vescovo locale ad emettere un decreto che proibisce o limita il ministero pubblico di tale sacerdote. Nel caso di violazione delle condizioni del decreto, non è esclusa la dimissione dallo stato clericale. Contro questi decreti è possibile il ricorso alla CDF. La decisione della CDF è definitiva. Infine, la Guida ricorda che la CDF ha in corso una revisione di alcuni articoli del "Motu Proprio Sacramentorum sanctitatis" tutela del 2001, al fine di aggiornarlo alla luce delle speciali facoltà riconosciute alla CDF dai Pontefici Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Le modifiche proposte e sotto discussione non cambieranno le suddette procedure.

Radio Vaticana

GUIDA PROCEDIMENTI CDF NEI CASI DI ABUSO SESSUALE


CITTA' DEL VATICANO, 12 APR. 2010 (VIS). Questa mattina è stata pubblicata sulla pagina web del Vaticano, nella sezione "Focus", una guida alla comprensione dei procedimenti adottati dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nei supposti casi di abusi sessuali su minori.

La legge applicabile è il Motu Proprio "Sacramentorum sanctitatis tutela" del 30 aprile 2001, corredata dal Codice di Diritto Canonico 1983. È una guida introduttiva che può essere utile per laici e non canonisti.

A: Procedure preliminari.

La diocesi locale indaga ogni accusa di abuso sessuale su un minore da parte di un chierico.

Se l'accusa ha una parvenza di verità, il caso è rinviato alla Congregazione per la Dottrina della Fede. Il Vescovo locale trasmette tutte le necessarie informazioni alla Congregazione per la Dottrina della Fede ed esprime il suo parere sulle procedure da seguire e le misure da adottare nel breve e lungo termine.

Si deve sempre seguire il diritto civile in materia di notifica di crimini alle autorità competenti.

Durante la fase preliminare e fino a quando il caso è concluso, il Vescovo può imporre misure cautelative per salvaguardare la comunità, comprese le vittime. Infatti, il Vescovo locale conserva sempre il potere di proteggere i bambini limitando le attività di un sacerdote nella sua diocesi. Questo fa parte della sua autorità ordinaria, che egli è incoraggiato ad esercitare in qualunque misura necessaria per assicurare che i bambini non subiscano danno. Tale potere può essere esercitato a discrezione del Vescovo, prima, durante e dopo ogni procedimento canonico.

B: Procedura autorizzata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede

La Congregazione per la Dottrina della Fede esamina il caso presentato dal Vescovo locale e chiede anche informazioni supplementari, se necessario.

La Congregazione per la Dottrina della Fede ha un certo numero di opzioni:

B1 Processi penali

La Congregazione per la Dottrina della Fede può autorizzare il Vescovo locale a condurre un processo penale giudiziario dinanzi ad un tribunale della Chiesa locale. I ricorsi in tal caso sono presentati ad un Tribunale della Congregazione per la Dottrina della Fede.

La Congregazione per la Dottrina della Fede può autorizzare il Vescovo locale a procedere ad un processo penale amministrativo davanti ad un delegato del Vescovo locale, assistito da due assistenti. Il sacerdote accusato è chiamato a rispondere alle accuse e al riesame delle prove. L'imputato ha il diritto di presentare ricorso alla Congregazione per la Dottrina della Fede contro un decreto di condanna ad una pena canonica. La decisione dei Cardinali membri della Congregazione per la Dottrina della Fede è definitiva.

Se il chierico è giudicato colpevole, i processi penali giudiziari ed amministrativi possono condannare un chierico a una serie di pene canoniche, la più grave delle quali è la dimissione dallo stato clericale. La questione del risarcimento dei danni può anche essere trattata direttamente durante questi procedimenti.

Casi B2 presentati direttamente al Santo Padre

In casi molto gravi in cui un processo civile penale ha trovato il chierico colpevole di abusi sessuali su minori o quando le prove sono schiaccianti, la Congregazione per la Dottrina della Fede può scegliere di portare il caso direttamente al Santo Padre con la richiesta che il Papa emani un decreto "ex officio" di dimissione dallo stato clericale. Non vi è alcun rimedio canonico contro tale decreto papale.

La Congregazione per la Dottrina della Fede porta anche al Santo Padre richieste da parte dei sacerdoti accusati che, consapevoli dei propri crimini, chiedono di essere dispensati dall'obbligo del sacerdozio e di tornare alla stato laicale. Il Santo Padre concede tali richieste per il bene della Chiesa ("Pro bono Ecclesiae").

