DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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Obbedire è meglio: il segreto della felicità secondo Costanza Miriano



Il titolo del nuovo libro di Costanza Miriano, Obbedire è meglio, è di quelli provocatori, almeno quanto quelli dei primi due libri Sposati e sii sottomessa Sposala e muori per lei, che hanno destato lo scandalo di tanti intellettuali così tanto politically correct nei confronti del linguaggio e dell’uso delle parole quanto scorretti nei confronti della persona della Miriano, di cui probabilmente non hanno letto neppure i primi capitoli delle opere.
La Miriano, però, rinuncia fin da subito a qualsiasi merito nell’invenzione di un titolo così originale addebitando la creazione dell’aforisma al più grande dei  creatori, il Signore stesso: la frase è, infatti, tratta dalla Bibbia. Ma se i detrattori della Miriano che vorrebbero colpirla con l’ostracismo, lasciato da parte il loro giudizio iconoclasta, leggessero queste pagine si renderebbero conto che lei scrive di persone, di vita e di amore e che i clichèsideologici che le sono stati affibbiati sono tanto distanti da lei quanto l’urbanizzazione dalla Luna.
Miriano ci attesta di aver trovato il segreto della felicità. E in che cosa risiede? Sentiamo direttamente lei quando introduce l’opera: «Ecco, un libro sul portare i propri pesi e magari quelli degli altri non andrà esattamente a ruba, lo so […]. Eppure credo che riguardi un sacco di gente. Basta vedere la gente in giro. Basta ascoltare, guardare, parlare con quelli che incontriamo. Il mistero della fatica, del non amarsi, del dolore, della sofferenza, in generale il mistero del male, ci riguarda, tutti». In mezzo a questa condizione umana, qual è la modalità per essere felici? «Essere agnelli. Prendere su di sé anche il male degli altri, oltre al proprio, non entrare in risonanza con le malignità, porgere mitemente il collo. L’agnello […] lo fa quando ha un pastore buono che gli vuole veramente bene e si prende cura di lui».
Nel mondo di oggi dell’autosufficienza e dell’autodeterminazione in cui essere adulti è divenuto sinonimo di indipendenza e di autonomia, la parola «obbedienza» è inaudita. L’obbedienza della Miriano è sinonimo di «amore» e, forse, la sintesi più compiuta del nuovo libro è quanto scriveva Testori qualche decennio fa: «Non sbaglierà, nonostante tutti gli errori, chi avrà voluto bene alla realtà, ossia alla creazione. Amando la realtà, ci sei dentro, ci vivi già dentro e abbracci il tuo tema, la vita, senza bisogno di astrazioni. Basta amare la realtà, sempre, in tutti i modi, anche nel modo precipitoso e approssimativo che è stato il mio. Ma amarla. Per il resto non ci sono precetti». Il nostro tema, come racconta la scrittrice con la consueta familiarità e simpatia che la contraddistingue, è la nostra vita, la vocazione, la famiglia, il lavoro, i figli, gli amici.
«L’obbedienza non è passività, […] anzi è il massimo della forza: è conformazione a qualcosa di più grande. È capire che la nostra sola determinazione non è da sola un valore». Ciò significa che è un valore relativo, non assoluto. L’unico valore assoluto è la verità e la verità è un rapporto, una relazione. Pensiamo come il Dio uno e trino cristiano documenti bene questa dimensione. L’autodeterminazione, infatti, diventa spesso solitudine e isolamento, poi tristezza e, nel tempo, cattiveria, mentre l’io è per sua natura relazione con un altro, in particolare con quell’Altro da cui dipendi. A ciò richiama costantemente l’amicizia, quella che Miriano chiama la «compagnia dell’agnello». «Io e la mia amica» scrive «cerchiamo di farci compagnia anche in questo, perché prese dal miliardo di cose urgenti da fare rischiamo di dimenticarci quelle importanti». La vera amicizia ci fa compagnia lungo la strada al Destino ridestandoci all’essenziale.
Il matrimonio, la condizione di marito e di moglie, argomento dei primi libri, necessitano per essere vissuti di un ambito più ampio, quello di un’amicizia fraterna. Se è vero, come ha ricordato papa Francesco nell’incontro con il mondo della scuola del 10 maggio, che «per educare un bambino ci vuole un intero villaggio» (proverbio africano), è altrettanto vero che la famiglia, torrente che scorre nell’alveo di un fiume più grande, necessita della sorgente che le dia vita. Questa sorgente, documenta la Miriano con tante storie personali, è la presenza reale di Cristo, nei sacramenti, nella chiesa, nella Compagnia dell’agnello che il signore le ha messo a fianco nella quotidianità per ricordare l’essenziale e riconoscerlo.


Tempi.it 



Mano nella mano


Giuliano Guzzo by giulianoguzzo


Esiste davvero l’eternità? Per chi crede nella vita dopo la morte sì. Ma c’è anche un’altra via per convincersi che il tempo, prima o poi, è destinato a passare; una via a volte evidente altre misteriosa, che Maxine e Don Simpson, un’anziana coppia californiana, hanno saputo incarnare fino all’ultimo momento, tenendosi per mano sul letto d’ospedale come i fidanzati fanno all’inizio, quando tutto comincia ed è talmente bello che sembra impossibile che, un giorno, possa finire. Ebbene, a confermare che è proprio così, che la luce di occhi che s’inseguono non può tramontare, da oggi c’è la storia di questi due innamorati rimasti assieme 62 anni; un tunnel infernale, un vero incubo, la tomba di ogni amore per il Pensiero Unico che predica il «Love is Love», il sentimento vero solo finché dura.
Ma la vita è un’altra cosa, e per ripetere un abbraccio non basta sentirlo o avere la piacevole percezione di desiderarlo: occorre provarci ogni singolo giorno, occorre muoversi, a volte correre; insomma, occorre volerlo. Don e Maxine – lui, 90 anni e un’anca fratturata e lei, 87 e piegata da un cancro – lo avevano capito da subito quando, in quel lontano 1952, ancora giovani hanno voluto sposarsi tuffandosi nel futuro assieme e senza freni, tentennamenti o indispensabili convivenze di prova. Allo stesso modo hanno volutoadottare i loro due figli ed infine, molti anni più tardi, hanno voluto spegnersi l’uno accanto all’altro, con appena quattro ore di distanza ma le mani ben unite, quasi a voler bussare meglio a quell’eternità della cui esistenza, già 62 anni fa, erano magnificamente certi.

Il «mammismo» danneggia il matrimonio


Il "mammismo", ovvero la "dipendenza psicologica dal genitore" è tra le forme di dipendenza che possono essere prese in considerazione pervalutare l'eventuale nullità del matrimonio. Lo si legge nella relazione introduttiva all'apertura dell'anno giudiziario ecclesiastico ligure, letta da monsignor Paolo Rigon, vicario giudiziale.

«La dipendenza patologica dai propri genitori, insomma il "mammismo", per cui per ogni scelta, per ogni mossa è necessaria l'approvazione del genitore, che di fatto diventa psicologicamente il vero coniuge, mentre la persona sposata diventa sostituto» è, secondo Rigon, una delle cause di incapacità di assumere gli oneri coniugali.

Tra le problematiche per cui il tribunale ecclesiastico ritiene che ci sia «incapacità di assumere gli oneri coniugali», Rigon cita «situazioni concrete» come «giovani e adulti che, per immaturità psicologica, sprovvedutezza, mancanza di preparazione alla vita, si sposano senza sapere a cosa vanno incontro» e come chi «sia di fatto incapace di attuare i doveri coniugali e di coppia per impostazioni di vita realizzate dall'infanzia e nell'adolescenza e giovinezza».

Rigon si riferisce tra l'altro alle «problematiche di tipo sessuale che impediscono o rendono gravemente difficoltosa l'unione coniugale impedendo una normale e naturale vita sessuale di coppia. Tutte le deviazioni e aberrazioni di carattere sessuale che incidono nel coniugio in modo gravissimo perché la vita sessuale non è equilibrata. In genere - ha concluso Rigon - le deviazioni sessuali traggono origine da impostazioni di vita vissute fin dalla giovinezza».

