ROMA, sabato, 27 marzo 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'intervento pronunciato il 24 marzo dal Cardinale Carlo Caffarra, Arcivescovo metropolita di Bologna, intervenendo al X Forum internazionale dei giovani, promosso per iniziativa del Pontificio Consiglio dei laici e svoltosi a Rocca di Papa.
 
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Dividerò la mia riflessione in due parti. Nella prima, vorrei molto semplicemente presentare la visione cristiana dell’amore; nella seconda richiamare l’attenzione su ciò che oggi insidia questa visione nella cultura occidentale e nel cuore di un giovane.
1. La visione cristiana dell’amore
Inizio  da un testo di K. Wojtyla desunto dalla sua opera drammatica La  bottega dell’orefice: «Non esiste nulla che più dell’amore occupi  sulla superficie della vita umana più spazio, e non esiste che più  dell’amore sia sconosciuto e misterioso. Divergenza tra quello che si  trova sulla superficie e quello che è il mistero dell’amore: ecco la  fonte del dramma. Questo è uno dei grandi drammi dell’esistenza umana»  [In Tutte le opere letterarie, Bompiani ed., Milano 2001, pag.  821].
Noi vogliamo questa mattina entrare in questo “grande  dramma dell’esistenza umana”, per scoprire la via che conduce l’uomo  fuori dalla “divergenza” e dalla dilacerazione fra “quello che si trova  sulla superficie” e quello che è “il mistero dell’amore”. Vorrei  percorrere con voi un vero e proprio itinerario  della mente verso la  verità e la bellezza dell’amore.
1,1. - Il punto di partenza è  singolare ed in un certo senso sconvolgente. Quando la proposta  cristiana parla di amore, non parla in primo luogo e principalmente  dell’uomo, di un vissuto umano. Parla dello stesso mistero di Dio. Il  soggetto del discorso cristiano circa la verità e la bellezza dell’amore  non è l’uomo ma Dio stesso. Alla domanda “che cosa è l’amore”, la fede  cristiana risponde: è la condotta di Dio verso l’uomo e la radice di  questa condotta. La narrazione di questa condotta, e quindi la  rivelazione della sua intima verità e bellezza, è la S. Scrittura; ed il  vertice di questa rivelazione è Gesù Cristo.
C’è la possibilità  per la persona umana di contemplare la bellezza di questo amore e di  conoscerne la verità? In realtà, c’è una sola possibilità, una sola via  che ci porta alla conoscenza della verità dell’amore: sperimentare  l’amore.
L’esperienza dell’amore di Dio  per l’uomo in Cristo è  ciò che mi consente di conoscerlo. Questa esperienza ha come due  aspetti. Dal punto di vista dell’oggetto, l’amore di Dio in Cristo deve  mostrarsi indirizzato a me [«mi ha amato e ha dato se stesso  per me»].  Dal punto di vista del soggetto deve esserci una attitudine di attesa,  di domanda [la S. Scrittura, la narrazione obiettiva dell’amore di Dio,  termina con un’invocazione: «vieni»]. «La risposta della ragione  all’avvenimento appare ultimamente come una domanda, per l’indigenza  essenziale che la caratterizza nella sua stessa vitalità: vieni!» [C. Di  Martino, La conoscenza è sempre un avvenimento, Mondadori  Università, Milano 2009, pag. 33].
Alla domanda pertanto se  l’uomo possa conoscere la verità dell’amore potrei rispondere dicendo  che l’unica possibilità è sentirsi amato. Teologicamente rispondo:  l’unica possibilità è ricevere in sé lo Spirito Santo.
Esiste  però un “luogo” in cui il mistero dell’amore di Dio in Cristo si dona  all’uomo? Esiste, ed è la celebrazione dell’Eucarestia. Tommaso arriverà  quindi a scrivere: «in questo sacramento è la sintesi di tutto il  mistero della nostra salvezza» [3,83,4]. La conoscenza per esperienza  [non è possibile un’altra] ha la sua sorgente nella partecipazione  all’Eucarestia. È una conoscenza mediante l’Eucarestia.