B3 Provvedimenti Disciplinari

Nei casi in cui il sacerdote accusato ha ammesso i suoi crimini e ha accettato di vivere una vita di preghiera e di penitenza, la Congregazione per la Dottrina della Fede autorizza il Vescovo locale ad emettere un decreto che vieti o limiti il ministero pubblico di un tale sacerdote. Tali decreti sono imposti con un precetto penale che comporta una pena canonica per la violazione delle condizioni del decreto, non esclusa la dimissione dallo stato clericale. Il ricorso amministrativo alla Congregazione per la Dottrina della Fede è possibile contro decreti del genere. La decisione della Congregazione per la Dottrina della Fede è definitiva.

Revisione del Motu proprio

Da qualche tempo la Congregazione per la Dottrina della Fede ha intrapreso una revisione di alcuni articoli del Motu proprio "Sacramentorum Sanctitatis Tutela", al fine di aggiornare detto Motu Proprio del 2001, alla luce della facoltà speciali concesse alla Congregazione per la Dottrina della Fede dai Papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Le modifiche proposte in discussione non cambieranno le modalità di cui sopra (A, B1-B3).

Canonista spiega che per i preti pedofili la giustizia dello stato non basta

Roma. “La società contemporanea ritiene
che la giustizia dello stato sia l’unica
giustizia valida. Per questo motivo anche
oggi, quando osserva i presunti abusi
su minori commessi da sacerdoti, invoca
la giustizia dello stato. Beninteso: è
corretto che sia così. Gli uomini di chiesa
devono seguire le leggi dello stato in
cui vivono e a queste obbedire e probabilmente
devono farlo di più delle altre
persone. Ma ciò che oggi troppo spesso si
dimentica è che la giustizia può essere
applicata in diversi modi. Che, insomma,
non esiste soltanto la giustizia dello stato.
Lo sapevano bene nel medioevo quando
la giustizia si esercitava in famiglia
oppure nelle corporazioni. Per la chiesa
cattolica esiste la giustizia divina. Questa
si esercita, ad esempio, tramite la confessione
oppure nei processi interni che
prevedono certe pene che lo stato non
può dare. Processi che tengono conto di
tanti fattori come ad esempio lo scandalo
che il presunto colpevole ha recato al
popolo di Dio, tutte cose estranee alla
giustizia degli stati. In questo senso se è
vero che gli uomini di chiesa devono sottostare
alle leggi vigenti nei paesi in cui
abitano, è altrettanto vero che la giustizia
si può applicare in tanti modi. Lo disse
bene Beda il Venerabile nell’ottavo secolo
con un esempio ancora oggi valido: ‘Se
tutto il paese dice che una donna è adultera
io, in quanto giudice, devo condannarla.
Ma se in confessione questa stessa
donna mi dice che è innocente io devo
crederle e quindi assolverla”’.
A parlare col Foglio è don Davide Cito,
docente di Diritto penale canonico alla
Pontificia Università della Santa Croce.
Nel giorno in cui il Papa annuncia l’uscita
della lettera ai cattolici irlandesi a riguardo
degli abusi su minori compiuti da
sacerdoti (Benedetto XVI firmerà la lettera
venerdì prossimo), don Cito spiega,
da canonista, come la chiesa si comporta
sia quando deve accertare eventuali reati
di pedofilia commessi da preti, sia
quando questi stessi presunti reati diventano
occasione per assediare e diffamare
la chiesa. “Il rapporto tra stato e chiesa
è delicato” dice. “Occorre distinguere
bene i due piani. Lo dice del resto l’articolo
7 della Costituzione italiana che la
chiesa e lo stato sono indipendenti e sovrani
ognuno nel proprio ordine. Cosa significa
questa indipendenza? Significa
che la chiesa deve denunciare sempre
ogni cosa allo stato? Dipende. Per lo stato
italiano, ad esempio, l’obbligo della
denuncia c’è soltanto in caso di delitti
che attentano contro la personalità dello
stato. Ciò significa che se un prete commette
un abuso su un minore la chiesa
non deve denunciarlo? Certamente non
significa questa cosa. Ma, ad esempio, significa
che se un prete in confessionale
dice di aver commesso un abuso su un
minore il confessore non può, pena la
violazione del sigillo, denunciarlo. Può
cercare di convincere il prete ad autodenunciarsi
alla magistratura ordinaria,
ma non spetta a lui fare altrettanto”. Dice
ancora don Cito: “Occorre tenere conto
poi che vi sono delitti importanti per
la chiesa e non per lo stato. Ad esempio
la profanazione dell’eucaristia. Per la
chiesa è il delitto più grave mentre per lo
stato non ha alcun valore. Ci sono invece
alcuni delitti che sono rilevanti per entrambi,
è il caso dei reati di pedofilia. Ma
per quest’ultimo delitto già la chiesa prevede
pene importanti come ad esempio
la dimissione dallo stato clericale. Se poi
il prete è chiamato a rispondere del proprio
delitto anche davanti alla magistratura
ordinaria la chiesa non si oppone,
ma la sua giustizia la applica in parallelo,
su un piano distinto e diverso”.
Don Cito dice un’altra cosa: “La chiesa
cattolica conosce la pedofilia da tempo.
Benedetto XIV nel 1741 emanò la Costituzione
‘Il sacramento della penitenza’ dove
si diceva che il penitente deve denunciare
il sacerdote colpevole del delitto di avere
istigato a cose turpi. Il concetto venne approfondito
negli anni successivi fino a Giovanni
XXIII nell’istruzione ‘Crimen sollicitationis’
dove si parla esplicitamente del
delitto di pedofilia, chiamato crimen pessimum.
La Costituzione apostolica ‘Pastor
bonus’ del 1988 riconosceva che la competenza
dei delitti più gravi (tra questi gli
abusi sui minori da parte di chierici) sono
di competenza della Congregazione per la
dottrina della fede. E nel 2001 il motu proprio
‘Sacramentorum sanctitatis tutela’ ha
stabilito la procedura da utilizzare. Insomma
si tratta di un iter di lunga data che
conferma che la chiesa non ha mai avuto
la volontà di insabbiare nulla dal momento
che, essendo delitti odiosi, sono gravi offese
a Dio e ai fratelli”.