Avvenire

C'è sottomessa e sottomessa. Di Costanza Miriano



di Costanza Miriano  Il Foglio 18 dicembre 2013
Pensa che c’ero caduta anche io. Col fatto che da un mesetto rispondo a giornalisti stranieri che mi chiedono “perché sottomessa?” (in molteplici varianti tra cui “cos’è la sottomissione?” e, la più stupida, “chi lava i piatti a casa sua?”), e lo faccio in varie lingue (itagnolo, inglano) con abnegazione e grande padronanza di me, cercando di evitare alterazioni isteriche del tono di voce, mi ero ingenuamente convinta che fosse la parola sottomessa a disturbare nel titolo del mio libro.
A far scomodare addirittura la ministra della sanità e delle pari opportunità, Ana Mato, che ha chiesto il ritiro in Spagna del mio libro “Cásate y se sumisa” dal commercio. A far parlare l’intero parlamento spagnolo (sono contenta di sapere che tutti i problemi più urgenti del paese siano stati finalmente risolti, tanto da poter mettere all’ordine del giorno il libro di una sconosciuta moglie e mamma italiana che scrive lettere alle sue amiche per convincerle a sposarsi: pare che il prossimo tema di discussione sarà la sfumatura delle casacche di Topolino nei fumetti degli anni ’50). A farmi finire in vari programmi della BBC (strano, in Italia nessuno si è accorto che un governo stava chiedendo la censura di un’italiana, ma in Inghilterra si sono scandalizzati), tra cui le News Night, in cui mi sono buttata a spregio del pericolo col mio inglese da lesson number two (the book is on the table), tanto per la soddisfazione di citare John Paul the second sul programma di punta della terra anglicana.BBC3
Pensavo anche, in un ingenuo attacco di comprensione, che la parola sottomissione potesse avere evocato, in qualche donna più grande e più insicura di me, lo spettro di antichi ricordi di tempi in cui si doveva lottare per affermare la pari dignità tra uomo e donna, dignità che oggi nessuna ragazza europea normale sente realmente messa in discussione.
Poi ho fatto la scoperta. Ci sono diversi libri in vendita in Spagna con la parola sumisa nel titolo. Per esempio Aprendiendo a ser sumisa, o La formaciòn de la mentalidad sumisa, e molti altri ben più espliciti. Occhieggiano tranquillamente dagli scaffali delle librerie – e ci mancherebbe – senza che nessuno abbia trovato nulla da ridire.
Allora il problema, mi dico, non è quello. Gridano tutti che il mio titolo è offensivo. Deve essere dunque per forza la parola Casate, sposati. Strano, perché il ministro che ne chiede la messa al bando per incitazione alla violenza sulle donne è del PPE, partito che una volta fu cattolico, anche se la signora non avverte la contraddizione di essere titolare di un ministero responsabile di centinaia di migliaia di aborti all’anno (uccisioni almeno presumibilmente anche di bambine: ma quella pare non sia violenza sulle donne).
Dunque va bene sottomettersi, ma sia ben chiaro, solo sessualmente, a un amante, sottomettersi in cinquanta sfumature a un passante, a chiunque, anche all’idraulico che viene a controllare la caldaia. Libri così non vengono avvertiti come offensivi della dignità della donna. Proporre invece un atteggiamento interiore (per la seicentesima volta: sì, le donne possono lavorare, e no, non sono una casalinga, ma una giornalista tv), una disposizione spirituale di dolcezza, di accoglienza, di obbedienza a un solo marito, sempre allo stesso, a un uomo che sarà pronto a morire, cioè a dare tutto alla sposa senza risparmiare niente, questo invece viene percepito come offensivo per la dignità femminile, ma talmente offensivo da far ravvisare addirittura la possibilità di un reato: istigazione alla violenza sulle donne (dove? In quale frase, parola, virgola, o retropensiero la violenza viene vagamente incoraggiata, giustificata, scusata, o anche solo nominata, nel mio libro? Dove?). Il punto è che la dolcezza femminile disinnesca la parte peggiore dell’uomo, e lo rende nobile. Non ha nulla a che vedere con la violenza, anzi, al contrario.
Parliamoci chiaro: è il matrimonio il vero obiettivo della polemica, che continua con sorprendente tenacia da settimane, sulle prime pagine dei giornali e sulla rete, in televisione e in radio. E lo scandalo si allarga: i giornalisti ormai chiamano dalla Colombia, dall’Argentina, dal Messico, dalla Francia, dal Belgio, dall’Inghilterra, dalla Russia…
Cosa esattamente sconvolge nell’idea del matrimonio? Del matrimonio cristiano, precisamente?
Fondamentalmente l’uomo contemporaneo può accettare tutto tranne l’idea di ascoltare una voce che non provenga da se stesso. Non può accettare la possibilità che non sia sempre bene seguire le proprie emozioni, inclinazioni – i pensieri quando è già a uno stadio più progredito – la propria idea di bene e di male. È tutto lì il punto del cuore dell’uomo, dalla Genesi in giù: sono io che decido cosa è Bene e Male?
Il vero nodo della questione è che noi cristiani siamo contenti di obbedire perché sappiamo a chi obbediamo: abbiamo conosciuto, davvero, personalmente, un pastore buono, un pastore che pasce gli agnelli e non i lupi. È per questo che ci piace ascoltare la voce del pastore, non perché siamo repressi, ma perché siamo furbi. Abbiamo capito che quello è il meglio, che ci conviene seguirlo, perché lui è l’autore dell’universo, del dna, della fisica, dei movimenti degli astri. Figuriamoci se non sa come funzioniamo noi, suoi figli (che invece non solo non abbiamo idea di come funzioni l’universo, ma abbiamo problemi anche col tostapane. E con l’uomo, mistero a se stesso). Io capisco dunque l’odio che suscitiamo noi cristiani, stoltezza di fronte al mondo: è un mondo che non sa quanto è buono il Padre, e quindi lo vuole uccidere (lo ha idealmente accoppato già da tempo). Se togli l’amore di Dio, obbedire, sottomettersi, la croce, nulla di tutto questo ha senso.sposala
Qualsiasi cosa, anche morire (il mio secondo libro, Sposala e muori per lei, non ha fatto fremere di sdegno mezzo labbro) può essere accettata. Ma obbedire a qualcuno che non sia me stesso, quello no. Non si può tollerare.
Eppure per noi quello è il primo comandamento: ascolta, Israele. Non fidarti di te. Ascolta una voce che non provenga da te stesso. Sappi che il tuo cuore, ferito dal peccato originale, a volte è inaffidabile. Ascolta uno che ti ama e che spinge dalla tua parte più ancora di te stesso, che ti ama come un figlio unico.
Per questo la Chiesa propone agli uomini impegni definitivi che lo custodiscano da se stesso. “Il matrimonio cristiano – scrive per esempio papa Francesco nella Evangelii gaudium – supera il livello dell’emotività. Il matrimonio non nasce dal sentimento amoroso, effimero per definizione, ma dalla profondità dell’impegno assunto”. Per noi cristiani il matrimonio è una via di conversione, un laboratorio in cui l’uomo e la donna affrontano i loro peccati – o, laicamente, i difetti – principali: il desiderio di controllo femminile e l’egoismo maschile, esattamente ciò di cui parla san Paolo.
Ma l’uomo contemporaneo, che ha dimenticato la visione giudaico cristiana della storia come lineare e non ciclica, è un bambino tutto emotività, assolutizza il comfort, il soddisfacimento dei propri bisogni immediati e superficiali, impedendosi di capire quelli più profondi. Impedendo per esempio alle donne di riconoscere che quello che le realizza profondamente è dare la vita per qualcuno, e darla facendo spazio, mettendo da parte la mania di controllo per affidarsi a un uomo solido e sicuro, riconoscendone la bellezza, rivelandola anche a lui stesso. L’uomo viene così restituito a se stesso – Dio affida l’umanità alla donna, scrive Giovanni Paolo II nella Mulieris Dignitatem – e può così scoprire la bellezza di dare la sua vita per la sposa, morendo per lei, seppur giorno dopo giorno, a fettine, salvando il mondo una pratica alla volta.YOUNG POLISH WOMAN EMBRACES POPE JOHN PAUL II
La cultura dominante tenta in tutti i modi di abbattere il recinto del tempio della trasmissione della vita, e di tagliare tutti i vincoli che appunto legano il sesso all’unione indissolubile tra due anime che cercano per tutta una vita di diventare una sola carne (in unam carnem, moto a luogo). È questo che dicono i loro corpi e questo dicono – con i loro corpi fatti di geni e cellule impastati inscindibilmente – i figli che nascono da quell’unione. Dicono che l’intimità sessuale è sacra, ed è ciò a cui Dio ha affidato la trasmissione della vita: una visione magnifica e sconvolgente. Può essere sublime o terribile, ma non potrà mai essere neutra, né per l’uomo né per la donna. Mai il sesso potrà dunque essere normalizzato, banalizzato, ma avrà sempre a che fare con qualcosa di sconvolgente, con una dedizione che un giorno potrà anche sembrare non corrisponderci più, ma che ha toccato la nostra più profonda essenza.
Un uomo e una donna così sono reciprocamente sottomessi solo al loro cammino di conversione a Dio, e sono liberi dal pensiero dominante, dal totem della laicità, sono liberi e non manipolabili, e questo non è tollerabile dal pensiero unico.
È per questo che noi cristiani veniamo censurati. È per questo che in Francia ogni giorno decine di ragazzi finiscono in carcere nel silenzio generale, perché hanno indossato una maglietta con l’immagine di una famiglia, o perché hanno recitato il rosario fuori da una clinica dove si uccidono i bambini nel posto più sicuro del mondo, sotto al cuore della loro mamma. È per questo che le persecuzioni e le uccisioni dei cristiani nel mondo vengono sistematicamente taciute. È per questo che chi si oppone alle teorie del gender in alcuni paesi rischia il posto di lavoro, (forse leggendo l’incredibile decalogo che lUNAR, l’Ufficio nazionaleantidiscriminazioni razziali del Ministero delle Pari Opportunità vorrebbe imporre ai giornalisti, anche noi: esempio, dire “utero in affitto” sarà discriminatorio, occorrerà dire “gestazione di sostegno”) anche se le teorie di genere sono appunto teorie, e quindi andrebbero dimostrate, e comunque non imposte con la forza. È per questo che una giornalista norvegese, neanche particolarmente fervente, è stata rimossa dalla conduzione del tg perché indossava una croce di due centimetri al collo.
Noi cristiani invece non censuriamo. Noi viviamo in una casa bella, pulita, divertente, libera, dove si respira una buona aria. Dove tutto, persino il dolore, ha un senso. Noi se vediamo qualcuno che abita in un posto brutto sporco e triste non è che ci arrabbiamo, casomai ci dispiace per lui. Al limite lo invitiamo a casa nostra, per fargli vedere come si sta bene vivendo senza idoli, quando tutto sta al proprio posto. E se proprio siamo parecchio avanti nel cammino, ci offriamo anche di andare a casa dell’amico, a mettere a posto insieme a lui (non guardate me, io ho già i miei, di calzini da raccogliere, con dodici piedi in giro per casa).