L’amore  che Dio in Cristo nutre per l’uomo per farsi capire ha bisogno di dirsi  in un linguaggio umano. E così è accaduto. Dio ha detto all’uomo il suo  amore servendosi del linguaggio dell’amore coniugale, dell’amore parentale  [paterno e materno], dell’amore di amicizia.
Questo  triplice linguaggio è però come attraversato da un significato che lo  trascende smisuratamente. Questo triplice linguaggio veicola un  significato che lo rende indicativo di una realtà che non ha paragoni  [«chi è pari al Signore nostro Dio?»]: la gratuità, la pura gratuità.  È questa la cifra propria dell’amore di Dio. Tommaso dice profondamente  che il primo dono che Dio ci ha fatto è di aver deciso di amarci; e  tutti gli altri doni sono una conseguenza. E decidere di amarci  significa decidere di comunicare Se stesso all’uomo, la sua Vita stessa.
Tuttavia  “gratuità” non significa “indifferenza alla risposta” dell’uomo: un Dio  che non mi desidera e veramente non si appassiona per la mia risposta,  non mi amerebbe veramente. L’amore di Dio in  Cristo è gratuità e  desiderio.
1,2. - La Rivelazione cristiana quando parla  dell’amore non parla però soltanto dell’amore di Dio. Come scrive  Benedetto XVI, «la fede biblica non costruisce un mondo parallelo o un  mondo contrapposto rispetto a quell’originario fenomeno umano che è  l’amore, ma accetta tutto l’uomo intervenendo nella sua ricerca di amore  per purificarla, dischiudendogli al contempo nuove dimensioni» [Lett.  Enc. Deus caritas est 8].
Questo testo è assai importante.  Esso fa tre affermazioni fondamentali: l’amore è un fenomeno umano  originario ; la rivelazione biblica ha una funzione purificatrice; la  medesima ha una funzione elevante. Brevemente: la capacità di amore è  costitutiva della persona umana, ma essa ha bisogno di essere sanata ed  elevata.
Esiste un testo di S. Basilio che ci può aiutare ad una  comprensione profonda di tutto questo. Esso dice: «abbiamo insita in  noi, fin dal primo momento in cui siamo plasmati, la capacità di amare. E  la prova di questo non viene dall’esterno, ciascuno può rendersene  conto da sé e dentro di sé. Di ciò che è buono infatti proviamo  naturalmente desiderio» [Le regole, Ed. Qiqaion, Bose 1993, pag.  79]. L’esperienza che ciascuno ha in sé dell’amore è di un desiderio, di  un movimento [ad-petitus] verso ciò che è buono, verso ciò che è bello.  Il tempo a disposizione non mi consente di approfondire questa  definizione di amore – l’amore è il desiderio naturale del bene – come  meriterebbe. Mi limito ad alcune osservazioni fondamentali.
Quando  si dice “bene” [«di ciò che è buono … proviamo naturalmente  desiderio»]si intende qualcosa/qualcuno che ha in sé una perfezione tale  [morale, estetica, fisica …] da non lasciarci indifferenti, da attirare  la nostra attenzione, da suscitare in noi e motivare una risposta [von  Hildebrandt la chiama Beruehrens-beziehung]. Il nostro desiderio e  sempre risposta a qualcosa/qualcuno che ha in sé ragione di essere  desiderato.
Quando però parliamo di amore intendiamo la risposta  [nel senso suddetto] di una persona ad una persona: è una relazione  inter-personale. Ma nel senso forte: non solo a causa dei valori  [morali, estetici, fisici…] posseduti dalla persona, ma è relazione alla  persona stessa come tale.  È una risposta spirituale, che  implica cioè la conoscenza-valutazione [del valore] della persona: non  del tipo stimolo-risposta, bisogno-soddisfazione. È una risposta del cuore,  eminentemente affettiva: per dire con verità “amo” non basta dire  “voglio amare”. È un coinvolgimento della persona trasportata verso  l’altra.