Paolo Rodari

© Copyright Il Foglio 18 marzo 2010

Il Papa: Verità e carità nella giustizia. Una guida chiara nelle questioni di nullità del matrimonio.

G li applausi scroscianti che mercoledì mattina hanno salutato nell’assemblea del Consiglio d’Europa la replica di Andreas Gross indicavano chiara­mente che non era in gioco un semplice confronto parlamenta­re. Del resto il socialista svizzero nella sua bozza di risoluzione con­tro le discriminazioni sulla base dei cosiddetti 'orientamento ses­suale' e 'genere' aveva chiara­mente sollecitato il ruolo del lobbying del movimento Lgbt (le­sbiche, gay, bisessuali, transes­suali) presso partiti e istituzioni. Peraltro il Palazzo d’Europa anco­ra ieri era qua e là tappezzato, a­scensori compresi, dalla locandi­na che invitava all’incontro (con tanto di piccolo rinfresco) di mar­tedì scorso organizzato da Amne­sty, Human rights watch e dalla re­gione europea dell’Associazione lesbiche, gay, bisessuali, trans&in­tersex (Ilga), alla presenza di Gross e di Holger Haibach del Partito po­polare, sul tema della risoluzione. Erano presenti anche esponenti della Moldavia e dell’Ucraina. È e­vidente che il Consiglio d’Europa è il campo privilegiato di una sor­ta di östpolitik del movimento gay, in quanto molti di questi Paesi non fanno parte dell’Unione Europea ed hanno forti radici cristiane. Il­ga, infatti, è una Ong che ha espli- citamente una funzione di lobbying insieme a quella di «e­ducare e informare le istituzioni europee, i media e l’intera so­cietà ». Del resto il memorandum di Gross cita a più riprese le iniziative del­le Ong o delle stituzioni pro Lgbt. Ad esempio si riferisce a quanto sostenuto da Amnesty nel 2009 a proposito di una norma sui mi­nori che in Lituania proibiva l’informazione e le discussioni sul­l’omosessualità nelle scuole. Se­condo Amnesty si sarebbe iscritta «in un clima crescente di intimi­dazione e di discriminazione pre­valente » delle persone Lgbt. Gross menziona anche la Fra, l’agenzia europea per i diritti fondamenta­­li, con sede a Vienna, che con re­golamento comunitario nel 2007 ha sostituito il precedente Osser­vatorio europeo dei fenomeni di razzismo e xenofobia, ma che ora sembra del tutto allineata sulle po­sizioni del movimento omoses­suale. L’Agenzia, infatti, nel suo ul­timo rapporto sull’omofobia ha sostenuto che tale fenomeno dan­neggerebbe nella Ue la salute e la carriera di 4 milioni di persone. Da notare che la parte del memoran­dum del socialista svizzero che vuole passare sotto esame le isti­tuzioni religiose, promuovendo quelle aperte alle richieste degli o­mosessuali e bocciando le altre, si basa sostanzialmente sul rappor­to Fra. Particolarmente encomia­ta la Chiesa svedese che ha parte­cipato al Gay pride, la parrocchia di Kallio a Helsinki che dal 1999 ha celebrato messe collegate ad un simile evento. Menzionata è an­che la Chiesa riformata olandese che ha esplicitamente riconosciu­to la tesi dell’orientamento ses­suale. Il memorandum della riso­luzione riporta con grande evi­denza il fatto che secondo l’agen­zia il lavoro di 'normalizzazione' portato avanti dal Consiglio d’Eu­ropa, «come la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, sono d’imporanza cruciale». Del resto anche Gross nel suo intervento in aula mercoledì ha detto che il suo rapporto è basato sui pronuncia­menti della Corte. «È in effetti – ha affermato – la trasformazione del­le sentenze della Corte in discor­so politico. Nessuno dovrebbe i­gnorare quanto progressisti sono i pronunciamenti della Corte». Il socialista svizzero, poi, sembra puntare ad una sorta di gramscia­no cambiamento del 'senso co­mune' degli europei egemoniz­zato dagli omosessuali. Infatti mercoledì ha sottolineato in re­plica : «La legge è sempre un po’ in ritardo rispetto alla cultura, ed in ogni modo è vero non si può cam­biare la cultura usando la legge. Ecco perché credo che la discus­sione dei cambiamenti alle leggi sia importante, perché in tal mo­do si possono influenzare i giudi­zi e cambiare le mentalità».