Per sempre o finchè dura? Catechesi di Mons. Angelo Scola sul matrimonio.



di Angelo Scola, Patriarca di Venezia

Mi capita spesso di incontrare genitori della mia età, felicemente sposati, le cui figlie/i in età da marito/moglie scelgono di convivere. «Adesso si usa così…», «Eppure da noi hanno avuto un esempio diverso!», «Cosa ci possiamo fare?». La domanda, scettica, rassegnata, o accorata a seconda dei casi, rimbalza dai genitori ai parroci agli educatori, spesso agli stessi giovani. Eppure, lo abbiamo detto nella prima puntata di questo nostro dialogo, il «per sempre» è una caratteristica inestirpabile del vero amore tra un uomo e una donna. Del resto non lo ritroviamo solo nella formula del rito religioso del matrimonio («Con la grazia di Cristo prometto di esserti fedele sempre…»), ma ne rintracciamo un’eco anche nelle norme del Codice Civile (quando, a proposito di matrimonio, si parla di «obbligo reciproco alla fedeltà», art. 143). Non c’è nessuno al mondo che non desideri esseredefinitivamente amato per poter, a sua volta, amare definitivamente. La misura con cui il Creatore ha «tarato» il cuore dell’uomo è infatti l’infinito. Di fronte a coloro che amiamo di più sentiamo come profondamente ingiusta la parola fine: «Ama chi dice all’altro: “Tu non puoi morire”» (Gabriel Marcel).
Il Patriarca di Venezia, cardinale Angelo Scola.
Il Patriarca di Venezia, cardinale Angelo Scola.

Ma se le cose stanno così, perché ci si sposa sempre di meno? È un problema di crescente individualismo, di maggior precarietà nelle relazioni affettive e di un preoccupante deficit di speranza. L’idea vincente, nelle nostre società avanzate, è quella di libertà come assenza di legami. Si preferiscono rapporti «corti» a rapporti «lunghi», non solo in chiave temporale ma anche di coinvolgimento personale. Il modello mercantile del contratto è elevato a paradigma di ogni relazione. Così alla logica del dono si sostituisce quella del calcolo, del do ut des. «Solo gli uomini – osserva acutamente Chesterton – sono in grado di lanciare i loro cuori oltre tutti i calcoli, per conquistare ciò che il cuore desidera». Ma il desiderio dell’uomo non può essere ingannato troppo a lungo impunemente: un’insospettata conferma ci è arrivata anche dal recente rapporto Censis. Se si vuole saziare la fame dell’uomo propinandogli in continuazione cibi stuzzicanti ma di scarso valore nutritivo, il suo desiderio languirà fino a spegnersi. «Sarà – insistono i più disincantati – ma il mondo è cambiato. Nessuno accetta più di fare sacrifici». «Senza impegno» ci assicurano i venditori quando ci vogliono rifilare un prodotto. «Senza impegno» sembra essere diventata la massima aspirazione di molti giovani. Perché l’«impegno» mette paura.

Sentite cosa dice a questo proposito Chesterton: «L’uomo che prende un impegno definitivo prende un appuntamento con se stesso in qualche momento o luogo distante. Il pericolo è che egli stesso non riesca a mantenerlo. E nei tempi moderni questo terrore di se stessi, della propria debolezza e mutabilità, è cresciuto pericolosamente, ed è questa la base effettiva dell’obiezione ai voti di qualsiasi genere». Facciamo come la volpe della favola di Esopo: siccome non riusciva a raggiungere l’uva, ci rinunciò dicendo che era acerba. In questo modo noi, insieme con l’ampiezza del desiderio, riduciamo la nostra umanità. Ma Gesù è venuto per salvarla. Cristo e la sua Chiesa fanno il tifo per la grandezza dell’uomo: per questo ci sono i sacramenti. Quello del matrimonio si fonda sull’incrollabile certezza di cui parla san Paolo: «Colui che ha iniziato in voi quest’opera buona la porterà a compimento» (Filippesi 1,6). Mentre vi scrivo queste cose ho in mente i volti concreti di tante spose e di tanti sposi fedeli che il mondo giudica «eroici», ma che sono semplicemente docili alla grazia del sacramento. Certo questo mette in conto il perdono, un altro «ingrediente» dell’amore tanto decisivo quanto sconosciuto. Chi non sa perdonare non ama. Ne parleremo ancora e più diffusamente.

Il Papa: La preparazione al matrimonio è fondamentale! Il Diritto aiuta l'evangelizzazione dei fidanzati perchè scoprano la verità della vocazione

DISCORSO DEL PAPA ALLA ROTA ROMANA PER IL NUOVO ANNO GIUDIZIARIO


SINTESI


Bisogna adoperarsi affinché si interrompa, nella misura del possibile, il circolo vizioso che spesso si verifica tra un'ammissione scontata al matrimonio, senza un’adeguata preparazione e un esame serio dei requisiti previsti per la sua celebrazione, e una dichiarazione giudiziaria talvolta altrettanto facile, ma di segno inverso, in cui lo stesso matrimonio viene considerato nullo solamente in base alla costatazione del suo fallimento.


La dimensione canonica della preparazione al matrimonio forse non è un elemento di immediata percezione... è diffusa la mentalità secondo cui l'esame degli sposi, le pubblicazioni matrimoniali e gli altri mezzi opportuni per compiere le necessarie investigazioni prematrimoniali, tra i quali si collocano i corsi di preparazione al matrimonio, costituirebbero degli adempimenti di natura esclusivamente formale. Infatti, si ritiene spesso che, nell'ammettere le coppie al matrimonio, i pastori dovrebbero procedere con larghezza, essendo in gioco il diritto naturale delle persone a sposarsi. «Di fronte alla relativizzazione soggettivistica e libertaria dell'esperienza sessuale, la tradizione della Chiesa afferma con chiarezza l'indole naturalmente giuridica del matrimonio, cioè la sua appartenenza per natura all'ambito della giustizia nelle relazioni interpersonali. In quest'ottica, il diritto s'intreccia davvero con la vita e con l'amore; come un suo intrinseco dover essere» (Allocuzione alla Rota Romana, 27 gennaio 2007). Non esiste, pertanto, un matrimonio della vita ed un altro del diritto: non vi è che un solo matrimonio, il quale è costitutivamente vincolo giuridico reale tra l'uomo e la donna, un vincolo su cui poggia l'autentica dinamica coniugale di vita e di amore. Il matrimonio celebrato dagli sposi, quello di cui si occupa la pastorale e quello messo a fuoco dalla dottrina canonica, sono una sola realtà naturale e salvifica, la cui ricchezza dà certamente luogo a una varietà di approcci, senza però che ne venga meno l'essenziale identità. L'aspetto giuridico è intrinsecamente legato all'essenza del matrimonio... Il diritto a sposarsi, o ius connubii, va visto in tale prospettiva. Non si tratta, cioè, di una pretesa soggettiva che debba essere soddisfatta dai pastori mediante un mero riconoscimento formale, indipendentemente dal contenuto effettivo dell'unione. Il diritto a contrarre matrimonio presuppone che si possa e si intenda celebrarlo davvero, dunque nella verità della sua essenza così come è insegnata dalla Chiesa. Nessuno può vantare il diritto a una cerimonia nuziale. Lo ius connubii, infatti, si riferisce al diritto di celebrare un autentico matrimonio. Non si negherebbe, quindi, lo ius connubii laddove fosse evidente che non sussistono le premesse per il suo esercizio, se mancasse, cioè, palesemente la capacità richiesta per sposarsi, oppure la volontà si ponesse un obiettivo che è in contrasto con la realtà naturale del matrimonio.

«Data la complessità del contesto culturale in cui vive la Chiesa in molti Paesi, il Sinodo ha, poi, raccomandato di avere la massima cura pastorale nella formazione dei nubendi e nella previa verifica delle loro convinzioni circa gli impegni irrinunciabili per la validità del sacramento del Matrimonio. Un serio discernimento a questo riguardo potrà evitare che impulsi emotivi o ragioni superficiali inducano i due giovani ad assumere responsabilità che non sapranno poi onorare (cfr Propositio 40). Troppo grande è il bene che la Chiesa e l'intera società s'attendono dal matrimonio e dalla famiglia su di esso fondata per non impegnarsi a fondo in questo specifico ambito pastorale. Matrimonio e famiglia sono istituzioni che devono essere promosse e difese da ogni possibile equivoco sulla loro verità, perché ogni danno arrecato ad esse è di fatto una ferita che si arreca alla convivenza umana come tale» (Esort. ap. postsinodale Sacramentum caritatis, 22 febbraio 2007, n. 29).