E quindi è una risposta che implica il desiderio unitivo;  che desidera la felicità della persona amata; ed anela ad essere  corrisposto. Platone per primo ha visto profondamente che l’amore – lo  possiamo ora definire: la risposta affettiva al valore [della], che è la  persona dell’altro, fatta propria dalla libertà – ha in sé un  enigmatico paradosso: è figlio di Póros, la ricchezza, e di Penía, la  povertà. Il paradosso consiste nella tensione insita nell’amore al dono  di sé, da una parte; e dall’altra,  nella tensione che l’altro  corrisponda, che l’altro accetti il dono, vi corrisponda donandosi.  L’intenzione oblativa sembra contrariare l’intenzione possessiva.
Il  S. Padre scrive, come abbiamo visto, che tutto l’uomo è accettato:  dunque ambedue le intenzioni sono costitutive dell’amore umano. Nessuna  delle due va negata. È questa dialettica fra oblazione e possesso che  costituisce il punto di aggancio nell’uomo della rivelazione biblica  dell’amore con l’amore in quanto originario fenomeno umano. Per  comprendere ciò partiamo da un testo paolino che recita: «la speranza  non delude, poiché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori  mediante lo Spirito Santo che ci è stato donato» [Rom 5,5].
L’amore di Dio non significa: l’amore con cui noi amiamo Dio; ma  significa: con cui Dio ama noi. Si parla dunque dell’amore divino  stesso. Di esso l’Apostolo dice che è stato «riversato nei nostri  cuori». Dio fa “sentire” l’amore – la sua misura e la sua qualità – che  nutre per noi: ce ne dona l’esperienza. Non solo nel senso che ce lo fa  conoscere: il testo non dice lo “riversa nella mente”. Ma nel senso che  lo fa sentire in quello che è l’organo proprio dell’amore, il cuore, che  è la sintesi nell’io-persona di intelligenza, libertà, affettività. Il  cuore dell’uomo diventa partecipe dell’amore con cui Dio ama.
 
Questa partecipazione è dovuta ad un fatto: il dono dello  Spirito Santo che viene ad abitare nel cuore. È la divina persona dello  Spirito la nostra partecipazione allo stesso amore con cui Dio ama. Nel  senso che noi diventiamo partecipi dell’amore divino in quanto lo  Spirito Santo diventa “possessore” del nostro cuore, della nostra  capacità di amare. È questa “spiritualizzazione” che purifica il nostro  amore e gli dischiude nuove dimensioni: tutto l’umano è salvato,  custodito ed elevato. S. Ireneo scrive: «gli uomini sono spirituali  grazie alla partecipazione dello Spirito, ma non grazie alla privazione  ed eliminazione della carne» [adv Haereses V, 6; SCh 153, pag. 74].
Il  desiderio di possedere la persona umana è integrato nel movimento di  auto-donazione nella medesima. Non è negato, ma custodito nella sua  verità più profonda. Concludo questo primo punto. Due sono le dimensioni  essenziali dell’idea cristiana di amore. Essa esprime il volto del  mistero di Dio: Dio  nel suo mistero e nella rivelazione che fa di  Se è amore. Essa esprime il mistero dell’uomo: la persona umana è  resa capace di amare come Dio stesso ama, senza essere “privata della  carne”.
2. L’amore insidiato
In questa seconda  parte della mia riflessione vorrei riflettere, brevemente, su ciò che  insidia oggi il cuore del giovane impedendogli, o comunque rendendo  assai difficoltosa la comprensione della visione cristiana dell’amore.  Perché l’annuncio cristiano dell’amore trovi il terreno in cui  radicarsi, la persona che l’ascolta deve possedere una vera coscienza di  se stessa e vivere una conseguente esperienza di libertà. Fra le due  realtà – coscienza di sé e modo di essere liberi – c’è una connessione  inscindibile e come una sorta di reciproca inabitazione.
Ora la  coscienza di sé nel  mondo occidentale è andata progressivamente  oscurandosi, nel senso che il «sé»  si è come nascosto agli occhi della  coscienza in ciò che ha di più nobile e proprio. Che cosa è accaduto?  Che «vittime dello scientismo, non crediamo più in noi stessi, chi e che  cosa siamo, quando ci lasciamo persuadere di essere soltanto macchine  per la diffusione dei nostri geni, quando consideriamo la nostra ragione  soltanto come prodotto di un adattamento evolutivo, che non ha nulla a  che fare con la verità» [R. Spaemann]. La soggettività sostanziale della  persona è andata progressivamente “rottamata”.