Diaconi e matrimonio, si cambia. Benedetto XVI interviene sul ruolo dei diaconi nella Chiesa e abolisce eccezioni a regole canoniche del matrimonio

di Giacomo Galeazzi
Tratto da Oltretevere, il blog di Giacomo Galeazzi, il 16 dicembre 2009

Con un Motu Proprio reso pubblico ieri, 'Omnium in Mentem' ('All'attenzione di tuttì'), Benedetto XVI ha aggiunto un breve paragrafo al Codice di Diritto Canonico per spiegare che i diaconi - uomini, anche sposati, dediti al servizio della Chiesa - non possono sostituirsi ai sacerdoti, né tanto meno ai vescovi, in ruoli di guida o di governo delle comunità cattoliche. Nel documento, Ratzinger elimina anche dal Codice una clausola che, involontariamente, aveva finito per avvantaggiare gli 'sbattezzati' nella disciplina del matrimonio.

Per quanto riguarda il diaconato, nel nuovo paragrafo si precisa che vescovi e sacerdoti "ricevono la missione e la facoltà di agire in persona di Cristo Capo", mentre i diaconi "vengono abilitati a servire il popolo di Dio nella diaconia della liturgia, della parola e della carità". Una frase tutt'altro che formale, dato il calo delle vocazioni sacerdotali e la confusione tra i ruoli che si genera in molte nazioni del mondo, dove i preti non riescono a "coprire" tutte le parrocchie.

Per quanto riguarda l'altro argomento, il codice del 1983 prevedeva che "é invalido il matrimonio tra due persone, di cui una sia battezzata nella Chiesa cattolica o in essa accolta, e non separata dalla medesima con atto formale, e l'altra non battezzata". Norma che, di fatto, esentava chi aveva fatto "atto formale" per separarsi dalla Chiesa dal seguire le norme valide per chi rimaneva nella Chiesa. Per cui, ad esempio, "i cattolici che avessero fatto un atto formale di abbandono della Chiesa cattolica non erano tenuti alla forma canonica di celebrazione per la validità del matrimonio - ha spiegato oggi mons. Francesco Coccopalmerio, presidente del Pontificio Consiglio per i testi legislativi - "né vigeva per loro l'impedimento di sposare non battezzati, né li riguardava la proibizione di sposare cristiani non cattolici". Ciò poteva tradursi, paradossalmente, in un aggiramento delle regole generali, nel caso che lo 'sbattezzato' decidesse di rientrare nelle file del cattolicesimo. Se in Italia lo 'sbattezzo' è una pratica poco diffusa, diversa è la situazione dei cristiani in molti paesi musulmani, o, caso completamente differente, dei cattolici tedeschi o austriaci che, per non devolvere parte delle loro tasse alla Chiesa, devono dichiarare formalmente la loro 'uscita' dalla struttura ecclesiastica, pur rimanendo spiritualmente legati alla loro fede di nascita.