La preparazione al matrimonio ha certamente delle finalità che trascendono la dimensione giuridica, poiché il suo orizzonte è costituito dal bene integrale, umano e cristiano, dei coniugi e dei loro futuri figli, volto in definitiva alla santità della loro vita. Non bisogna mai dimenticare, tuttavia, che l'obiettivo immediato di tale preparazione è quello di promuovere la libera celebrazione di un vero matrimonio, la costituzione cioè di un vincolo di giustizia ed amore tra i coniugi, con le caratteristiche dell’unità ed indissolubilità, ordinato al bene dei coniugi e alla procreazione ed educazione della prole, e che tra battezzati costituisce uno dei sacramenti della Nuova Alleanza. Con ciò non viene rivolto alla coppia un messaggio ideologico estrinseco, né tanto meno viene imposto un modello culturale; piuttosto, i fidanzati vengono posti in grado di scoprire la verità di un'inclinazione naturale e di una capacità di impegnarsi che essi portano inscritte nel loro essere relazionale uomo-donna. È da lì che scaturisce il diritto quale componente essenziale della relazione matrimoniale, radicato in una potenzialità naturale dei coniugi che la donazione consensuale attualizza. Ragione e fede concorrono a illuminare questa verità di vita, dovendo comunque rimanere chiaro che, come ha insegnato ancora il Venerabile Giovanni Paolo II, «la Chiesa non rifiuta la celebrazione delle nozze a chi è bene dispositus, anche se imperfettamente preparato dal punto di vista soprannaturale, purché abbia la retta intenzione di sposarsi secondo la realtà naturale della coniugalità» (Allocuzione alla Rota Romana, 30 gennaio 2003, n. 8).

Tra i mezzi per accertare che il progetto dei nubendi sia realmente coniugale spicca l'esame prematrimoniale. Tale esame ha uno scopo principalmente giuridico: accertare che nulla si opponga alla valida e lecita celebrazione delle nozze. Giuridico non vuol dire però formalistico, come se fosse un passaggio burocratico consistente nel compilare un modulo sulla base di domande rituali. Si tratta invece di un'occasione pastorale unica - da valorizzare con tutta la serietà e l’attenzione che richiede - nella quale, attraverso un dialogo pieno di rispetto e di cordialità, il pastore cerca di aiutare la persona a porsi seriamente dinanzi alla verità su se stessa e sulla propria vocazione umana e cristiana al matrimonio. In questo senso il dialogo, sempre condotto separatamente con ciascuno dei due fidanzati - senza sminuire la convenienza di altri colloqui con la coppia - richiede un clima di piena sincerità, nel quale si dovrebbe far leva sul fatto che gli stessi contraenti sono i primi interessati e i primi obbligati in coscienza a celebrare un matrimonio valido.

Bisogna adoperarsi affinché si interrompa, nella misura del possibile, il circolo vizioso che spesso si verifica tra un'ammissione scontata al matrimonio, senza un’adeguata preparazione e un esame serio dei requisiti previsti per la sua celebrazione, e una dichiarazione giudiziaria talvolta altrettanto facile, ma di segno inverso, in cui lo stesso matrimonio viene considerato nullo solamente in base alla costatazione del suo fallimento. È vero che non tutti i motivi di un’eventuale dichiarazione di nullità possono essere individuati oppure manifestati nella preparazione al matrimonio, ma, parimenti, non sarebbe giusto ostacolare l'accesso alle nozze sulla base di presunzioni infondate, come quella di ritenere che, al giorno d'oggi, le persone sarebbero generalmente incapaci o avrebbero una volontà solo apparentemente matrimoniale. In questa prospettiva appare importante che vi sia una presa di coscienza ancora più incisiva circa la responsabilità in questa materia di coloro che hanno cura d'anime.

Di recente ho insistito sulla necessità di giudicare rettamente le cause relative all'incapacità consensuale (cfr Allocuzione alla Rota Romana, 29 gennaio 2009: AAS 101 [2009], pp. 124-128). La questione continua ad essere molto attuale, e purtroppo permangono ancora posizioni non corrette, come quella di identificare la discrezione di giudizio richiesta per il matrimonio (cfr CIC, can. 1095, n. 2) con l’auspicata prudenza nella decisione di sposarsi, confondendo così una questione di capacità con un'altra che non intacca la validità, poiché concerne il grado di saggezza pratica con cui si è presa una decisione che è, comunque, veramente matrimoniale. Più grave ancora sarebbe il fraintendimento se si volesse attribuire efficacia invalidante alle scelte imprudenti compiute durante la vita matrimoniale.

Penso, in modo particolare, alla questione dell'esclusione del bonum coniugum. In relazione a tale esclusione sembra ripetersi lo stesso pericolo che minaccia la retta applicazione delle norme sull'incapacità, e cioè quello di cercare dei motivi di nullità nei comportamenti che non riguardano la costituzione del vincolo coniugale bensì la sua realizzazione nella vita. Bisogna resistere alla tentazione di trasformare le semplici mancanze degli sposi nella loro esistenza coniugale in difetti di consenso. La vera esclusione può verificarsi infatti solo quando viene intaccata l'ordinazione al bene dei coniugi (cfr ibid., can. 1055, § 1), esclusa con un atto positivo di volontà.

Occorre invece favorire in tutti i settori, e in modo particolare nel campo del matrimonio e della famiglia, una dinamica di segno opposto, di armonia profonda tra pastoralità e giuridicità, che certamente si rivelerà feconda nel servizio reso a chi si avvicina al matrimonio.



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DISCORSO INTEGRALE



Cari Componenti del Tribunale della Rota Romana!

Sono lieto di incontrarvi per questo annuale appuntamento in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Un cordiale saluto rivolgo al Collegio dei Prelati Uditori, iniziando dal Decano, Mons. Antoni Stankiewicz, che ringrazio per le cortesi parole. Saluto gli Officiali, gli Avvocati e gli altri collaboratori di codesto Tribunale, come pure tutti i presenti. Questo momento mi offre l’opportunità di rinnovare la mia stima per l’opera che svolgete al servizio della Chiesa e di incoraggiarvi ad un sempre maggiore impegno in un settore così delicato ed importante per la pastorale e per la salus animarum.

Il rapporto tra il diritto e la pastorale è stato al centro del dibattito postconciliare sul diritto canonico. La ben nota affermazione del Venerabile Servo di Dio Giovanni Paolo II, secondo la quale «non è vero che per essere più pastorale il diritto debba rendersi meno giuridico» (Allocuzione alla Rota Romana, 18 gennaio 1990, n. 4: AAS 82 [1990], p. 874) esprime il superamento radicale di un’apparente contrapposizione. «La dimensione giuridica e quella pastorale – diceva – sono inseparabilmente unite nella Chiesa pellegrina su questa terra. Anzitutto, vi è una loro armonia derivante dalla comune finalità: la salvezza delle anime» (ibidem). Nel mio primo incontro, che ebbi con voi nel 2006, ho cercato di evidenziare l'autentico senso pastorale dei processi di nullità del matrimonio, fondato sull'amore per la verità (cfr Allocuzione alla Rota Romana, 28 gennaio 2006: AAS 98 [2006], pp. 135-138). Oggi vorrei soffermarmi a considerare la dimensione giuridica che è insita nell'attività pastorale di preparazione e ammissione al matrimonio, per cercare di mettere in luce il nesso che intercorre tra tale attività e i processi giudiziari matrimoniali.

La dimensione canonica della preparazione al matrimonio forse non è un elemento di immediata percezione. In effetti, da una parte si osserva come nei corsi di preparazione al matrimonio le questioni canoniche occupino un posto assai modesto, se non insignificante, in quanto si tende a pensare che i futuri sposi abbiano un interesse molto ridotto per problematiche riservate agli specialisti. Dall'altra, pur non sfuggendo a nessuno la necessità delle attività giuridiche che precedono il matrimonio, rivolte ad accertare che «nulla si oppone alla sua celebrazione valida e lecita» (CIC, can. 1066), è diffusa la mentalità secondo cui l'esame degli sposi, le pubblicazioni matrimoniali e gli altri mezzi opportuni per compiere le necessarie investigazioni prematrimoniali (cfr ibid., can. 1067), tra i quali si collocano i corsi di preparazione al matrimonio, costituirebbero degli adempimenti di natura esclusivamente formale. Infatti, si ritiene spesso che, nell'ammettere le coppie al matrimonio, i pastori dovrebbero procedere con larghezza, essendo in gioco il diritto naturale delle persone a sposarsi.

È bene, in proposito, riflettere sulla dimensione giuridica del matrimonio stesso. È un argomento a cui ho fatto cenno nel contesto di una riflessione sulla verità del matrimonio, nella quale affermavo, tra l'altro: «Di fronte alla relativizzazione soggettivistica e libertaria dell'esperienza sessuale, la tradizione della Chiesa afferma con chiarezza l'indole naturalmente giuridica del matrimonio, cioè la sua appartenenza per natura all'ambito della giustizia nelle relazioni interpersonali. In quest'ottica, il diritto s'intreccia davvero con la vita e con l'amore; come un suo intrinseco dover essere» (Allocuzione alla Rota Romana, 27 gennaio 2007, AAS 99 [2007], p. 90). Non esiste, pertanto, un matrimonio della vita ed un altro del diritto: non vi è che un solo matrimonio, il quale è costitutivamente vincolo giuridico reale tra l'uomo e la donna, un vincolo su cui poggia l'autentica dinamica coniugale di vita e di amore. Il matrimonio celebrato dagli sposi, quello di cui si occupa la pastorale e quello messo a fuoco dalla dottrina canonica, sono una sola realtà naturale e salvifica, la cui ricchezza dà certamente luogo a una varietà di approcci, senza però che ne venga meno l'essenziale identità. L'aspetto giuridico è intrinsecamente legato all'essenza del matrimonio. Ciò si comprende alla luce di una nozione non positivistica del diritto, ma considerata nell'ottica della relazionalità secondo giustizia.