La prima  conseguenza di questa “rottamazione del’io” è la deformazione della  relazione con l’altro: una relazione ridotta a stimolo-risposta. L’io  rottamato, direbbe Hume, è incapace di fare un passo oltre se stesso. Il  segno più evidente di questa condizione è la riduzione della libertà  a spontaneità.
Esiste una differenza sostanziale fra l’una e  l’altra: la libertà non è una spontaneità … più spontanea! È un modo di  agire essenzialmente diverso. Il tema esigerebbe una lunga riflessione.  Mi limito a due riflessioni.
Ciò che distingue agire libero e  agire spontaneo è che il primo rivela la trascendenza della persona sul  suo agire e nel suo agire. È la persona che decide di agire, al di sopra  ed anche contro ciò che accade nella sua psiche. La nostra lingua  italiana ha due espressioni che ci aiutano a capire: «io voglio» ha un  significato profondamente diverso da «mi viene voglia». Col primo denoto  l’esperienza della persona che decide auto-determinandosi; nel secondo  denoto piuttosto un essere-determinati ad agire da qualcosa d’altro.
La  seconda riflessione per cogliere la diversità fra libertà e spontaneità  è ancora più importante. L’atto del volere [«io voglio»] è sempre  intenzionale: è cioè rivolto ad un oggetto [per es. “voglio studiare”].  La persona si determina ad agire poiché riconosce in ciò che vuole  [“studiare piuttosto che divertirsi”] una bontà intrinseca all’oggetto  voluto, un “valore” suo proprio [“è bene che io ora studi”].  L’autodeterminazione e la trascendenza della persona è fondata e  condizionata dalla conoscenza, dalla  relazione della persona con la  verità sul bene. La radice di tutta la  libertà, scrisse S. Tommaso, è  il giudizio della ragione. L’affermazione teorica e pratica della  libertà; la costituzione dell’io che agisce; la capacità dell’uomo di  conoscere la verità circa il bene, stanno e cadono insieme.
Proviamo  ora a riassumere quanto detto finora. Mi ero chiesto: che cosa insidia  oggi la capacità di un giovane di ascoltare la proposta cristiana  dell’amore? Ho risposto: la rottamazione cui è stato sottoposto il suo  io. Una rottamazione che ha deformato la relazione dell’altro,  riducendola ad una relazione spontanea e non libera: “mi viene voglia di  relazionarmi a …”; e non “io voglio relazionarmi a …”. E l’amore può  essere solo libero; solo la persona libera è capace di amare.
Non  procedo oltre su questi temi, poiché altri li riprenderanno, e vengo  alla conclusione.
Da ciò che ho detto si deve concludere che il  destino della proposta cristiana è la totale estraneità dalla coscienza  che di sé ha l’uomo in Occidente? Si e no.
L’apostolo Paolo e  l’apostolo Giovanni insistono con grande forza sulla estraneità, anzi  sul contrasto che vige fra il Vangelo e il mondo. Ma quando dicono  questo, i due apostoli pensano che dentro alla creazione si è costituita  un anti-creazione. E l’uomo nasce collocato nella seconda: nasce  radicato nella solidarietà ingiusta con Adamo.
Ma è questo il  vero uomo? o questi non è piuttosto l’uomo estraneo a se stesso? La  proposta cristiana è rivolta all’uomo perché ritorni nella verità della  sua prima origine. È dono di grazia che rigenera, poiché  è l’uomo in  Cristo che non “vive più per se stesso” [cfr. Rom  14,8], che diventa  capace di amare. Alla fine: proporre l’amore è proporre di convertirsi a  Cristo e di vivere in Lui. Solo così l’uomo ritrova se stesso, perché  ritrova la capacità di amare. «Poiché solo nell’amore l’uomo si desta  alla sua piena esistenza personale, solo nell’amore egli attualizza la  totale pienezza della sua essenza» [D. von Hildebrandt, Man and Woman,  Franciscan Herald Press, Chicago 1986, pag. 32].