Motu proprio “Omnium in mentem” per la modifica del Codice di Diritto Canonico. Sulle questioni riguardanti il diaconato e il matrimonio

CITTA' DEL VATICANO, martedì, 15 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo del Motu proprio di Benedetto XVI “Omnium in mentem” sulla modifica di alcuni canoni del Codice di Diritto Canonico relativi a due questioni: il diaconato e il matrimonio.



* * *

La Costituzione Apostolica Sacrae disciplinae leges, promulgata il 25 gennaio 1983, ha richiamato all’attenzione di tutti che la Chiesa, in quanto comunità allo stesso tempo spirituale e visibile, e ordinata gerarchicamente, ha bisogno di norme giuridiche «affinché l’esercizio delle funzioni a lei affidate da Dio, specialmente quella della sacra potestà e dell’amministrazione dei sacramenti, possa essere adeguatamente organizzato». In tali norme è necessario che risplenda sempre, da una parte, l’unità della dottrina teologica e della legislazione canonica e, dall’altra, l’utilità pastorale delle prescrizioni, mediante le quali le disposizioni ecclesiastiche sono ordinate al bene delle anime.

Al fine di garantire più efficacemente sia questa necessaria unità dottrinale, sia la finalità pastorale, talvolta la suprema autorità della Chiesa, dopo aver ponderato le ragioni, decide gli opportuni mutamenti delle norme canoniche, oppure introduce in esse qualche integrazione. Questa è la ragione che Ci induce a redigere la presente Lettera, che riguarda due questioni.

Anzitutto, nei canoni 1008 e 1009 del Codice di Diritto Canonico sul sacramento dell’Ordine, si conferma l’essenziale distinzione tra il sacerdozio comune dei fedeli ed il sacerdozio ministeriale e, nello stesso tempo, si evidenzia la differenza tra episcopato, presbiterato e diaconato. Or dunque, dopo che, sentiti i Padri della Congregazione per la Dottrina della Fede, il nostro venerato Predecessore Giovanni Paolo II stabilì che si dovesse modificare il testo del numero 1581 del Catechismo della Chiesa Cattolica, al fine di riprendere più adeguatamente la dottrina sui diaconi della Costituzione dogmatica Lumen gentium (n. 29) del Concilio Vaticano II, anche Noi riteniamo si debba perfezionare la norma canonica che riguarda questa stessa materia. Pertanto, sentito il parere del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, stabiliamo che le parole dei suddetti canoni siano modificate come successivamente indicato.

Inoltre, poiché i sacramenti sono gli stessi per tutta la Chiesa, è di competenza unicamente della suprema autorità approvare e definire i requisiti per la loro validità, e anche determinare ciò che riguarda il rito che bisogna osservare nella celebrazione dei medesimi (cfr. can. 841), cose tutte che certamente valgono anche per la forma che deve essere osservata nella celebrazione del matrimonio, se almeno una delle parti sia stata battezzata nella Chiesa cattolica (cfr. cann. 11 e 1108).

Il Codice di Diritto Canonico stabilisce tuttavia che i fedeli, i quali si sono separati dalla Chiesa con "atto formale", non sono tenuti alle leggi ecclesiastiche relative alla forma canonica del matrimonio (cfr. can. 1117), alla dispensa dall’impedimento di disparità di culto (cfr. can. 1086) e alla licenza richiesta per i matrimoni misti (cfr. can. 1124). La ragione e il fine di questa eccezione alla norma generale del can. 11 aveva lo scopo di evitare che i matrimoni contratti da quei fedeli fossero nulli per difetto di forma, oppure per impedimento di disparità di culto.

Tuttavia, l’esperienza di questi anni ha mostrato, al contrario, che questa nuova legge ha generato non pochi problemi pastorali. Anzitutto è apparsa difficile la determinazione e la configurazione pratica, nei casi singoli, di questo atto formale di separazione dalla Chiesa, sia quanto alla sua sostanza teologica sia quanto allo stesso aspetto canonico. Inoltre sono sorte molte difficoltà tanto nell’azione pastorale quanto nella prassi dei tribunali. Infatti si osservava che dalla nuova legge sembravano nascere, almeno indirettamente, una certa facilità o, per così dire, un incentivo all’apostasia in quei luoghi ove i fedeli cattolici sono in numero esiguo, oppure dove vigono leggi matrimoniali ingiuste, che stabiliscono discriminazioni fra i cittadini per motivi religiosi; inoltre essa rendeva difficile il ritorno di quei battezzati che desideravano vivamente di contrarre un nuovo matrimonio canonico, dopo il fallimento del precedente; infine, omettendo altro, moltissimi di questi matrimoni diventavano di fatto per la Chiesa matrimoni cosiddetti clandestini.