Il diritto a sposarsi, o ius connubii, va visto in tale prospettiva. Non si tratta, cioè, di una pretesa soggettiva che debba essere soddisfatta dai pastori mediante un mero riconoscimento formale, indipendentemente dal contenuto effettivo dell'unione. Il diritto a contrarre matrimonio presuppone che si possa e si intenda celebrarlo davvero, dunque nella verità della sua essenza così come è insegnata dalla Chiesa. Nessuno può vantare il diritto a una cerimonia nuziale. Loius connubii, infatti, si riferisce al diritto di celebrare un autentico matrimonio. Non si negherebbe, quindi, lo ius connubii laddove fosse evidente che non sussistono le premesse per il suo esercizio, se mancasse, cioè, palesemente la capacità richiesta per sposarsi, oppure la volontà si ponesse un obiettivo che è in contrasto con la realtà naturale del matrimonio.

A questo proposito vorrei ribadire quanto ho scritto dopo il Sinodo dei Vescovi sull'Eucaristia: «Data la complessità del contesto culturale in cui vive la Chiesa in molti Paesi, il Sinodo ha, poi, raccomandato di avere la massima cura pastorale nella formazione dei nubendi e nella previa verifica delle loro convinzioni circa gli impegni irrinunciabili per la validità del sacramento del Matrimonio. Un serio discernimento a questo riguardo potrà evitare che impulsi emotivi o ragioni superficiali inducano i due giovani ad assumere responsabilità che non sapranno poi onorare (cfr Propositio 40). Troppo grande è il bene che la Chiesa e l'intera società s'attendono dal matrimonio e dalla famiglia su di esso fondata per non impegnarsi a fondo in questo specifico ambito pastorale. Matrimonio e famiglia sono istituzioni che devono essere promosse e difese da ogni possibile equivoco sulla loro verità, perché ogni danno arrecato ad esse è di fatto una ferita che si arreca alla convivenza umana come tale» (Esort. ap. postsinodale Sacramentum caritatis, 22 febbraio 2007, n. 29: AAS 99 [2007], p. 130).

La preparazione al matrimonio, nelle sue varie fasi descritte dal Papa Giovanni Paolo II nell'Esortazione apostolica Familiaris consortio, ha certamente delle finalità che trascendono la dimensione giuridica, poiché il suo orizzonte è costituito dal bene integrale, umano e cristiano, dei coniugi e dei loro futuri figli (cfr n. 66: AAS 73 [1981], pp. 159-162), volto in definitiva alla santità della loro vita (cfr CIC, can. 1063,2°). Non bisogna mai dimenticare, tuttavia, che l'obiettivo immediato di tale preparazione è quello di promuovere la libera celebrazione di un vero matrimonio, la costituzione cioè di un vincolo di giustizia ed amore tra i coniugi, con le caratteristiche dell’unità ed indissolubilità, ordinato al bene dei coniugi e alla procreazione ed educazione della prole, e che tra battezzati costituisce uno dei sacramenti della Nuova Alleanza. Con ciò non viene rivolto alla coppia un messaggio ideologico estrinseco, né tanto meno viene imposto un modello culturale; piuttosto, i fidanzati vengono posti in grado di scoprire la verità di un'inclinazione naturale e di una capacità di impegnarsi che essi portano inscritte nel loro essere relazionale uomo-donna. È da lì che scaturisce il diritto quale componente essenziale della relazione matrimoniale, radicato in una potenzialità naturale dei coniugi che la donazione consensuale attualizza. Ragione e fede concorrono a illuminare questa verità di vita, dovendo comunque rimanere chiaro che, come ha insegnato ancora il Venerabile Giovanni Paolo II, «la Chiesa non rifiuta la celebrazione delle nozze a chi è bene dispositus, anche se imperfettamente preparato dal punto di vista soprannaturale, purché abbia la retta intenzione di sposarsi secondo la realtà naturale della coniugalità» (Allocuzione alla Rota Romana, 30 gennaio 2003, n. 8: AAS95 [2003], p. 397). In questa prospettiva, una cura particolare deve essere posta nell’accompagnare la preparazione al matrimonio sia remota, sia prossima, sia immediata (cfr Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio, 22 novembre 1981, n. 66: AAS 73 [1981], pp. 159-162)

Tra i mezzi per accertare che il progetto dei nubendi sia realmente coniugale spicca l'esame prematrimoniale. Tale esame ha uno scopo principalmente giuridico: accertare che nulla si opponga alla valida e lecita celebrazione delle nozze. Giuridico non vuol dire però formalistico, come se fosse un passaggio burocratico consistente nel compilare un modulo sulla base di domande rituali. Si tratta invece di un'occasione pastorale unica - da valorizzare con tutta la serietà e l’attenzione che richiede - nella quale, attraverso un dialogo pieno di rispetto e di cordialità, il pastore cerca di aiutare la persona a porsi seriamente dinanzi alla verità su se stessa e sulla propria vocazione umana

e cristiana al matrimonio. In questo senso il dialogo, sempre condotto separatamente con ciascuno dei due fidanzati - senza sminuire la convenienza di altri colloqui con la coppia - richiede un clima di piena sincerità, nel quale si dovrebbe far leva sul fatto che gli stessi contraenti sono i primi interessati e i primi obbligati in coscienza a celebrare un matrimonio valido.

In questo modo, con i vari mezzi a disposizione per un’accurata preparazione e verifica, si può sviluppare un'efficace azione pastorale volta alla prevenzione delle nullità matrimoniali. Bisogna adoperarsi affinché si interrompa, nella misura del possibile, il circolo vizioso che spesso si verifica tra un'ammissione scontata al matrimonio, senza un’adeguata preparazione e un esame serio dei requisiti previsti per la sua celebrazione, e una dichiarazione giudiziaria talvolta altrettanto facile, ma di segno inverso, in cui lo stesso matrimonio viene considerato nullo solamente in base alla costatazione del suo fallimento. È vero che non tutti i motivi di un’eventuale dichiarazione di nullità possono essere individuati oppure manifestati nella preparazione al matrimonio, ma, parimenti, non sarebbe giusto ostacolare l'accesso alle nozze sulla base di presunzioni infondate, come quella di ritenere che, al giorno d'oggi, le persone sarebbero generalmente incapaci o avrebbero una volontà solo apparentemente matrimoniale. In questa prospettiva appare importante che vi sia una presa di coscienza ancora più incisiva circa la responsabilità in questa materia di coloro che hanno cura d'anime. Il diritto canonico in generale, e in specie quello matrimoniale e processuale, richiedono certamente una preparazione particolare, ma la conoscenza degli aspetti basilari e di quelli immediatamente pratici del diritto canonico, relativi alle proprie funzioni, costituisce un'esigenza formativa di primaria rilevanza per tutti gli operatori pastorali, in particolare per coloro che agiscono nella pastorale familiare.

Tutto ciò richiede, inoltre, che l'operato dei tribunali ecclesiastici trasmetta un messaggio univoco circa ciò che è essenziale nel matrimonio, in sintonia con il Magistero e la legge canonica, parlando ad una sola voce. Attesa la necessità dell'unità della giurisprudenza, affidata alla cura di codesto Tribunale, gli altri tribunali ecclesiastici debbono adeguarsi alla giurisprudenza rotale (cfr Giovanni Paolo II, Allocuzione alla Rota Romana, 17 gennaio 1998, n. 4: AAS 90 [1998], p. 783). Di recente ho insistito sulla necessità di giudicare rettamente le cause relative all'incapacità consensuale (cfr Allocuzione alla Rota Romana, 29 gennaio 2009: AAS 101 [2009], pp. 124-128). La questione continua ad essere molto attuale, e purtroppo permangono ancora posizioni non corrette, come quella di identificare la discrezione di giudizio richiesta per il matrimonio (cfr CIC, can. 1095, n. 2) con l’auspicata prudenza nella decisione di sposarsi, confondendo così una questione di capacità con un'altra che non intacca la validità, poiché concerne il grado di saggezza pratica con cui si è presa una decisione che è, comunque, veramente matrimoniale. Più grave ancora sarebbe il fraintendimento se si volesse attribuire efficacia invalidante alle scelte imprudenti compiute durante la vita matrimoniale.

Nell'ambito delle nullità per l'esclusione dei beni essenziali del matrimonio (cfr ibid., can. 1101, § 2) occorre altresì un serio impegno perché le pronunce giudiziarie rispecchino la verità sul matrimonio, la stessa che deve illuminare il momento dell'ammissione alle nozze. Penso, in modo particolare, alla questione dell'esclusione del bonum coniugum. In relazione a tale esclusione sembra ripetersi lo stesso pericolo che minaccia la retta applicazione delle norme sull'incapacità, e cioè quello di cercare dei motivi di nullità nei comportamenti che non riguardano la costituzione del vincolo coniugale bensì la sua realizzazione nella vita. Bisogna resistere alla tentazione di trasformare le semplici mancanze degli sposi nella loro esistenza coniugale in difetti di consenso. La vera esclusione può verificarsi infatti solo quando viene intaccata l'ordinazione al bene dei coniugi (cfr ibid., can. 1055, § 1), esclusa con un atto positivo di volontà. Senz'altro sono del tutto eccezionali i casi in cui viene a mancare il riconoscimento dell'altro come coniuge, oppure viene esclusa l'ordinazione essenziale della comunità di vita coniugale al bene dell'altro. La precisazione di queste ipotesi di esclusione del bonum coniugumdovrà essere attentamente vagliata dalla giurisprudenza della Rota Romana.

Nel concludere queste mie riflessioni, torno a considerare il rapporto tra diritto e pastorale. Esso è spesso oggetto di fraintendimenti, a scapito del diritto, ma anche della pastorale. Occorre invece favorire in tutti i settori, e in modo particolare nel campo del matrimonio e della famiglia, una dinamica di segno opposto, di armonia profonda tra pastoralità e giuridicità, che certamente si rivelerà feconda nel servizio reso a chi si avvicina al matrimonio.

Cari Componenti del Tribunale della Rota Romana, affido tutti voi alla potente intercessione della Beata Vergine Maria, affinché non vi venga mai a mancare l’assistenza divina nello svolgere con fedeltà, spirito di servizio e frutto il vostro quotidiano lavoro, e ben volentieri imparto a tutti una speciale Benedizione Apostolica.

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En España se triplica en 20 años el porcentaje de hijos nacidos fuera del matrimonio

El número de hijos nacidos fuera del matrimonio se ha triplicado en España en el curso de los últimos veinte años y ha pasado de representar el 9,6% de los nacimientos en 1990 a ser del 31,7% en 2008, según los datos recogidos en el Anuario de la oficina estadística europea, Eurostat. En el conjunto de la UE, este porcentaje se sitúa en el 35,1%, el doble que hace dos décadas. El estudio 'Europa en cifras' revela que la proporción de hijos fuera del matrimonio ha aumentado en todos los Estados miembros salvo en Dinamarca, donde se ha mantenido estable en un 46%.

(EP/InfoCatólica) En 2008, más de la mitad de los nacimientos eran extramatrimoniales en Estonia, Suecia, Eslovenia, Francia y Bulgaria. En el otro extremo del ranking están Grecia, Chipre, Italia y Polonia, con tasas que oscilan entre el 5,9% y el 19,9%.

También baja la tasa de matrimonios

Mientras, la tasa de matrimonios ha disminuido en toda la UE: era del 6,3 matrimonios por cada 1.000 personas en 1990 y del 4,9 por mil en 2007. En el caso de España, la evolución es similar, pasando de un 5,7 por mil a un 4,2 por mil en el mismo periodo de tiempo.

En 2008, en todos los Estados miembros menos en Dinamarca, Irlanda, Polonia, Finlandia y Suecia la tasa era inferior a la de 1990. Los porcentajes más altos de matrimonios se registraron en Chipre, Lituania, Rumanía, Dinamarca y Polonia. Donde menos uniones hubo fue en Eslovenia, Bulgaria, Luxemburgo y Hungría.


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Differenza sessuale, dono di sé e fecondità nel matrimonio. di Angelo Scola

Si conclude domenica 16 a Jönköping, in Svezia, il congresso delle famiglie cattoliche dal titolo "Amore e vita" promosso dalla Conferenza episcopale della Scandinavia. Il cardinale patriarca di Venezia ha tenuto venerdì 14 la relazione introduttiva sul tema "Il disegno di Dio per l'uomo e la donna nel sacramento del matrimonio. Il mistero nuziale e la cultura contemporanea". Pubblichiamo ampi stralci dell'intervento.

di Angelo Scola

L'uomo di oggi - il cosiddetto uomo post-moderno - è, nello stesso tempo, confuso ed assetato. Per questo ha bisogno di incontrare uomini e donne capaci di testimoniare l'entusiasmo che sgorga dalla singolare bellezza del sacramento del matrimonio. Ovviamente la secolarizzazione non è la stessa in tutti i Paesi. Mi pare tuttavia che un nucleo comune alla secolarizzazione di tutte le società euro-atlantiche risieda nel concetto sintetizzato dal filosofo canadese Charles Taylor. Essa consiste nel considerare la fede in Dio come un'opzione tra le altre. Si è passati cioè da società in cui era "virtualmente impossibile non credere in Dio, a una in cui anche per il credente più devoto questa è solo una possibilità umana tra le altre".
Il secondo tratto della post-modernità, non staccato dal precedente, è che l'uomo odierno rischia di enfatizzare a tal punto la libertà di scelta individuale da considerarla tutta la libertà. Essa risulta in tal modo svincolata da qualsiasi bene oggettivo.
Il terzo dato è lo straordinario connubio che si è realizzato negli ultimi due secoli tra la scienza e la tecnica, in modo particolare nell'ambito della biologia e oggi sempre più in quello delle neuroscienze. Esso ha comportato un profondo cambiamento nella visione della realtà. Il vero non è più dato dalla corrispondenza tra l'intelletto e la "cosa" (adaequatio rei et intellectus). Il vero è ridotto a ciò che è tecnicamente fattibile. Ciò finisce per stabilire una pericolosa equazione: "si può, quindi si deve" (imperativo tecnologico).
L'intreccio di questi fattori ha inoltre radicalmente modificato il modo con cui l'uomo concepisce se stesso, dando origine a trasformazioni e a situazioni inedite anche nell'ambito dell'amore e della famiglia. Il divorzio, le coppie di fatto, le unioni dello stesso sesso, la realtà dei single, la contraccezione, l'aborto, la procreazione medicalmente assistita, la possibilità di effettuare diagnosi prenatali o pre-impianto, la clonazione, l'omosessualità, hanno prodotto nella sfera dell'amore, del matrimonio e della famiglia una serie di separazioni: tra la coppia e l'essere genitori, tra l'essere genitori e il procreare, tra la coppia-famiglia e la differenza sessuale. Queste mutazioni non si arrestano alla sfera privata, ma investono la stessa vita civile. Il legislatore infatti, anche qui in grado diverso secondo i diversi Paesi dell'area euro-atlantica, appare sempre più disponibile a garantire norma di legge a ogni "desiderio" del soggetto, per giunta ampliato dalle indefinite possibilità offerte dalla tecno-scienza.
Da un simile contesto scaturiscono per noi una serie di domande: la differenza sessuale, l'amore e la fecondità devono essere considerati fatti contingenti oggi superabili - e forse già superati - o possiedono un valore assoluto? Questi tre fattori, presi in unità, sono realmente essenziali per l'esperienza del matrimonio e della famiglia? La loro unità merita di essere mantenuta e consapevolmente perseguita come qualcosa che chiede alla libertà di ogni persona di scegliere ciò che è buono in vista del suo proprio bene? La famiglia fondata sull'unione matrimoniale fedele, pubblica e aperta alla vita di un uomo e di una donna è veramente la strada adeguata allo sviluppo integrale della persona? Venendo ai vostri Paesi e considerando la pluralità di mondovisioni di cui sono portatori i soggetti che li abitano, a partire dalla differenza tra credenti e non credenti, passando per le diverse appartenenze ecclesiali e religiose che danno origine ad un numero elevato di matrimoni misti ed interreligiosi, come far convivere positivamente tale pluralità all'interno della famiglia stessa?
Il modo più adeguato per trattare le problematiche fin qui descritte è quello di leggerle attraverso la lente del mistero nuziale nelle sue tre indisgiungibili dimensioni: differenza sessuale, dono di sé, fecondità. L'espressione mistero nuziale infatti svela il carattere profondo dell'amore perché, nel manifestare la sua capacità di mettere in campo l'"io", l'"altro" e l'"unità dei due", conduce al cuore dell'esperienza umana elementare, cioè comune a ogni persona di ogni tempo e luogo. Il fatto che sia un mistero non si riferisce a una sua assoluta inconoscibilità. Suggerisce soltanto che essendo una delle dimensioni con cui la libertà personale d'ogni uomo entra in relazione con l'infinito, non può essere catturata una volta per tutte in una definizione. A questo proposito scrive Pavel Evdokimov: "Nessuno tra i poeti e i pensatori ha trovato la risposta della domanda: "Che cosa è l'amore?" (...) Volete imprigionare la luce? Vi sfuggirà di tra le dita".
Il tema della differenza sessuale, prima dimensione del mistero nuziale, è stato sviluppato dal magistero di Giovanni Paolo ii per approfondire la forza profetica dell'Humanae vitae a partire dalle sue catechesi sull'amore umano e ripreso recentemente da Benedetto XVI nella Deus caritas est. Il rapporto tra maschile e femminile chiede di essere pensato simultaneamente attraverso le categorie dell'identità e della differenza. Mentre la prima è abbastanza facilmente riconducibile alla natura personale dell'essere umano e alla conseguente uguale dignità tra l'uomo e la donna, la seconda non è priva di problematicità, come attesta il travaglio della cultura contemporanea nella sua radicale difficoltà a pensare la differenza sessuale. La differenza sessuale, integralmente intesa, si rivela come la modalità primaria con cui il singolo, uno di anima e corpo, entra in contatto con il reale. La consapevolezza del proprio essere sempre situato nella differenza sessuale realizza una costante apertura all'altro e indica un cammino di conoscenza di sé. Da qui si capisce che la differenza non può mai essere abolita. È infatti una insuperabile dimensione dell'io personale.
È proprio nella differenza sessuale adeguatamente vissuta che l'apertura all'altro può prendere la forma del dono di sé. Muovendo da questo dato si comprende meglio il nesso tra mistero nuziale e sacramento del matrimonio, la cui giustificazione ultima prende le mosse dal linguaggio nuziale della Bibbia. La tradizione teologica ci propone una via di riflessione nella cornice del testo di Efesini, 5, 21-33. In questo testo l'esperienza umana dell'amore fra gli sposi, basata sulla differenza sessuale, viene illuminata dall'analogia con l'amore sponsale di Gesù Cristo per la Chiesa, del quale proprio in virtù del sacramento del matrimonio partecipano gli sposi cristiani. Sia chiaro: il sacramento non è un'aggiunta al dato naturale, ma è ciò che lo spiega in profondità. Di qui l'invito di san Paolo agli sposi perché sappiano partecipare di un amore che deve essere totale, personale, redentore e fecondo. Ed è un dato che vale anche per gli sposi battezzati appartenenti a tradizioni cristiane diverse, dal momento che, "in forza del loro battesimo, sono realmente già inseriti nell'Alleanza sponsale di Cristo, con la Chiesa e, per la loro retta intenzione, hanno accolto il progetto di Dio sul matrimonio" (Familiaris consortio, 68).
Radicata nella differenza sessuale, per essere all'altezza della sua vocazione l'unione tra l'uomo e la donna deve essere fedele e aperta alla vita. Ce lo indica il Catechismo della Chiesa cattolica quando parla dei beni-esigenze del matrimonio. In proposito è di decisiva importanza superare un grave equivoco. Queste non sono proprietà che si aggiungono all'amore tra l'uomo e la donna. Esse fanno parte dell'essenza dell'amore. Là dove non c'è fedeltà e fecondità non c'è mai stato propriamente parlando amore. Non si tratta di precetti aggiunti dalla Chiesa quasi per frenare la libera espressione dell'amore. Sono i beni che emergono dalla natura profonda dell'amore umano. In quanto essenziali all'amore, essi, benché messi radicalmente in discussione da buona parte dei costumi e della cultura contemporanei, sono sempre in grado di mostrare la loro attualità.
Non esiste amore che non implichi il desiderio del "per sempre". Ce lo dice il fenomeno dell'innamoramento, quando è ascoltato in tutta la sua serietà. Fa parte dell'esperienza di chi ama voler consegnare tutto se stesso senza limiti temporali. Ed è proprio dell'esperienza di chi è amato desiderare che l'amore che lo abbraccia non abbia mai fine. Nel mio compito pastorale mi rivolgo sempre ai giovani in questo modo: "Vi sfido se siete autenticamente innamorati, a dire "ti amo" senza aggiungere "per sempre"". Il "per sempre" fa parte essenzialmente dell'amore. Il genio di Shakespeare lo ha messo in evidenza nel versetto fulminante di un sonetto: "Amore non è amore / se muta quando nell'altro scorge mutamenti / o se tende a recedere quando l'altro si allontana". Se questo è vero per ogni esperienza di sincero innamoramento, tanto più il "per sempre" dovrà essere presente nell'amore dei coniugi e dei coniugi cristiani. Da quanto detto si capisce meglio cosa intende la Chiesa quando ripropone l'ingiunzione del Signore "quello dunque che Dio ha congiunto, l'uomo non lo separi" (Matteo, 19, 6). Il versetto ricorda che la decisione umana per l'amore realizza la volontà di continuare l'opera di Dio che ci ha creati maschio e femmina. Al contrario di quanto parte della cultura contemporanea sembra suggerire, l'unione "per sempre" non è un peso inflitto alla nostra libertà, ma una condizione per poterla mettere in atto. L'indissolubilità rappresenta infatti la possibilità che la libertà si compia, che il desiderio di essere amato e di amare trovi soddisfazione fino a rendere trasparente il disegno originario del Padre sul matrimonio. Tutto questo non è il risultato d'una capacità etica superiore degli sposi. Tale pienezza è possibile solo se marito e moglie vivono quotidianamente il proprio rapporto come sacramento, come forma concreta del loro essere Chiesa domestica. A questo livello si capisce quanto sia importante nella vita dei coniugi un'intensa vita sacramentale e una continua ripresa della consapevolezza del proprio battesimo e della propria appartenenza a Cristo. E intorno a questo centro, è offerta la grande possibilità della dedizione vicendevole mediante l'esperienza del perdono.
Per scoprire dove conduce l'amore preso nella sua integralità occorre tornare alla sua origine. Per capire cioè il terzo fattore del mistero nuziale, la fecondità - che è l'esito a cui tende il dono di sé - dobbiamo ripartire dal primo fattore: la differenza sessuale. Ricordiamo che questa dice che l'io è strutturalmente riferito al tu. L'apertura all'altro è costitutiva dell'identità della persona. Lo sposo e la sposa che, in virtù della differenza sessuale, si donano reciprocamente, diventano "una carne sola" e si spalancano alla procreazione del figlio. Proprio perché fin dentro l'unione coniugale i due non si fondono in un'unità che ingloba entrambi, ma esprimono una piena comunione pur restando persone differenti, essi fanno posto al "terzo". A questo proposito il grande teologo svizzero Hans Urs von Balthasar ha potuto genialmente affermare che "l'atto dell'unione di due persone nell'unica carne e il frutto di questa unione dovrebbero essere considerati insieme saltando la distanza nel tempo". Questa affermazione rende ragione della forza profetica dell'Humanae vitae. La procreazione del figlio, che implica l'affascinante avventura educativa, esprime il significato pieno del matrimonio. Mi preme aggiungere, per inciso, che anche nei matrimoni misti e in quelli interreligiosi se gli sposi sono resi consapevoli delle difficoltà e rispettano fino in fondo quanto stabilito a livello canonico è possibile una profonda esperienza dell'amore coniugale.