Tutto ciò considerato, e valutati accuratamente i pareri sia dei Padri della Congregazione per la Dottrina della Fede e del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, sia anche delle Conferenze Episcopali che sono state consultate circa l’utilità pastorale di conservare oppure di abrogare questa eccezione alla norma generale del can. 11, è apparso necessario abolire questa regola introdotta nel corpo delle leggi canoniche attualmente vigente.

Stabiliamo quindi di eliminare nel medesimo Codice le parole: "e non separata da essa con atto formale" del can. 1117, "e non separata da essa con atto formale" del can. 1086 § 1, come pure "e non separata dalla medesima con atto formale" del can. 1124.

Pertanto, avendo sentito in merito la Congregazione per la Dottrina della Fede ed il Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi e chiesto anche il parere ai Nostri Venerabili Fratelli Cardinali di S.R.E. preposti ai Dicasteri della Curia Romana, stabiliamo quanto segue:

Art. 1. Il testo del can. 1008 del Codice di Diritto Canonico sia modificato in modo che d’ora in poi risulti così:

"Con il sacramento dell’ordine per divina istituzione alcuni tra i fedeli, mediante il carattere indelebile con il quale vengono segnati, sono costituiti ministri sacri; coloro cioè che sono consacrati e destinati a servire, ciascuno nel suo grado, con nuovo e peculiare titolo, il popolo di Dio".

Art. 2. Il can. 1009 del Codice di Diritto Canonico d’ora in poi avrà tre paragrafi, nel primo e nel secondo dei quali si manterrà il testo del canone vigente, mentre nel terzo il nuovo testo sia redatto in modo che il can. 1009 § 3 risulti così:

"Coloro che sono costituiti nell’ordine dell’episcopato o del presbiterato ricevono la missione e la facoltà di agire nella persona di Cristo Capo, i diaconi invece vengono abilitati a servire il popolo di Dio nella diaconia della liturgia, della parola e della carità".

Art. 3. Il testo del can. 1086 § 1 del Codice di Diritto Canonico viene così modificato:

"È invalido il matrimonio tra due persone, di cui una sia battezzata nella Chiesa cattolica o in essa accolta, e l’altra non battezzata".

Art. 4. Il testo del can. 1117 del Codice di Diritto Canonico viene così modificato:

"La forma qui sopra stabilita deve essere osservata se almeno una delle parti contraenti il matrimonio è battezzata nella Chiesa cattolica o in essa accolta, salve le disposizioni del can. 1127 § 2".

Art. 5. Il testo del can. 1124 del Codice di Diritto Canonico viene così modificato:

"Il matrimonio fra due persone battezzate, delle quali una sia battezzata nella Chiesa cattolica o in essa accolta dopo il battesimo, l’altra invece sia iscritta a una Chiesa o comunità ecclesiale non in piena comunione con la Chiesa cattolica, non può essere celebrato senza espressa licenza della competente autorità".

Quanto abbiamo deliberato con questa Lettera Apostolica in forma di Motu Proprio, ordiniamo che abbia fermo e stabile vigore, nonostante qualsiasi cosa contraria anche se degna di particolare menzione, e che venga pubblicato nel commentario ufficiale Acta Apostolicae Sedis.

Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 26 del mese di ottobre dell’anno 2009, quinto del Nostro Pontificato.

BENEDICUS PP XVI



[Traduzione non ufficiale dal testo in latino distribuita dalla Sala Stampa vaticana]



PRESENTAZIONE DEL MOTU PROPRIO OMNIUM IN MENTEM

Il Motu proprio "Omnium in mentem"

Le ragioni di due modifiche

Il Motu proprio "Omnium in mentem" che oggi viene pubblicato contiene alcune modifiche da apportare al Codice di Diritto Canonico, che da tempo erano sottoposte allo studio dei Dicasteri della Curia romana e delle Conferenze episcopali. Le variazioni riguardano due diverse questioni, e cioè: adeguare il testo dei canoni che definiscono la funzione ministeriale dei Diaconi al relativo testo del Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 1581); e sopprimere, in tre canoni concernenti il Matrimonio, un inciso che l’esperienza ha rilevato inidoneo. Nei cinque articoli che contiene il presente Motu proprio viene indicata la nuova redazione dei canoni modificati.

La prima variazione riguarda il testo dei canoni 1008 e 1009 del Codice di Diritto Canonico che si riferiscono ai sacri ministri. Nell’esporre "gli effetti del Sacramento dell’Ordine", la prima edizione del Catechismo della Chiesa Cattolica affermava che: "Per ordinationem recipitur capacitas agendi tamquam Christi legatus, Capitis Ecclesiae, in eius triplici munere sacerdotis, prophetae et regis" (secondo periodo del n. 1581). Successivamente, però, per evitare di estendere al grado del Diaconato la facoltà di "agere in persona Christi Capitis", che è riservata soltanto ai Vescovi ed ai Presbiteri, la Congregazione per la Dottrina della Fede ritenne necessario modificare, nell’edizione tipica, la redazione di questo n. 1581 nel modo seguente: "Ab eo (= Christo) Episcopi et presbiteri missionem et facultatem agendi in persona Christi Capitis accipiunt, diaconi vero vim populo Dei serviendi in ‘diaconia’ liturgiae, verbi et caritatis". Il 9 ottobre 1998, il Servo di Dio Giovanni Paolo II approvò questa modifica e dispose che ad essa si adeguassero anche i canoni del Codice di Diritto Canonico.

Il Motu proprio "Omnium in mentem", quindi, modifica il testo del can. 1008 CIC che, in riferimento indistinto ai tre gradi dell’Ordine, non affermerà più che il sacramento conferisce la facoltà di agire nella persona di Cristo Capo, ma si limiterà ad affermare, in maniera più generica, che chi riceve l’Ordine Sacro è destinato a servire il popolo di Dio per un nuovo e peculiare titolo.

La distinzione che a questo riguardo esiste fra i tre gradi del sacramento dell’Ordine viene adesso ripresa nel can. 1009 CIC con l’aggiunta di un terzo paragrafo nel quale viene precisato che il ministro costituito nell’Ordine dell’Episcopato o del Presbiterato riceve la missione e la facoltà di agire in persona di Cristo Capo, mentre i Diaconi ricevono l’abilitazione a servire il Popolo di Dio nella diaconia della liturgia, della Parola e della Carità.

Non è stato necessario, invece, introdurre alcuna modifica nei correlativi canoni 323 § 1; 325 e 743 del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali perché in tali norme non è adoperata l’espressione "agere in persona Christi Capitis".

L’altra modifica che introduce il Motu proprio "Omnium in mentem" riguarda la soppressione della clausola "actus formalis defectionis ab Ecclesia Catholica" nei canoni 1086 § 1, 1117 e 1124 del Codice di Diritto Canonico, che dopo un lungo studio è stata ritenuta non necessaria e inidonea. Si tratta di un inciso, che non appartiene alla tradizione canonica e non è riportata nemmeno nel Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, con il quale si intendeva stabilire una eccezione alla regola generale del can. 11 CIC circa l’obbligatorietà delle leggi ecclesiastiche, col proposito di facilitare l'esercizio dello "ius connubii" a quei fedeli che, a causa del loro allontanamento dalla Chiesa, difficilmente avrebbero osservato la legge canonica che esige una forma per la validità del loro matrimonio.

Le difficoltà di interpretazione e di applicazione di detta clausola, però, sono emerse in diversi ambiti. In questo senso, l’allora Pontificio Consiglio per l’Interpretazione dei Testi legislativi esaminò la convenienza di sopprimere dai tre canoni l’inciso citato. La questione fu trattata inizialmente nella Sessione Plenaria del 3 giugno 1997. I Padri della Plenaria approvarono la formula di un dubium e il relativo responsum per realizzare eventualmente una Interpretazione autentica sulla precisa portata giuridica di detta clausola, ma ritennero opportuno procedere prima a una consultazione delle Conferenze episcopali circa le esperienze, positive e negative, provenenti da queste prescrizioni, al fine di poter valutare tutte le circostanze prima di prendere una decisione.