(©L'Osservatore Romano - 16 maggio 2010)

Il matrimonio non è un’opinione. Riportiamo un estratto di questo importante studio sulla sentenza della Corte Costituzionale

l matrimonio non è un’opinione.
Così si potrebbe sintetizzare la sentenza della Corte Costituzionale n. 138 del 15 aprile 2010. La Consulta ha rigettato, in parte dichiarandola inammissibile ed in parte infondata, la questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Tribunale di Venezia e dalla Corte d’Appello di Trento, di diversi articoli del codice civile nella parte in cui non consentono alle persone omosessuali di contrarre matrimonio (la questione riguardava due persone di sesso maschile che avevano fatto opposizione al provvedimento dell’ufficiale di stato civile che aveva rifiutato di procedere alla pubblicazione del matrimonio dagli stessi richiesta).
La sentenza riafferma un preciso significato al termine matrimonio, nell’ordinamento giuridico italiano. Esso ha dunque un contenuto costituzionale oggettivo e non è subordinato alle mutevoli interpretazioni dei tempi, alle opinioni soggettive ed agli orientamenti sociali desumibili da diverse – seppur minoritarie – forme di convivenza.
E’ un risultato importante, anche se la sola circostanza di aver dovuto ribadire, giuridicamente, la definizione di un dato insito nella stessa natura umana e relazionale (come il fatto di essere mori o di avere gli occhi azzurri, di avere 30 anni invece che 50, di essere maschi o femmine, di essere – appunto – sposati o no), la dice lunga – a mio avviso – sulla attuale crisi di corrispondenza tra segno e significato, tra parola e concetto racchiuso in essa.
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Argentina, il matrimonio «valore non negoziabile»

La difesa del valore «non negoziabile» del matrimonio inteso esclusivamente come unione tra un uomo e una donna, non è questione che riguardi solo la società e la Chiesa in Italia o nel mondo occidentale. Per capirlo basta leggere il documento rilasciato martedì dai vescovi argentini al termine della loro 99esima Assemblea plenaria, titolato emblematicamente “Sul bene inalterabile del matrimonio e della famiglia”.

La presa di posizione chiara e forte dei presuli guidati dal cardinale di Buenos Aires Jorge Mario Bergoglio, cerca di contrastare il cammino parlamentare di disegni di legge di modifica del codice civile che prevedono il “matrimonio” tra persone dello stesso sesso e persino la possibilità per queste coppie di adottare bambini. E si contrappone anche alla decisione presa da un paio di giudici, e poi annullata da altri magistrati, di permettere due “matrimoni” omosessuali celebrati a fine dicembre in Terra del Fuoco e lo scorso 9 aprile (tra due donne di 67 anni) a Buenos Aires. Il matrimonio – ribadiscono i presuli argentini – «non costituisce una mera unione tra persone qualsiasi, ma ha caratteristiche proprie e irrinunciabili» che rendono tale istituto «il fondamento della famiglia e della società». «Così – proseguono – è riconosciuto nelle grandi culture del mondo. Così è riconosciuto dai trattati internazionali recepiti dalla nostra Costituzione. Così è stato sempre compreso dal nostro popolo».

«È compito delle istituzioni pubbliche – sottolineano i vescovi – tutelare l’istituto del matrimonio tra un uomo e una donna attraverso la protezione delle disposizioni legislative che devono poter assicurare e promuovere il suo insostituibile ruolo e contributo per il bene comune della società». Ammoniscono ancora i presuli: «Se si concedesse un riconoscimento legale alle unioni tra persone dello stesso sesso, o si ponessero su un piano giuridico analogo a quello del matrimonio e della famiglia, lo Stato agirebbe in modo erroneo e si porrebbe in contraddizione con i suoi doveri in quanto altererebbe i principi del diritto naturale e l’ordinamento pubblico della società argentina».

I vescovi affermano che la «differenza non è sinonimo di discriminazione», in quanto «la natura non fa discriminazioni quando ci fa maschio o femmina». Così pure «il nostro codice civile non discrimina quando richiede la condizione di essere maschio e femmina per il matrimonio, riconosce solo una realtà naturale». Le situazioni giuridiche di reciproco interesse tra persone dello stesso sesso – evidenziano i presuli – possono essere «sufficientemente tutelate dal diritto comune».

I vescovi guidati dal cardinale Bergoglio fanno presente che «l’unione di persone dello stesso sesso manca di elementi biologici e antropologici del matrimonio e della famiglia». «È assente – ribadiscono – la dimensione coniugale e di apertura alla trasmissione della vita. Al contrario, il matrimonio e la famiglia che si fonda in esso, è il focolare delle nuove generazioni di uomini. Fin dal loro concepimento, i bambini hanno il diritto inalienabile di sviluppare all’interno delle loro madri e di nascere e crescere nell’alveo naturale del matrimonio. Nella vita familiare e nel rapporto con padre e madre, i bambini scoprono la propria identità, si formano nella personalità e raggiungono l’autonomia personale». «Constatare una differenza reale – spiegano infine – non è discriminare». Ed in base a questi ragionamenti rivolgono un appello «alla coscienza dei legislatori affinché, nel decidere una questione di tale gravità, tengano conto di queste verità fondamentali, per il bene del Paese e delle generazioni future».
Gianni Cardinale


© Copyright Avvenire 22 aprile 2010




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Numeri alla mano, ecco cosa c’è dietro la profonda crisi dei matrimoni italiani

In una indagine di pochi anni fa, e che
prendeva in esame le trasformazioni
del matrimonio avvenute nel lungo periodo,
l’Istat aveva scoperto che erano intervenuti
tra gli altri, tra gli inizi degli anni
duemila e trenta anni prima, curiosi
quanto sostanziosi cambiamenti così riassumibili:
(a) l’accresciuta usanza, fino ad
arrivare a interessare pressoché il 100
per cento dei matrimoni, di festeggiare le
nozze con un ricevimento o pranzo nuziale
(b) l’accresciuto numero di invitati a
questo ricevimento, che superava le cento
persone nel 56 per cento dei matrimoni
(c) l’accresciuta quota di coppie che si
recavano all’estero per il viaggio di nozze,
salita decisamente a più di sette su
dieci, quattro delle quali con mete extraeuropee.
Ci sono tutte le ragioni di credere che
relativamente ai punti (b) e (c) l’accrescimento
sia andato ulteriormente avanti
tra i primi anni Duemila e oggi.
Fatto si è che nei primi anni Settanta i
matrimoni superavano quota 400 mila,
mentre, pur con una popolazione di qualche
milione in più, nei primi anni Duemila
quel numero era sceso a 260-270 mila.
Ed è ulteriormente sceso oggi sotto la soglia
dei 250 mila. Con l’introduzione del
divorzio (è da lì che si diparte, dati alla
mano, la crisi dell’istituto del matrimonio)
i matrimoni sono diventati al tempo
stesso sempre meno numerosi e sempre
più sfarzosi/pretenziosi. Non so se sia
possibile stabilire una relazione di causa-
effetto tra numerosità e pretenziosità
dei matrimoni, ma un dato è certo: a sem-
pre meno matrimoni è andato abbinandosi
un sempre maggiore sfarzo degli
stessi e chissà che lo sfarzo (e quindi il
costo) non abbia, a forza di aumentare,
contribuito la sua parte ad assestare un
colpetto all’istituzione matrimoniale. Che
non se la ripassa affatto bene. Affatto. Intanto
con un indice di nuzialità appena
sopra la soglia di 4 matrimoni annui ogni
mille abitanti l’Italia è ormai consistentemente
sotto la media Ue-15. Poi, con appena
3,6 di nuzialità, il nord Italia si viene
connotando come una terra a rischio
de-matrimonializzazione (hai voglia la
Lega di recuperare le radici cattoliche).
Quindi con l’aumento di cinque anni di
età della donna al primo matrimonio,
passata dai 25 ai 30 anni di media nel
breve giro degli ultimi venti anni, quella
italiana sta assumendo il comando delle
donne che nel mondo si maritano meno e
più tardi di tutte. E infine, grazie anche a
una contrazione ancora più cospicua dei
primi matrimoni (ridotti a 212 mila), la famiglia
italiana viene sempre più diradandosi
per un verso e formandosi a età
avanzate di donne e uomini per l’altro.
Di fronte a questa realtà, paradossalmente
assai poco conosciuta, o se conosciuta
assai poco riflettuta, c’è chi non
manca di far notare come tutto il carico
della crisi che non accenna a passare sia
però da mettersi in conto al matrimonio
celebrato con rito religioso. Si fa notare,
infatti, come ben 90 mila dei 246 mila matrimoni
del 2008, pari a quasi il 37 per
cento, siano matrimoni civili, proporzione
che supera ormai il 40 per cento in tutte
le regioni del centro-nord e che aumenta
di anno in anno. Ai supporter del
matrimonio civile vorrei dire che anche
per loro c’è ben poco di che stare allegri,
sol che si vada a vedere un po’ meglio nei
dati. Di quei 90 mila matrimoni, infatti, 30
mila sono con almeno uno sposo divorziato,
e dunque per così dire obbligati al rito
civile, e ben 32 mila con almeno uno
sposo immigrato – matrimoni, questi ultimi,
sui quali pesano etnie e fedi diverse
da quella cattolica e anche una visibilità
volutamente minore, come trattenuta
quasi, di questo tipo di matrimoni. I matrimoni
con rito civile davvero scelti non
stanno avendo affatto tutto quel gran successo
che si immagina. La controprova?
Nei primi matrimoni tra coniugi entrambi
italiani il rito religioso prevale sul rito
civile nella bella proporzione di quattro
a uno, vale a dire che ogni cento di questi
matrimoni 80 si celebrano, ancora oggi,
in chiesa e soltanto 20 in comune.
No, la crisi del matrimonio è profonda
e generalizzata e si inscrive in quella più
ampia difficoltà a fare famiglia oggi in
Italia che testardamente, nonostante i dati
contrari siano ormai più che espliciti,
ci si ostina a considerare esclusivamente
di tipo economico mentre è ancor prima
di origine e consistenza culturali. Nel
frattempo che questa crisi si consuma,
una caratteristica del matrimonio che
prima divideva il paese ora lo sta, dal suo
punto di vista, unificando: il regime della
separazione dei beni tra i coniugi, che riguarda
ormai più di sei matrimoni su dieci
tanto al nord come al sud. Proprio
quello che ci voleva. E’ infatti provato come
“nelle separazioni associate a matrimoni
di più breve durata prevalga la
scelta della separazione dei beni” (Istat).
Chi sceglie la comunione dei beni si separa
di meno e si assicura mediamente
un matrimonio che, anche quando si rompe,
dura molto più a lungo. Cosicché l’unificazione
del matrimonio italiano dalla
Valle d’Aosta alla Sicilia all’insegna dell’accresciuta
separazione dei beni è il
perfetto viatico per una più sollecita fine
tout court del matrimonio stesso.

Roberto Volpi


© Copyright Il Foglio 22 aprile 2010




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Buone ragioni laiche in difesa del matrimonio. La psicanalista femminista Agacinski: il diritto di sposarsi si basa sulla differenza dei sessi

La Corte costituzionale ha dichiarato in parte infondati e in parte inammissibili i ricorsi contro il fatto che il matrimonio, in Italia, sia riservato a persone di sesso diverso, ed è incredibile anche solo essere costretti a doverlo ribadire. Lo ha fatto in Francia, con argomentazioni limpidissime, la voce laica della psicanalista e femminista Sylviane Agacinski, che non ha nessuna paura di sfidare il politicamente corretto e la dittatura del desiderio spacciata per piena realizzazione dei diritti della persona. In un saggio sulla cosiddetta “omoparentalità”, uscito sulla rivista "Commentaire" nel 2007, Agacinski scriveva: “Le rivendicazioni degli ‘omosessuali’, in materia di matrimonio e di ‘parentalità’, vengono avanzate in nome di un’uguaglianza con gli ‘eterosessuali’… categoria di soggetti che non è mai esistita. Gli eterosessuali rappresentano in questo caso una classe immaginaria ritenuta depositaria del ruolo di coloro ai quali la sessualità darebbe il diritto di sposarsi e di avere figli. Si tratta in realtà di pura finzione, perché a permettere il matrimonio non è mai stata la sessualità degli individui, ma soltanto il sesso, vale a dire la distinzione antropologica tra uomini e donne.(…) E’ per questo che la coppia sposata è sessualmente mista e non ‘eterosessuale’. Il fatto che ci si sposi sempre e ovunque con una persona dell’altro sesso appartiene al principio stesso del matrimonio e non ha nulla di aleatorio e di accidentale”. E se se l’ordine umano, sociale e simbolico, conclude Agacinski, “dà agli individui una filiazione doppia, sessuata, maschile e femminile, non è per i sentimenti che possono legare i genitori tra loro, e ancor meno per i desideri che li animano. E’ a causa della condizione sessuata dell’esistenza umana e dell’eterogeneità di ogni generazione, di cui la cultura ha voluto fino a oggi conservare il modello e la traccia”.

Nicoletta Tiliacos



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