La consultazione delle Conferenze episcopali è avvenuta nei due anni successivi e al Pontificio Consiglio sono pervenute una cinquantina di motivate risposte, rappresentative dei cinque Continenti, compresi tutti i Paesi con un episcopato rilevante come numero. In alcuni luoghi non c’erano significative esperienze in argomento; nella maggioranza, però, emergeva il bisogno di un chiarimento sulla portata precisa di questo inciso o, meglio, si desiderava la sua completa soppressione. A questo proposito vennero segnalate motivazioni coincidenti, provenienti dall’esperienza giuridica: la convenienza di non avere in questi casi un trattamento diverso da quello dato alle unioni civili dei battezzati che non fanno alcun atto formale di abbandono; la necessità di mostrare con coerenza l’identità "matrimonio-sacramento"; il rischio di favorire matrimoni clandestini; le ulteriori ripercussioni nei paesi dove il Matrimonio canonico possiede effetti civili, e così via.

I risultati della consultazione vennero poi sottoposti a una nuova sessione Plenaria del Pontificio Consiglio, tenutasi il 4 giugno 1999, che approvò all’unanimità di proporre la soppressione del menzionato inciso, e il Servo di Dio Giovanni Paolo II confermò tale decisione nell’Udienza del 3 luglio 1999, incaricando di preparare l’opportuno testo normativo.

Nel frattempo, la soppressione di questo inciso riguardante la disciplina canonica del Matrimonio è stata messa in collegamento con una questione del tutto diversa, che richiedeva però opportuno chiarimento, e riguardava esclusivamente alcuni Paesi centro-europei: si trattava dell’efficacia ecclesiale dell’eventuale dichiarazione fatta da un cattolico davanti al funzionario civile delle tasse di non appartenere alla Chiesa cattolica e, in conseguenza, di non essere tenuto a versare la cosiddetta tassa per il culto.

A questo concreto proposito e, quindi, in ambito diverso da quello strettamente matrimoniale al quale faceva riferimento il summenzionato inciso nei tre canoni del Codice, venne avviato uno studio da parte del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi in collaborazione con la Congregazione per la Dottrina della Fede per precisare quali siano i requisiti essenziali della manifestazione di volontà di defezione dalla Chiesa cattolica. Tali condizioni di efficacia sono state indicate nella Lettera Circolare ai Presidenti delle Conferenze Episcopali che, con approvazione del Santo Padre Benedetto XVI, il Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi inviò il 13 marzo 2006 (cfr. Communicationes XXXVIII (2006), 170-184).

Pur avendo obiettivi diversi dal presente Motu proprio, la pubblicazione della Lettera Circolare contribuì a rafforzare il convincimento circa l’opportunità di sopprimere la suddetta clausola nei canoni sul Matrimonio. Ciò, appunto, viene fatto nel presente documento pontificio. Il testo di questo Motu proprio è stato studiato dalla Plenaria del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, presieduta nell’occasione dal Cardinale Segretario di Stato, in data 16 giugno 2009.

La rilevanza concreta della modifica dei canoni 1086 § 1, 1117 e 1124 del Codice riguarda, dunque, l’ambito matrimoniale. Dall’entrata in vigore del Codice di Diritto Canonico nell’anno 1983 al momento dell’entrata in vigore di questo Motu proprio, i cattolici che avessero fatto un atto formale di abbandono della Chiesa cattolica non erano tenuti alla forma canonica di celebrazione per la validità del matrimonio (can. 1117 CIC), né vigeva per loro l’impedimento di sposare non battezzati (disparità di culto, can. 1086 § 1 CIC), né li riguardava la proibizione di sposare cristiani non cattolici (can. 1124 CIC). Il menzionato inciso inserito in questi tre canoni rappresentava una eccezione di diritto ecclesiastico, ad un’altra più generale norma di diritto ecclesiastico, secondo la quale tutti i battezzati nella Chiesa cattolica o in essa accolti sono tenuti all’osservanza delle leggi ecclesiastiche (can. 11 CIC).

Dall’entrata in vigore del nuovo Motu proprio, quindi, il can. 11 del Codice di Diritto Canonico riacquista vigore pieno per quanto riguarda il contenuto dei canoni ora modificati, anche nei casi in cui sia avvenuto un abbandono formale. Di conseguenza, per regolarizzare successivamente eventuali unioni fatte nella non osservanza di queste regole si dovrà far ricorso, sempre che sia possibile, ai mezzi ordinari offerti per questi casi dal Diritto Canonico: dispensa dell'impedimento, sanazione, e così via.

In conformità con quanto stabilito dal can. 8 del Codice di Diritto Canonico, il Motu proprio "Omnium in mentem" sarà formalmente promulgato con la pubblicazione negli Acta Apostolicae Sedis ed entrerà "in vigore compiuti tre mesi dal giorno apposto al numero degli Acta".

+ Francesco Coccopalmerio
Presidente del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi